Abstract
Il rossore che, nel corso del question time a Montecitorio, traspariva dal volto del Ministro della Scuola, seduto in solitudine su uno degli scranni del Governo, fu l’unica apparente reazione alle inclementi accuse di un deputato, che lo riteneva responsabile della modestia dei risultati conseguiti dagli alunni negli scrutini finali del 2001. Ma forse, in cuor suo, nutriva il sospetto che l’ordinamento italiano, così come era strutturato, non favorisse il miglioramento della qualità degli apprendimenti di quei ragazzi.
di Fabio Scrimitore
Poche settimane dopo il suo ingresso nella sala più importante del Ministero della Pubblica Istruzione – correva il mese di aprile del 2000 -, il neo-Ministro, il linguista prof. Tullio De Mauro, stupì i giornalisti svelando loro che in quegli anni, nelle scuole elementari e secondarie italiane, si continuava a far lezione allo stesso modo in cui, fra il IV ed il III millennio prima di Cristo, gli insegnanti spiegavano gli argomenti delle diverse lezioni ed interrogavano i loro allievi nelle aule delle scuole della Mesopotamia sud-orientale, nelle quali 25 o 30 ragazzi sedevano per molte ore in banchi pluri-posto, incidendo, con stiletti di ferro, caratteri cuneiformi sulle piastrelle di terracotta morbida e ricevendone poi la valutazione dei loro maestri.
Liberando l’espressione del Ministro dal chiaro tono iperbolico del suo linguaggio, si potrà convenire che, con quella frase, egli intendesse richiamare l’attenzione degli insegnanti italiani sull’ ineludibile necessità di adottare metodi di organizzazione della didattica d’aula e di valutazione del profitto più consoni all’evoluzione sociale e tecnologica dei tempi nuovi, in modo che si potessero migliorare i risultati finali degli alunni e degli studenti. Tanto perché, dalle rilevazioni che, già in quegli anni iniziali del terzo millennio, si effettuavano con i questionari somministrati in aula dall’I.N.V.A.L.S.I. e dall’O.C.S.E.-P.I.S.A., la preparazione degli alunni e degli studenti italiani, per quel che riguarda la comprensione del senso di un testo letterario, della risoluzione dei problemi di matematica e dell’acquisizione delle teorie scientifiche, risultava inferiore alle attese.
A giudizio del neo-Ministro della Scuola, una delle cause che avrebbero potuto spiegare quei deludenti risultati sarebbe stata l’organizzazione dell’insegnamento, rimasta, a suo giudizio, sostanzialmente la stessa che alle nostre scuole elementari, ai licei ed agli altri istituti secondari superiori avevano dato i Ministri del Regno d’Italia. Si stava in aula inquadrati in banchi biposto, davanti a cattedre dalle quali il maestro, o il professore, spiegava gli argomenti delle lezioni allo stesso modo in cui il sacerdote celebrava la Messa. Non ci si poteva allontanare dal banco senza esserne stati preventivamente autorizzati. Gli alunni venivano interrogati e valutati, in generale, con il metodo che i pedagogisti chiamano “compromesso delle risposte corrette”, il classico metodo che consentiva allo studente di riportare buoni voti soltanto se rispondeva alle domande ripetendo pedissequamente le stesse frasi adoperate dal maestro durante la lezione. Infatti, gli alunni più diligenti usavano prendere continuamente appunti scritti, che poi avrebbero mandato a memoria a casa e ripetuto in classe in occasione delle interrogazioni.Tutto questo avveniva nonostante i nuovi orizzonti che erano stati dischiusi dalla ricerca psico-pedagogica sugli stili di apprendimento in aula, la quale oggi suggerisce ai programmatori dei sistemi scolastici nazionali ed agli insegnanti di instaurare nelle aule un clima nuovo, tale da indurre gli alunni a sentirsi più attivamente coinvolti nello studio delle diverse discipline dei curricoli scolastici, nella convinzione che l’apprendimento dei vari argomenti è più agevole ed efficace se l’alunno vi giunge per scoperta, e non soltanto per mera ricezione passiva.
Insieme con i più modesti risultati che gli alunni e gli studenti italiani sembravano raggiungere rispetto ai coetanei delle altre 37 nazioni dell’O.C.S.E. (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), preoccupavano il Ministro del tempo le percentuali di quelli che abbandonavano la scuola prima di aver conseguito il prescritto titolo di studio.
