• giovedì , 21 Novembre 2024

Per una didattica dell’autonomia e della responsabilità ai tempi del digitale: considerazioni a margine

Cosa significa, per la scuola odierna, riappropriarsi del proprio compito formativo? Innanzitutto abbandonare un modello scolastico ormai obsoleto, abbracciando un’evoluzione sociale oltre che didattica.

Di Irene Giannì

“Non deponĕre conscientiam”

Martin Lutero

 

Nella ormai ampia bibliografia sulla storia delle nostre istituzioni scolastiche, dall’Unità o dalla Repubblica ad oggi, quello dal quale si vuol prendere spunto in questa sede è un singolo e specifico libro, il volume di Gino Roncaglia L’età della frammentazione – cultura del libro e scuola digitale (Laterza, 2018), che offre una proposta di ricomposizione del dibattito fra la ormai ben nota, ma mai composta, querelle fra conoscenze e competenze e la più recente quaestio delle “tecnologie innovative” in ambito educativo.

Anziché ridurre la complessità ad una contrapposizione, il testo cerca di condividere alcuni punti fondamentali.

 

Due, dunque, le questioni, ma una la proposta di riflessione: nella profonda fase di ripensamento e chiarificazione delle problematiche inerenti il rinnovamento del sistema di istruzione e formazione a livello europeo ed italiano (Quadro strategico: istruzione e formazione 2020; Obiettivo 4 dell’Agenda ONU 2030)[1], s’è creato un cortocircuito fra le istanze innovative e i soggetti che ne dovrebbero essere, se non i promotori, per lo meno i latori.

Fra questi ultimi v’è chi, figlio degli attori della contestazione sessantottina, appare in un certo qual modo refrattario al cambiamento e, pur convinto della legittimità dell’azione parricida – e  fatta salva qualche ineludibile conquista migliorativa –, si richiama al modello comportamentale dei padri per resistere ad un mutamento, a loro dire, tanto complesso da essere troppo burocratico, tanto innovativo da essere troppo dematerializzabile. Un lavoro reso ancor più estenuante dalla difficoltà di una crisi economica che ormai da diverso tempo logora la società in ogni suo aspetto.

 

Tentazioni riduzionistiche vs tentativi innovativi

La questione può essere letta interamente nella sua ambivalenza di fondo, scissa fra una deludente sovraeccitazione euforica per il naturale progresso della società e la consapevole ragionevolezza dei suoi spontanei errori e fraintendimenti.

Con la tagliente lucidità dell’analisi psicanalitica, Massimo Recalcati delinea in pochi ma sufficienti tratti un’idea di quel disincantato sentimento che negli ultimi anni ha pervaso la nostra scuola:

«Delusa, afflitta, depressa, non riconosciuta, colpevolizzata, ignorata, violentata dai nostri governanti che hanno cinicamente tagliato le sue risorse e non credono più all’importanza della cultura e della formazione che essa deve difendere e trasmettere»[2], «è ancora viva? […] oppure è destinata a essere un residuo di un tempo oramai esaurito?», ci chiediamo tutti noi, non solo l’autore.

 

Sorprendente sarebbe la risposta se si interrogassero alcuni, per i quali la ricerca di un tempo perduto ormai è solo subìta nostalgia: impossibile da recuperare, reintegrare, riproporre perché il nuovo che avanza come un Attila inesorabile ha fatto tabula rasa di un sistema, di un’organizzazione che aveva trovato un equilibrio e perciò stesso appariva rassicurante e valido. Nella scansione metodica del tempo, di lezione, di studio, di valutazione, vi era la giusta percezione di far le cose per bene.

Sorprendente sarebbe scoprire che costoro non si riferiscono alla scuola dei nostri padri – di quella si è già compiuto il parricidio –, ma a quella scuola tutto sommato più recente, quella che noi stessi, figli, abbiamo vissuto poco più di vent’anni or sono. Sorprendente è che, nella ben più lunga linea del tempo e dei mutamenti profondi della storia del nostro Paese e del nostro sistema scolastico, la nostalgia si soffermi compiaciuta a rimpiangere l’appena ieri, come se non si fosse vissuto il tempo appena trascorso, come se non si fosse assistito al cambiamento e, cosa ancor più sorprendente, non lo si fosse compreso; mentre si è compresa benissimo la differenza dei figli dai padri, gridando soddisfatti a quella giusta e naturale distanza che appunto li distingue: più moderni i primi, più prossimi e pronti al cambiamento, se si vuole, anche più tecnologici.

