• sabato , 21 Dicembre 2024

Quasi nulla… quasi tutto

Nell’ultimo saggio del filosofo Alfonso Cariolato (Uscire da nulla. Le arti, l’opera, Mimesis, 2023) viene delineato un excursus alla cui base è la filosofia dell’arte e un’estetica declinata nei suoi aspetti immanenti e trascendenti; allo stesso tempo viene tratteggiata una mappa storico-artistica con tante diramazioni: “dei ricorsi, degli avanzamenti e dei ritorni che costellano la storia dell’arte e che costituiscono degli elementi formali necessari a ogni analisi”

di Antonio Lupo

All’origine del fare un’opera d’arte vi è qualcosa di inconsapevole e incerto, un uscire da nulla per affidarsi all’ignoto, abitando l’incertezza. Un quasi nulla… che è quasi tutto, tra l’indeterminato e l’indeterminabile, l’indefinibile e l’inafferrabile, che si sostanzia nel percorso universale di una creazione artistica che non ha limiti.

Alla base del processo creativo, vi è infatti un vuoto, scrive l’autore, ma è proprio questo a provocare la pienezza e il raggiungimento dell’imprevedibile esito, nonostante le complicanze e le contraddizioni, gli inediti approcci, i ripensamenti e i rifacimenti, i dubbi.

Attraverso un’indagine a largo raggio su diversi aspetti della comunicazione artistica, dal Paleolitico al contemporaneo, vengono messi in luce inusuali e utili parallelismi, nonché interessanti spunti di riflessione sullo status dell’artista, sulle dinamiche della produzione e della fruizione dell’opera d’arte, sul mondo dell’immaginario.

Ne emerge una stimolante analisi sul rapporto tra tradizione e innovazione (i ripensamenti e le deflagrazioni), corroborato da dettagli estetici: linea, colore, volume, bidimensionalità e spazio prospettico, arte orientale e occidentale, ecc. All’interno dei diversi contesti, è possibile così fare una importante e duratura distinzione di linguaggi e stilemi, a partire da quelli che derivano dall’arte egizia e quelli di ascendenza greco-romana; una preziosa chiave di lettura che procede sulla scorta dei tratti ricorrenti: dalla linearità essenziale alla tridimensionalità, dalla fase ottica a quella tattile, dalla “prospettiva rovesciata” delle icone bizantine a quella geometrica e coloristica, dalla plasticità rinascimentale al pittoricismo barocco.

Un percorso storico-artistico ed estetico, ricco di argomentazioni e citazioni bibliografiche che vanno dai presocratici ad Adorno, da Deleuze a J.-L. Nancy, al quale è dedicato il lavoro. Tanti sono perciò i puntuali riferimenti ai teorici dell’arte (A. Riegl, W. Worringer, H. Wölfflin) e allo sviluppo storico-filologico dell’estetica che accompagnano il lettore, fino alle riflessioni sull’ipertrofia creativa dei nostri giorni e sui condizionamenti del mercato d’arte.

Non mancano nella prima parte del volume, quella più specificatamente teoretica, gli approfondimenti di questioni filosofiche, mentre nella seconda parte la trattazione è integrata dall’approccio critico a quattro artisti contemporanei. Nella analisi delle loro opere, Cariolato si sofferma su quegli elementi stilistici che riportano ai retaggi di una tradizione pittorica da superare e cancellare, e sulle trasgressive direzioni espressive, mettendo a fuoco compiutamente le peculiarità dirompenti dell’Espressionismo astratto e dei movimenti artistici del Dopoguerra, tra analogie e differenze, persistenze e cambiamenti.

Una lettura molto coinvolgente in un viaggio tra i dripping di Jackson Pollock, il lasciar andare musicale di John Cage, l’incerto, il casuale, il possibile di Robert Rauschenberg e il determinato-indeterminabile di Francis Bacon.

Ciascuno a modo suo ha travolto “una barriera che è innanzitutto mentale”, afferma l’autore, come ben risulta dai puntuali riferimenti ai linguaggi stilistici presi in esame.

Gli poniamo alcune domande:

Quali insegnamenti filosofici ritiene le siano stati utili per poter leggere la realtà dell’arte contemporanea? Tutta la sua ricerca ruota intorno all’estetica e alla filosofia dell’arte, qual è oggi la situazione (epistemologica?) di queste discipline?

Se ripenso al mio lavoro, mi sembra che tutto tragga spunto da quanto diceva Rimbaud intorno allo sregolarsi di tutti i sensi. È di questo che è questione con l’opera d’arte. Quello che ho cercato di fare, dunque, è proseguire in questa direzione. Con l’arte i nostri sensi subiscono una scossa, si spostano dai loro assi, vagano a vuoto senza punti di riferimento o con delle coordinate che all’analisi si rivelano estremamente labili. E così qualcosa accade. L’arte non ha alcuna finalità, anche quando l’artista si pone degli scopi ben precisi. Se funziona, infatti, l’opera li trascende o, anche, l’opera funziona perché eccede qualunque fine e fattore scatenante. Direi che essa ha a che fare con l’aprirci alle cose così come sono, vale a dire radicalmente altre e, nel contempo, assai prossime a noi. Da qui anche la difficoltà di indicare gli strumenti per accostarsi all’arte contemporanea, al di là di quelli a cui faccio espressamente riferimento nel testo, e che del resto sono noti a tutti. A un certo punto della sua evoluzione l’arte esce da ogni canone o schema, e vaga in una sorta di terra di nessuno molto stimolante, nella quale tutto è appeso a un filo. L’opera può perdersi o riuscire, senza che in fondo si possa dire perché. In questo è tangente alla vita. Ed è questo a renderla preziosa e insostituibile.