In definitiva, sia la modestia dei risultati conseguiti al termine del ciclo di studi obbligatorio, sia gli abbandoni scolastici in corso d’anno, a giudizio del Ministro De Mauro, potevano essere ascritti allo scarso interesse e alla insufficiente motivazione con i quali gli studenti partecipavano alle lezioni in aula.
Peraltro, si può ipotizzare che il prof. De Mauro ritenesse che lo scarso interesse a frequentare le lezioni fosse da imputare soprattutto al fatto che la scuola sembrava aver perduto la storica funzione di migliorare lo status professionale dei diplomati e, in generale, le loro condizioni di vita sociale; sui giornali del tempo si continuava a leggere, al riguardo, che essa aveva smesso d’essere quell’ascensore sociale che in passato aveva consentito al figlio del falegname di esercitare la professione di avvocato o di medico.
Il prof. De Mauro sapeva bene che l’apprezzamento sociale degli esiti degli apprendimenti scolastici degli alunni dipende da due fattori: in primo luogo, dalla efficienza della struttura organizzativa che il Parlamento predispone per il sistema dell’istruzione ; in secondo luogo, come si è già affermato, dall’efficacia della didattica che gli insegnanti adottano nelle aule.
Salendo per la prima volta le scale del Ministero della Pubblica Istruzione, il buon Ministro avrà portato con sé la convinzione che non avrebbe avuto molto da dire, e forse neppure da fare, in materia di organizzazione scolastica, dal momento che il 10 febbraio del 2000, cioè soltanto tre mesi prima della sua nomina (26 aprile del 2000), il Parlamento aveva approvato la legge-quadro n. 30 – sul riordino dei cicli scolastici – , voluta dal suo predecessore, Luigi Berlinguer, legge, quella, che avrebbe realizzato la più grande delle riforme strutturali che erano state concepite ed approvate dopo la riforma di Giovanni Gentile del 1925. Incidentalmente, si ricorda che quella legge era tanto innovativa da aver ridotto, da 13 a 12 anni, la durata dei corsi delle scuole pre-universitarie ed aveva trasformato in licei tutti i corsi di studio degli istituti successivi alla scuola media. Quella riforma, però, non ha mai potuto vedere la luce; la sua legge istitutiva, infatti, venne abrogata dal Parlamento il 10 febbraio del 2003, su proposta della signora Moratti, che sostituì il Ministro De Mauro l’11 giugno del 2001, quando il Presidente Mattarella richiamò Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi.
Il Ministro De Mauro non poteva certo prevedere che la riforma dei cicli scolastici di Berlinguer sarebbe stata cancellata subito dopo il suo insediamento, sicché la gran parte dei suoi impegni in materia di organizzazione scolastica sarà stata verosimilmente assorbita dalla preparazione dei decreti legislativi che avrebbero dovuto dare attuazione concreta alla citata legge-quadro n. 30.
Sapeva altrettanto bene, poi, il prof. De Mauro, quanto sia difficile e problematico per il Ministro della Scuola incidere direttamente sulla didattica applicata dagli insegnanti nelle aule a causa dell’obbligo che l’articolo 33 della Costituzione impone alla legislazione ordinaria, oltre che all’amministrazione attiva, di rispettare la libertà di insegnamento, cioè il fondamentale diritto dei docenti di esercitare l’insegnamento secondo i principi della deontologia professionale, che deve essere conforme ai metodi elaborati dalla comunità scientifica nazionale e recepiti dal Parlamento.
Proprio rispettando tali limiti, il Ministero, negli anni successivi alla stagione in cui operò De Mauro, avrebbe fatto giungere ai dirigenti scolastici le attese Indicazioni Nazionali per il curricolo per gli istituti dei due cicli scolastici e le Linee-guida per gli istituti tecnici e professionali, con le quali raccomandava agli insegnanti di seguire dei percorsi didattici di massima – conosciute e praticate ancora oggi come vere e proprie piste culturali e didattiche -, che sarebbero state, poi, tradotte in obiettivi di apprendimento e in traguardi per lo sviluppo delle competenze personali, sociali e professionali, che la società si attende dagli studenti al termine dei cicli scolastici. A queste piste didattiche si sarebbero potuti ispirare gli insegnanti per programmare e realizzare la loro attività di insegnamento nelle aule, avvalendosi, ovviamente, del necessario e discreto coordinamento dei collegi dei docenti, affidato ai dirigenti scolastici.
