• lunedì , 30 Dicembre 2024

Regionalizzare anche la scuola?

di Antonio Santoro

“La scuola deve essere di tutti, parlare a tutti, valere la pena per tutti. Lo ribadisco, ogni ragazzo perso è una sconfitta per la scuola e per l’intera società […].

Che fare? La nostra carta costituzionale, laddove introduce il concetto di livello essenziale delle prestazioni (LEP), indica la strada da seguire. Con i LEP è in gioco l’esigibilità concreta (ovvero in termini di prestazioni e di organizzazione strutturale conseguente) dei <diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale> (art. 117, comma 2, lett. m)”.

(Lorenzo Caselli)

Torna, con il Governo Meloni, la prospettiva dell’autonomia regionale differenziata, e incontra ancora riserve e preoccupazioni di notevole rilievo. Si richiamano, tra le altre, le considerazioni espresse in passato da Alberto Asor Rosa, il quale, nel sottolineare che la scuola rappresenta, “insieme con pochissime altre branche dello Stato, una delle strutture unitarie ancora funzionanti”, riteneva del tutto evidente “che l’autonomia regionale differenziata avrebbe lo scopo di spezzare questa spina dorsale del Paese, ridurla in briciole, sottometterla a interessi particolari di ogni genere” (la Repubblica, 28 febbraio 2019). E si concorda, sostanzialmente, con l’affermazione che <La qualità della scuola non passa dalla regionalizzazione del nostro sistema di educazione e di istruzione, bensì dalla volontà politica e dalla capacità di promuovere e favorire innanzitutto, senza soluzioni di continuità, l’efficacia dell’azione didattica e il benessere di tutti i docenti> (1).

Sulla base di tale convincimento, si rinnova piuttosto <la specifica richiesta di azioni politiche, a favore dell’attività educativa e didattica, che si concretizzino e si sviluppino secondo una logica performativa e una logica supportiva> (2): “Entrambe mirano ad accrescere l’efficacia degli insegnanti, diversa però è la strategia su cui si fondano e diverse sono quindi le leve di policy che privilegiano. La logica performativa si fonda sull’idea che gli insegnanti debbano essere incentivati […] ad accrescere la propria efficacia aumentando il proprio impegno e la propria competenza, mentre la leva supportiva si propone di creare le condizioni di contesto che possano incrementare l’efficacia degli insegnanti accrescendone il benessere. Si tratta evidentemente di una contrapposizione utile per fini euristici, perché nella realtà le due logiche di intervento tendono a sovrapporsi” (3).

In termini più generali, le voci critiche confermano la necessità di una politica per la scuola saldamente ancorata all’articolo 117 della nostra Costituzione, che riserva allo Stato la “legislazione esclusiva” a proposito delle “norme generali sull’istruzione” e che quindi non prevede che una dilatazione interessata del principio di sussidiarietà porti a “una vera e propria regionalizzazione della scuola (la quale) determinerebbe, ancor più in assenza della determinazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni da garantire sull’intero territorio nazionale, una crescente sperequazione nell’istruzione fra i giovani italiani; disparità negli aspetti normativi ed economici dei docenti; l’intrusione delle autorità regionali nelle finalità stesse della scuola” (4). Le priorità da considerare, allo scopo di evitare il persistere di “divari particolarmente allarmanti” (5), sono dunque altre: riguardano appunto, anche per il sistema-scuola, la definizione dei LEP e la conseguente individuazione/assegnazione delle risorse ritenute indispensabili affinché quei livelli di prestazione trovino, finalmente, possibilità di concreta realizzazione nelle diverse ‘parti’ del nostro Paese, in modo da garantire a tutti, in quanto italiani, l’effettivo godimento dei diritti fondamentali in materia di istruzione.

