• mercoledì , 16 Ottobre 2024

Per una scuola dai cento linguaggi

di Antonio Santoro

<… la questione del riconoscimento delle storie, delle capacità, delle esperienze di vita e famigliari di ogni bambino, così come la considerazione dei saperi veicolati dalle minoranze nel contesto scolastico italiano, è un tema centrale anche per la scuola italiana del tempo presente>.

(Anna Granata)

Dai risultati delle Prove INVALSI 2024 la conferma, sostanziale, che anche in ambito di istruzione il nostro resta un Paese diseguale, per <la radicata permanenza di forti disparità territoriali […], segnale di un sistema scolastico scarsamente equo>, perché non sempre in grado di dare adeguata concretezza alla avvertita “esigenza di garantire non un <minimo>, ma differenziate possibilità di apprendimento anche in presenza di condizionamenti dovuti alla provenienza da ambienti socialmente sfavoriti” (1): dunque, “di adattare contenuti e processi pedagogici ai bisogni specifici degli allievi (per) <una gestione equa della eterogeneità>” (2).

Preoccupano, in particolare, i valori ancora alti dell’abbandono della scuola, ed è pure fonte di viva preoccupazione il dato riguardante la povertà educativa, cioè il fatto che non siano pochi gli studenti che completano oggi “il percorso scolastico senza aver acquisito le competenze fondamentali, quindi a forte rischio di avere limitate prospettive di inserimento nella società”.

La dispersione scolastica, esplicita ed implicita, mostra consistenze di maggior rilievo quando lo sguardo si volge a considerare la presenza nel sistema di educazione e istruzione dei figli degli immigrati, i quali, per la diversità delle loro culture, evidenziano innanzitutto la necessità di “interrogarsi sul ruolo potenzialmente perequativo della scuola, anche nei confronti degli studenti di origine straniera” (3).

La formazione dei figli dell’immigrazione è, evidentemente, una prospettiva ad alta criticità, che non si persegue di certo con “la retorica dell’inclusione che nasconde ogni polvere sotto il tappeto” o con “il disconoscimento della specificità del problema in nome di povertà o fragilità generiche” (4). Nella realtà della nostra scuola, <in assenza di modifiche strutturali e di un adeguato governo dei processi, si è fatta avanti la solita innovazione a macchia di leopardo. Se ci sono scuole eccellenti, capaci di costruirsi le risorse finanziarie e professionali necessarie (da sole, in rete, col supporto di enti locali, fondazioni, associazioni, università), ce ne sono troppe che navigano a vista, improvvisano, delegano al volontariato e al terzo settore, realizzano solo le attività temporanee e discontinue dello slabbrato “progettificio a bando” della scuola italiana. Ricorrendo anche, nei casi peggiori, a strumenti impropri, come la normativa sui “bisogni educativi speciali” o quella sulle disabilità per procurarsi il supporto di insegnanti di sostegno. Non è un segreto che gli studenti con background migratorio siano sovrarappresentati in entrambi gli ambiti, ma è uno scandalo educativo che non sapere ancora una lingua o essere disorientati dal tuffo in un mondo diverso vengano trattati come disturbi relazionali, anomalie caratteriali, difficoltà cognitive> (5).

Il ricorso alle furbizie e agli espedienti appena richiamati denuncia in primo luogo l’incapacità del nostro sistema formativo di costruire, in tutte le sue articolazioni, “contesti educativi che rispettino, sostengano e valorizzino la diversità culturale e le identità locali […] mettendo alla prova i paradigmi educativi che perpetuano disuguaglianze e ingiustizie” (6); ma oscura anche le cause vere, profonde, che spiegano perché <gli studenti con background migratorio hanno generalmente percorsi scolastici caratterizzati da maggiori ritardi, casi di dispersione e abbandono scolastico> (7).

Da qualche tempo è la riflessione pedagogica a ricondurre alla teoria del deficit thinking “una delle ragioni nascoste dietro il fenomeno complesso dell’insuccesso e dell’abbandono scolastico degli studenti con background migratorio e/o culturale altro” (8).

“In linea di massima, gli approcci educativi basati sul deficit thinking (DT) considerano gli studenti appartenenti a minoranze (spesso oppresse) i principali responsabili delle difficoltà che gli stessi incontrano nel loro percorso scolastico. La teoria del deficit ignora il ruolo svolto dalle strutture di dominio […], per focalizzarsi sulle carenze – deficiencies – individuali e culturali […]. Secondo la ricerca scientifica, il DT contribuisce alla sopravvivenza di rapporti di potere che inferiorizzano l’altro, per esempio alimentando minori aspettative verso gli studenti appartenenti a minoranze, a gruppi storicamente oppressi, di bassa estrazione sociale, incoraggiando in questi ultimi, anche inconsciamente, la sfiducia nelle proprie capacità e il disimpegno” (9).

