Convegno Nazionale CIDI (Centro di Iniziativa Democratica Degli Insegnanti), 25-26 ottobre 2018 – Università degli Studi di Bari, sala Aldo Moro
Di Mariagrazia Perrone
Il volume L’educazione linguistica democratica, appena pubblicato da Laterza, raccoglie vari scritti dell’emerito linguista Tullio De Mauro, purtroppo scomparso appena un anno fa: il titolo indica chiaramente qualcosa di più rispetto all’educazione linguistica “tradizionale” e, infatti, il vero cuore dell’opera sta nell’Appendice che contiene i principi, ispirati al dettato costituzionale, di tale educazione.
Stiamo parlando delle Dieci Tesi per l’educazione linguistica democratica (pubblicate nel 1975 a cura del Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica – GISCEL), quasi un manifesto politico-culturale direttamente ispirato all’art. 3 della nostra Costituzione; un documento che affida alla scuola, agli insegnanti, il compito di garantire a tutti le condizioni culturali della cittadinanza, ossia la partecipazione attiva alla vita democratica.
Il convegno nazionale del CIDI è stato l’occasione per riflettere sull’effettivo impatto che le Tesi hanno avuto, in questi anni, sulla didattica dell’italiano, a partire da una semplice constatazione: il nostro patrimonio lessicale comprende circa 270.000 lemmi; un parlante colto arriva a possederne 47.000 che, nell’uso quotidiano, diventano appena 6.000. Di questi, circa 2.000 formano il cosiddetto “Lessico fondamentale” (praticamente il 90% dei nostri discorsi): “Finché ci sarà uno che conosce duemila parole e un altro che ne conosce duecento, quest’ultimo sarà oppresso dal primo. È la lingua che ci fa uguali”[1].
Come dire che chi non ha un vocabolario mediamente ricco è fuori dal dibattito democratico, è “carne da manovra”.
De Mauro attribuisce a tre figure, Gianni Rodari, don Lorenzo Milani e Pier Paolo Pasolini, il merito di aver capito “l’importanza della conquista delle parole e dei contesti in cui esercitarle come forma di riscatto sociale e garanzia di democrazia”[2].
E proprio sua moglie, la linguista Silvana Ferreri, ha parlato nel suo bellissimo intervento dei Diritti linguistici nella Costituzione: se è vero che la lingua è l’elemento indispensabile dello “stare insieme”, Lingua e Legge condividono questa “capacità di regolazione dei comportamenti degli esseri umani”. L’articolo 3, comma 2, della Costituzione recita così: “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
“Compito”… È l’unica occorrenza di tale parola nei dodici Principi fondamentali. E i compiti… si devono fare! Una scuola, dunque, che sappia valorizzare e ampliare il retroterra culturale di ogni alunno, senza cambiarlo, secondo quella cultura della differenza di cui anche Aldo Moro era consapevole quando affermava che questo “o era un paese plurale, o non era”.
Un’impostazione tanto più urgente oggi di fronte alle nuove modalità comunicative e culturali emergenti, “legate al complesso intreccio fra dealfabetizzazione, pluriculturalità e multimedialità”: occorre interrogarsi sulle esigenze legate non solo alla differenza linguistica e socioculturale degli alunni, ma anche alla “disordinata sovraesposizione a una moltitudine di stimoli, veicolata soprattutto dagli odierni mezzi di comunicazione di massa, che spesso superano le capacità personali di elaborazione, riducono le occasioni di riflessione critica e di comportamento attivo, offrendo modelli di riferimento culturale e linguistico superficiali e stereotipati”[3].
Molto utile a questo proposito l’articolo di Fiorella Paone sull’approccio multimodale, una comunicazione ibrida (passaggio tra i vari codici: testi scritti, orali, audiovisivi, musicali, iconografici, linguaggio corporeo ecc.) che mette fortemente in discussione la routine didattica della maggior parte degli insegnanti; un ampliamento delle competenze linguistiche che, però, deve sommarsi e non sostituirsi alle competenze necessarie nella cultura cartacea, basate sulla profondità e la lentezza dei processi di comprensione, elaborazione e riproposizione.
Anche Mario Ambel ha parlato di questo “nuovo codice linguistico”, non solo ristretto ma “frantumato, destrutturato e in grado di emarginare dal sapere critico”. Secondo l’autore occorre riaprire la Questione della lingua, poiché il cambiamento è tale da coinvolgere non più soltanto i figli delle classi subalterne e i nuovi poveri, ma la quasi totalità della popolazione, dagli adulti ai bambini nei primi mesi di vita.
Il convegno del CIDI ha delineato un quadro che Silvana Ferreri ha lucidamente sintetizzato nelle parole introduttive del suo intervento: “Siamo fuori. Fuori moda. Fuori tempo e fuori dall’onda in cui viviamo”.
Ma nella due-giorni non si è fatta solo una spietata autocritica: tante sono state le idee e le ipotesi di nuovi percorsi di apprendimento; dall’intervento accuratissimo di Maria Piscitelli (per cui si rimanda all’ottimo sito Fucina delle idee) alla passione delle insegnanti Sepe e Sgrosso, fino alla coppia Roberta Passoni – Franco Lorenzoni, della Casa-Laboratorio di Cenci.
Da ogni proposta è emersa la difficoltà di un lavoro tutto in salita: stupisce, di fronte alla oggettiva centralità dell’educazione linguistica, l’assenza di una radicale rifondazione della preparazione degli insegnanti, lasciando alla personale iniziativa l’impegno di elaborare, proporre, formarsi per migliorare le proprie tecniche.
È necessario che scuola, università ed editoria scolastica collaborino concretamente per ridefinire ragioni e tecniche della didattica e, poiché le questioni relative alla lingua e alla sua diffusione sono sempre questioni politiche, “è necessario ribadire il diritto-dovere di tutti all’istruzione non nella logica dell’addestramento di varietà controllate di ‛capitale umano’ funzionali alle logiche di mercato e alla realtà economica e lavorativa esistente (spesso peraltro assai deludente), bensì nella logica del progresso dello sviluppo umano, dell’esercizio dei diritti e dei doveri di cittadinanza e di democrazia, dell’ampliamento e del confronto fra le culture”[4].
Una scuola che fornisce competenze inadeguate è una scuola che accoglie e conferma disuguaglianze, non è una scuola di massa (anche se ci vanno tutti).
Chi davvero fa scuola sa che solo provando e riprovando, attraverso conoscenza e studio, attraverso tutte le discipline, senza lasciare nessuno indietro, si garantiscono tutte le parole a tutti.
[1] Dall’intervento di Alba Sasso, Le ragioni del convegno. Tullio De Mauro e il CIDI, 25 ottobre 2018
[2] Mario Ambel, Il possesso della lingua: una questione (politica) di fondo, 2017 http://www.insegnareonline.com/rivista/opinioni-confronto/possesso-lingua-questione-politica-fondo
[3] Fiorella Paone, Sulla strada delle “Dieci tesi” in prospettiva multimodale, 2018 http://www.insegnareonline.com/rivista/cultura-ricerca-didattica/strada-tesi-prospettiva-multimodale.
[4] Mario Ambel, cit.