Com’è noto, siamo oggi piuttosto lontani dal raggiungimento di questo obiettivo, perché il “fallimento formativo” continua ad essere un dato abbastanza diffuso nel nostro Mezzogiorno. “Lo sanno tutti e tutte coloro che si occupano di educazione in questo Paese. Sanno che incredibilmente, a oltre mezzo secolo da Don Milani, uno dei problemi principali della scuola italiana è l’elevato numero di ragazzi e ragazze che si perde per strada o che non si forma in modo adeguato, non solo per trovare facilmente lavoro ma anche per esercitare a pieno titolo i propri diritti e doveri di cittadinanza” (6).

E’ una situazione che, comprensibilmente, suscita vive preoccupazioni: una situazione che dipende, certo, da condizioni esterne, ma che ancora non trova, anche all’interno del sistema di educazione e istruzione, risposte apprezzabili di riduzione delle ineguaglianze, per i limiti che derivano dal taglio continuo di risorse alla scuola pubblica e/o per inadeguatezze di vario genere, spesso trascurate o scarsamente considerate da progetti di riforma dal respiro corto. Le prospettive di cambiamento migliorativo che non riusciamo a realizzare incontrano, a livelli e in ambiti diversi, impedimenti e ostacoli in visioni che, al di là della retorica di circostanza, non guardano realmente alla scuola come un bene comune che “costituisce il più solido anello di congiunzione tra generazione e generazione, tra un’età presente che sta rapidamente cambiando e quel futuro che vogliamo costruire – proprio a partire dalla scuola – dando un senso alle trasformazioni in atto […]. Se il nostro paese non sceglie di investire in educazione, ha già rinunciato a crescere, non solo economicamente. Ma l’educazione vive di tempi lunghi: non basta un emendamento introdotto in finanziaria o una misura estemporanea. L’educazione ha bisogno di un respiro ampio, di un comune sentire, di uno sguardo attento sia ai mutamenti in atto sia ai bisogni vecchi e nuovi di tutta la società civile” (7). Che sempre più chiede alla politica di investire nel sistema formativo maggiori risorse al fine di promuovere, nella diversità dei contesti territoriali, sia lo sviluppo delle “persone più dotate e ottenere esiti sociali migliori, che poi possono essere ridistribuiti”, sia la crescita delle “persone meno dotate, per ridurre le disparità” sociali (8).

Si tratta, evidentemente, di una prospettiva di azione virtuosa finalizzata allo sviluppo dell’equità nella scuola, soprattutto – ma non solamente – per porre fine a “quell’ingiustizia che (addirittura) nega a una parte dei giovani l’apprendimento dei <fondamentali>” negli anni dell’obbligo scolastico e che “è tanto più insopportabile in quanto a farne le spese sono sempre, inequivocabilmente, gli studenti delle stesse classi sociali” (9).

Note

1. A. Santoro, Dividere la scuola? Meglio sostenerla adeguatamentesenza distinzioni, Scuola e Amministrazione, n. 4, Aprile 2019, p. 8;

2. ibid.;

3. Gianluca Argentin, Gli insegnanti nella scuola italiana. Ricerche e prospettive di intervento, il Mulino, Bologna 2018, pp. 161-162;

4. Gianfranco Viesti, Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale, Laterza, Bari 2019, p. 48;

5. cfr. Camilla Borgna ed Emanuela Struffolino, Una scuola diseguale, il Mulino, n. 4/22, pp. 88-92;

6. Enrica Morlicchio e Andrea Morniroli, Svogliati, fannulloni: la pacchia è finita (articolo pubblicato sul sito della rivista il Mulino il 28 novembre scorso);

7. L. Caselli, La scuola è un bene comune?, in L. Caselli (a cura di), La scuola bene comune, il Mulino, Bologna 2009, p. 22;

8. cfr. Luisa Ribolzi, Più equità, più felicità? Equità del sistema formativo e ben-essere, in L. Caselli (a cura di), cit., pp. 92-93;

9. Norberto Bottani, Nessuna scuola è un’isola: come sviluppare l’equità tra scuole, in L. Caselli (a cura di), cit. p. 109.

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