di Antonio Errico
Quando gli scrittori si occupano di scuola, lo fanno quasi sempre in modo acuto, nitido, preciso, con una capacità di sintesi essenziale, di focalizzazione dei problemi, di concretezza delle proposte.
L’intervento con cui Paolo Giordano – l’autore di quel bel romanzo che è La solitudine dei numeri primi – apre un dibattito su “La lettura”, l’inserto domenicale del Corriere della Sera del 20 aprile 2014, è chiaro, concreto. Per alcuni aspetti condivisibile, per altri meno. E’, ovviamente, assolutamente condivisibile quando dice che l’Italia che sarà fra trent’anni dipenderà dalla scuola dell’obbligo di oggi. E’ pedagogicamente, psicologicamente, socialmente, eticamente, soprattutto umanamente indiscutibile quando sostiene che ogni studente alienato dall’istituzione scolastica costituisce un debito che dovrà essere saldato dalla collettività entro qualche decennio, con interessi spaventosi.
Paolo Giordano parla di scuola con sensibilità, con partecipazione intensa. So che ci crede profondamente. Ho avuto modo di constatarlo quando presentai il suo libro a Martignano, in provincia di Lecce, nel luglio di quattro anni fa. Si discusse molto di scuola in quell’occasione. Giordano lo fece in modo appassionato. D’altra parte mi riesce difficile pensare a uno scrittore che non si senta coinvolto dai problemi della scuola. Sarebbe una contraddizione strana, una incoerenza sorprendente.
Ma, con tutta la stima per Paolo Giordano, non posso condividere la sua visione di una scuola “sprofondata in uno stato di torpore, di inerzia”. Così dice Giordano; dice che la scuola “appare” così. Appunto: appare. A guardarla un po’ da lontano, può anche apparire così. Ma basta entrarci una mattina qualsiasi per accorgersi immediatamente della tensione da cui è attraversata, dell’energia con la quale cerca di realizzare apprendimenti, processi di costruzione dei saperi, nonostante sia costretta – sempre di più – ad un corpo a corpo con il disorientamento provocato dai continui mutamenti di tendenza, a cercare di non farsi saccheggiare da una burocrazia che è inadeguata, se non completamente estranea alla sua natura, alla sua finalità.
Certo, sarebbe inesatto e forse anche falso dire che va tutto bene. No, non va tutto bene. Ci sono problemi che hanno bisogno urgentissimo di essere risolti. Quello dell’edilizia, per esempio. Quello del numero degli alunni per classe. Quello di una reale valorizzazione degli insegnanti che non ce la fanno più a sentir dire da ogni parte che devono essere valorizzati e poi nessuno riconosce il valore che già hanno. Si sa, si vede, che esiste una società che ha marginalizzato una professione, esattamente quella professione che ne determina ogni altra. Mi chiedo anche come si faccia a non considerare che le eccellenze, che poi facciamo scappare, vengono da un sistema di formazione che va dalla scuola dell’infanzia all’università.
No, non va tutto bene. Ma tanto di quello che non va bene trova le sue cause fuori dalla scuola. Anche dentro si può migliorare molto, senza dubbio. L’orientamento, per esempio. Soprattutto nel passaggio dalla secondaria di primo grado a quella di secondo grado e da questa all’università.
Un orientamento progettato, costante, calibrato sulla personalità di ogni studente, sul suo stile di apprendimento, sulle sue intelligenze, probabilmente ridurrebbe non di poco la percentuale degli abbandoni, della dispersione.
Poi c’è bisogno di un sistema di certificazione delle competenze funzionale all’inserimento nel mondo del lavoro, a conclusione sia della scuola superiore che degli studi universitari.
PER CONTINUARE A LEGGERE QUESTO ARTICOLO DEVI ESSERE ABBONATO! Clicca qui per sottoscrivere l’abbonamento