Nella prima parte della sua ricerca (“Lo scarto, il crollo, l’imprendibile”), a proposito delle pitture parietali del Paleolitico, scrive: “la pittura delle caverne compendia per intero l’arte, le arti: tutto quello che verrà dopo, sarà stato in qualche modo una piega del gesto ancestrale”…

Sì, è proprio così. Le pitture paleolitiche sono una tempesta che feconda tutto quanto verrà dopo. Quegli animali maestosi sono il frutto di un atto inaudito che non cessa di ossessionarci. Gli uomini preistorici lavoravano negli oscuri recessi delle caverne, illuminando la piccola porzione di roccia su cui dipingevano con dei lumini che erano pietre incavate in cui veniva depositato del grasso, con un po’ di paglia a mo’ di stoppino. L’atto del dipingere avveniva in una luce tremolante, incerta. Tutto si muoveva ed era vivo, compresa la parete, di cui si sfruttavano le asperità, le levigatezze e le protuberanze. È un gesto gratuito e il tema di questo aggettivo è, com’è noto, lo stesso di gratus, gratia. Ma questo è quanto non si può dire, né toccare, né udire. Così, sarà questione di un “quasi nulla”, intendendo con questo sintagma un venir meno, un sottrarsi, che altro non è se non il vuoto imprendibile che in qualche modo ci attraversa nel creare e nel fruire l’opera.

Nella seconda parte del suo libro si addentra nella lettura estetica di quattro artisti, tra i quali un musicista, che testimoniano – come lei dice in un’intervista – una sorta di “preistoria del contemporaneo”, in che senso è da intendere questa affermazione?

Non c’è dubbio che le opere degli artisti che prendo in considerazione nel mio libro siano quelle – insieme ad altre, beninteso – che più hanno segnato il contemporaneo. D’altra parte, però, è altrettanto evidente che queste opere non siano più al centro del fare arte che ci circonda, e che dunque siano “contemporanee” in un’accezione piuttosto remota. “Preistoria”, allora, nel duplice senso di ciò che viene prima della situazione che stiamo vivendo e la prepara, ma anche nel senso di un “prima” carico di possibilità inespresse che ancora incide il presente, anche se questa volta non direttamente, si direbbe per differenza e contrasto, se non in contraddizione, e da una distanza – per quanto vicina dal punto di vista cronologico – sideralmente aliena e imprendibile. In altre parole: Pollock, Cage, Rauschenberg e Bacon, ognuno in maniera diversa, appaiono più come oggetti misteriosi e perciò ancora degni di curiosità e attenzione, piuttosto che come delle “icone” della storia dell’arte, utili unicamente al mercato o agli studi antiquari o ai consueti panegirici fatui, e tutti stucchevolmente uguali, che si leggono in occasione di mostre in cui questi artisti sono protagonisti. Mi interessa la resistenza che queste opere ancora oppongono al sistema, e l’uso dunque che ancora si può farne, soprattutto per il pensiero.

Fin dalla realizzazione di opere che escono fuori dai limiti del quadro, nel suo saggio si riportano varie esperienze e rimandi a opere dal colore materico, al drip painting, a quelle che sono tutt’uno con la natura, a quelle oggettuali e concettuali; tra ibridazioni, mescolanze, e l’inevitabile rapporto tra artista e la mercificazione-reificazione dell’opera d’arte, che cosa oggi le sembra determinante ai fini della creatività e della comunicazione artistica, considerato l’eccesso di senso, dovuto alla robotica, ai Non-fungible token, all’intelligenza artificiale?

L’arte ha sempre a che fare con l’ambiente che la circonda e con il proprio tempo. Perciò è chiaro che qualsiasi mezzo utilizzi, in cui si muova e con cui agisca può produrre senso. Nessuna preclusione, dunque, nei confronti delle nuove tecnologie e del loro impatto con il mondo dell’arte. Va da sé, tuttavia, che ciò non basta. L’utilizzo di un determinato materiale non garantisce alcunché. I nuovi approcci sono interessanti e, a volte, assai incisivi, anche se spesso restano a livello di tentativi, di esperimenti. Quello che è decisivo, invece, è il rimando alla materialità di questi strumenti. Voglio dire che anche le arti più immersive e che lavorano nel campo della realtà virtuale sono rese possibili da uno sfruttamento materiale delle risorse (naturali e umane) che sovente viene completamente dimenticato. Credo allora che nel nostro tempo si renda necessario ripensare al feticismo delle merci di cui parlava Marx, anche in ambito artistico. Questa è l’urgenza più impellente, altrimenti tutto diventa ideologia anche quando si presenta come contestazione o, peggio, si riduce a illusione e/o divertimento. Per quanto riguarda la reificazione, invece, beh, credo sia sotto gli occhi di tutti. Mai come adesso l’arte è diventata un business a livello planetario. Anche se occorre dire che qualcosa passa sempre, anche nelle situazioni più compromesse. Con ciò emerge una specie di scabrosità dell’opera, la quale resta irriducibile a ogni apparato che voglia toglierle la potenza di opposizione e liberazione. È soprattutto questo fondo non assimilabile ciò che conta nell’arte.

Alfonso Cariolato

R. Rauschenberg, Canto I, The Dark Wood of Error, from the series Thirty-Four Illustrations for Dante’s, Inferno,1958

R Rauschenberg, Bed,1955, Combine, The Museum of Modern Art, New York

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