trasversale e disciplinare insieme
di Rita Bortone
Dalla programmazione didattica individuale ad una articolata progettazione formativa d’istituto
Nelle scuole accade spesso che il lessico nuovo si adotti senza che quello vecchio venga cancellato, e così parole e concetti si mescolano e si sovrappongono e a volte non si sa più a cosa ciascuno di essi si riferisca.
Recentemente mi è capitato che un insegnante mi abbia chiesto chiarimenti su come doveva fare la sua programmazione didattica disciplinare. Non mi è stato facilissimo rispondergli, perché non volevo mettere in discussione il compito che gli era stato chiesto e il lessico utilizzato, né avevo voglia di spiegare cose che partivano da Adamo ed Eva, ma nello stesso tempo non volevo lasciarlo del tutto privo di consapevolezze sullo stato dell’arte (progettuale) nella scuola d’oggi.
Cos’è per quella scuola, mi sono chiesto, la programmazione didattica disciplinare? In che senso l’insegnante la considera la sua programmazione? E com’è possibile che non sappia come farla? E come si rapporta, questa sua programmazione, con il Pof, il curricolo, i documenti dipartimentali, i documenti d’asse, le progettazioni di classe? Ma queste domande si pongono solo per la scuola di quell’insegnante o anche per altre scuole?
Senza voler fare una storia della progettazione formativa nella scuola italiana, qui ricordiamo soltanto che la programmazione didattica (formula linguistica e relativo concetto) nasce in un momento in cui la scuola, ancora vincolata a specifici programmi, comincia tuttavia a porsi come finalità la formazione dell’alunno e non la trasmissione della conoscenza (Nuovi programmi per la Media del ‘79). Scompare dunque la stesura individuale dei programmi disciplinari, che ciascun insegnante aveva fino a quel momento elaborato con suoi propri criteri sulla base dei programmi nazionali, e prende vita la stesura di documenti (programmazioni, appunto), in cui il singolo insegnante esplicita, per ciascuna disciplina, gli obiettivi (variamente classificati) che perseguirà nell’insegnamento, i contenuti che affronterà, le relative metodologie didattiche, i criteri di verifica e valutazione che adotterà.
Oltre alle programmazioni didattiche disciplinari, la pratica progettuale di allora prevede le programmazioni dei Consigli di classe, documenti che presentano la classe sotto il profilo sociale, culturale e comportamentale, definiscono gli obiettivi comuni da perseguire e le intese metodologiche tra docenti, esplicitano criteri didattici e valutativi comunemente assunti.
Quelle modalità di progettazione risultavano coerenti con la struttura e l’impianto organizzativo di quel sistema: lo Sato dettava i programmi, il Preside era garante della loro applicazione, i docenti avevano la responsabilità individuale della loro attuazione e finalizzazione. La collegialità trovava spazio nelle decisioni didattiche generali del Collegio dei docenti e nelle decisioni operative e contestuali del Consiglio di classe: questo era il momento delle decisioni comuni e lì si assumevano intese, lì si cominciava a parlare di interdisciplinarità.
Da quando è arrivata l’Autonomia le cose sono cambiate completamente. Lo Stato detta le norme generali sull’istruzione ed indica gli obiettivi formativi, ma ciascun istituto è, nella sua autonomia funzionale, responsabile della propria offerta formativa (Pof), unitaria e caratterizzante, e delle modalità con cui essa viene progettata, realizzata, valutata. Ciascun istituto ha dunque da perseguire unitariamente il profilo dello studente indicato dalla norma, ha da sviluppare unitariamente le competenze indicate dalla norma, ha da interpretare unitariamente i saperi e i contesti da proporre agli allievi, ha da valutare unitariamente gli esiti d’apprendimento. Non ci sarà più (non dovrebbe esserci più) la matematica del prof. X e la matematica del prof. Y, la letteratura della prof. Z e quella della prof. Q. Ci sarà (dovrebbe esserci) la matematica dell’istituto X e quella dell’istituto Y, e così via per ciascuna disciplina. Ciascun istituto rispetterà la libertà d’insegnamento di ciascun docente, ma esigendo da lui il rispetto della collegialità delle scelte in nome dei comuni risultati attesi. E’ evidente che ci sarà sempre grande differenza tra la matematica del prof. X e la matematica del prof. Y, ma ciò sarà legato alla qualità culturale e professionale del docente, alla sua capacità comunicativa e relazionale, alle sue risorse strumentali, alla sua padronanza strategica, non alla concezione della matematica ed ai risultati che il suo insegnamento dovrà produrre: queste sono ormai decisioni collegiali.