La qualificata professionalità pedagogico-didattica, che gli insegnanti conseguono nei corsi di laurea in scienze della formazione primaria, o nei corsi di specializzazione didattica, organizzati dalle Università per abilitare gli aspiranti all’insegnamento nelle scuole secondarie, consente poi di realizzare nelle aule le relazioni didattiche personalizzate alunno-docente che possono far conseguire le otto competenze-chiave per l’apprendimento permanente, che l’Unione Europea ha suggerito ai Parlamenti ed ai Ministri dei 27 Stati membri come obiettivi finali dei sistemi educativi nazionali.
Come ogni altro suo predecessore, accettando l’incarico di Ministro, il prof. Tullio De Mauro si sarà proposto di individuare gli spazi che la legge gli offriva per migliorare gli apprendimenti scolastici degli studenti. Scorrendo l’organigramma del Ministero, si sarà forse smarrito fra le diverse Direzioni Generali, avendole trovate impegnate soprattutto nella gestione di risorse finanziarie e nell’ amministrazione del personale insegnante, e non, in servizio o da assumere per concorso. Di organismi ministeriali interni, chiamati a collaborare con gli insegnanti in materia didattica non avrà trovato granché, a parte le competenze, affidate dalla legge all’INVALSI, in materia di valutazione del sistema scolastico – non per quel che riguarda la valutazione del profitto tratto dagli alunni, che rimane di competenza esclusiva del consiglio di classe d’ogni singola scuola -, ed all’INDIRE, in tema di ricerca educativa.
In un sistema scolastico così strutturato, non sarà facile per un Ministro trovare spazi di intervento che possano consentirgli di incidere direttamente sul profitto degli alunni. A meno che non si creda che si possano raggiungere risultati apprezzabili semplicemente sostituendo la valutazione in voti numerici da 1 a 10 con l’assegnazione di giudizi sintetici descrittivi (ultimo esempio: avanzato, intermedio, base, in via di prima acquisizione), oppure stabilendo per legge con quante insufficienze l’alunno possa essere ammesso alla classe successiva o, ancora, abolendo i tradizionali esami di riparazione ed istituendo i corsi estivi di recupero.
Non è improbabile che il prof. De Mauro si sia fatto turbare dall’idea che attualmente le leggi non consentirebbero al singolo Ministro di incidere sulla qualità degli apprendimenti scolastici più di quanto la forza di gravitazione universale incida sulla dinamica degli elettroni intorno al nucleo. Potrà aver generato questa ipotizzata convinzione del Ministro la constatazione che leggi, regolamenti, decreti e circolari, finalizzati a migliorare la qualità degli apprendimenti scolastici, dovrebbero produrre effetti sostanzialmente uniformi in tutte le scuole delle 20 regioni italiane. I risultati delle indagini PISA e INVALSI non confermano, però, tale convinzione, così come non la conferma l’ inspiegabile prevalenza in alcune regioni, rispetto ad altre, dei centodieci e lode generosamente elargiti ai candidati degli esami di Stato.
Un giorno sul volto del Ministro De Mauro si sono scorti i segni d’ una irrefrenabile commozione dinanzi alle vibranti espressioni di insoddisfazione, rivoltegli da parlamentari di opposizione come reazione alla risposta che egli aveva dato loro nel corso di un question-time pomeridiano, in merito alla rituale occupazione pre-natalizia degli edifici scolastici da parte degli studenti.
La commozione del buon Ministro De Mauro, forse, esprimeva anche la convinzione che sullo scarso interesse dimostrato dagli alunni in aula, ma anche sugli abbandoni scolastici prima del conseguimento del titolo di studio, influisse la constatazione che il titolo di studio oggi non funziona più come ascensore sociale. Convinzione, questa, che contraddice l’impegno con il quale le élite della società investono una parte consistente dei loro redditi per far frequentare ai figli prestigiosi istituti, le cui rette non sono certo alla portata della stragrande maggioranza delle famiglie italiane.