“L’idea del deficit, germogliata nel seno della supremazia razionalista occidentale, insinua nel sistema educativo di base la percezione dell’altro come mancante, difettoso. Prende così forma il ritratto di uno studente con background culturale dissonante definito dai tratti e dai colori della mancanza, una mancanza che accomuna persone di origini radicalmente diverse, raggruppandole sotto l’egida di una inferiorità condivisa che riguarda il loro modo di pensare, conoscere, imparare.

Questa visione dell’altro […] contribuisce a mantenere vivo ancora oggi il pensiero del deficit nelle scuole, nei suoi curricula, nelle pratiche e nelle menti dei docenti”, i quali, pur “armati delle migliori intenzioni, spesso inconsciamente incontrano gli studenti portatori di competenze dissonanti, con un diverso status socio-economico e/o culturale, percependoli come in qualche modo mancanti. Finiscono, così, nonostante il desiderio di promuovere la formazione degli studenti, con il contribuire al funzionamento di un sistema che riproduce le ingiustizie sociali […].

Non si tratta di rigettare il valore dell’episteme occidentale, di smettere di insegnare le nostre tradizioni epistemologiche, i nostri linguaggi, si tratta di smettere di credere nella loro superiorità rispetto ad altri modi di conoscere e a entrare in relazione dialogica con il mondo […]. Si tratta, prima ancora, di riconoscere l’altro come mio simile”, E si tratta, conseguentemente, “di aprire i curricula alla conoscenza dei contributi di civiltà e di realtà storiche diverse da quelle europee e occidentali” (10).

“Aprire i curricula” significa quindi, sul piano della didattica, “ampliare il ventaglio dei saperi” da conoscere e frequentare, e, sul versante educativo, costruire un contesto-scuola nel quale non solo presentare e realizzare “una proposta culturale e formativa”, ma promuovere e favorire anche disposizioni “all’ascolto e al riconoscimento di saperi, linguaggi e punti di vista differenti”: affinché “nessuno studente rimanga invisibile in classe” (11) e insieme si contrasti “la formazione di stereotipi e pregiudizi nei confronti di persone e culture” (12).

Se ripartiamo dagli alunni con background culturale altro, “spesso sottovalutati nelle loro potenzialità, e dal riconoscimento delle loro lingue e dei loro saperi, possiamo rifondare una scuola dove gioia e desiderio di imparare diventino per tutti il motore dell’apprendimento” (13). Una scuola consapevole, nelle sue attività e nelle sue relazioni, che “gli effetti positivi sullo sviluppo, derivanti dalla partecipazione a più situazioni ambientali, risultano incrementati quando tali situazioni sono parte di contesti culturali o subculturali diversi l’uno dall’altro in termini etnici, di classe sociale, di religione, di età o di altri fattori relativi al retroterra sociale” (14).

Note

1. Milena Santerini, Giustizia in educazione, Ed. La Scuola, Brescia 1996, p. 7;

2. ivi, p. 166;

3. Camilla Borgna, Stranieri sui banchi., il Mulino, n. 3/2021, p. 171;

4. Fiorella Farinelli, Le minoranze etniche e culturali a scuola, il Mulino, maggio 2024, p. 2;

5. ivi, p.4;

6. Livia Cadei, Editoriale, Pedagogia e Vita, n. 2/2024, p. 14;

7. Save The Children, Il mondo in una classe. Un’indagine sul pluralismo culturale nelle scuole italiane, Roma 2023, p. 16;

8. Paola Dusi, Imparare ad abitare zone scomode: decolonizzare la conoscenza e i sistemi scolastici andando oltre il deficit thinking, Pedagogia e Vita, cit., p. 17;

9. ivi, pp. 22-23;

10. ivi, pp. 28-30;

11. cfr. Anna Granata, I cento linguaggi della scuola plurale. Valorizzare i saperi nascosti delle minoranze linguistiche e culturali, Pedagogia e Vita, cit. p. 41;

12. Ministero della Pubblica Istruzione, Programmi didattici per la scuola primaria, Roma 1985, p. 7;

13. Anna Granata, I cento linguaggi della scuola plurale, Pedagogia e Vita, cit., p. 45;

14. Urie Bronfenbrenner, Ecologia dello sviluppo umano, il Mulino, Bologna 1986, p. 322.

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