Ricordare e puntualizzare le numerose riforme pensate, decretate e mai completamente attuate (spesso solo negli aspetti più deleteri e pasticciati perché a via Merulana il cliente attendeva di essere ricevuto), non è, come detto, in questo ordine del giorno.

Ma vale la pena ricordare che all’indomani della nascita della Repubblica l’esigenza di riformare il sistema scolastico era dettata dalla necessità di stare al passo coi tempi, di restituire all’Italia la possibilità di un popolo meno avvilito culturalmente, meno succube della persuasione retorica, meno indifeso, più autonomo e responsabile.

 

Ed era così entusiastica questa possibilità, così necessaria, che il respiro si fece ampio, le prospettive più ambiziose e la contestazione scoppiò come un eroico furore, compiendo quell’atto liberatorio che portò ciascun Edipo a sottrarsi ad ogni forma di autoritarismo e a fermare la rovinosa caduta di ogni fragile esposto: furono abolite financo le classi speciali – su nessuna rupe si sarebbero tarpate più le ali, nessuno sarebbe più stato esposto alla sua fragilità.

Poi l’ebbrezza della liberazione è diventata compiaciuta soddisfazione: non che non ce ne fosse motivo, la libertà e il diritto dell’accesso all’istruzione, la libertà d’insegnamento, l’applicazione dei principi costituzionali sono conquiste ineludibili e irrinunciabili. Ma, per un organismo che cresce, i condizionamenti, le influenze sono tante, le tentazioni di autoreferenzialità, di auto-riconoscimento sono tali che appare inevitabile guardarsi intorno, cercare un modello in altri sistemi.

 

E studiare altri modelli, confrontarsi e sperimentare nuove indicazioni teoriche non può far certo male; la questione diventa altro quando, con una sorta di intuizione intellettuale, si ritiene di aver individuato un modello vincente e risolutore di ogni conflitto: fra la fine degli anni Ottanta e tutto il corso degli anni Novanta si è creduto nel potere taumaturgico dello schematismo pedagogico, tradotto in quello che Gino Roncaglia ben definisce un eccesso di «didattichese»[3]. Una volta individuate, sperimentate e valutate le nuove indicazioni metodologiche e tecniche per l’insegnamento-apprendimento, queste avrebbero condotto automaticamente ai risultati attesi.

Fra la fine degli anni Ottanta e quella dei Novanta il contesto era, però, indubbiamente molto complesso: il crollo del muro di Berlino poneva molto più che simbolicamente fine ad un’epoca e apriva prospettive inedite e impossibili da definire. Grandi partiti di massa mutarono financo il loro nome, altri si composero e decomposero.

Ancora una volta la scuola deve stare al passo coi tempi, rinnovarsi, mutarsi in uno sviluppo nel quale si tende e si distende come un muscolo contratto che cerca di sostenere lo sforzo, perché la scuola è un organismo vivo, vivo e reattivo, composto da persone, vissuto da persone.

 

I nuovi tempi esigono nuove prospettive, e se da un lato il precedente patto generazionale fra scuola e famiglia, fra insegnanti e genitori, come analizza Recalcati, si è sfaldato sotto la scure dell’anti-autoritarismo, ora il nuovo patto non regge perché non ve n’è più alcuno: i genitori di oggi sono quegli stessi figli che avevano compiuto il parricidio e che ora «si alleano con i figli e lasciano soli gli insegnanti nella più totale solitudine, a rappresentare quel che resta della differenza generazionale e del compito educativo, a supplire alla funzione latitante del genitore, cioè a fare il genitore degli allievi»[4].

Il totem è caduto, non ci sono più ostacoli alla piena e libera espressione del sé, salvo che ora tutti la richiedono, tutti la pretendono: il bue è squartato e la sua è carne da macello. Lo spettacolo diventa delirante e non ha più nulla della sua funzione catartica, nessun lutto deve essere elaborato, perché nessun funerale deve essere celebrato, tutti hanno diritto a tutto e senza alcuno sforzo, senza alcun investimento d’energia, «il fallimento non è tollerato, come non è tollerato il pensiero critico».

Anche la scuola deve garantire, deve giustificare, deve agevolare. E così, l’‘accesso’ pedagogico del mito del successo formativo induce la refrattarietà della reazione e si comincia a pensare che si stava meglio quando si stava peggio, che, però, la formazione che avevano i nostri padri era certo di un altro livello, più seria, più sobria: gli intellettuali, la classe politica, la società pre-sessantottina era un’altra cosa! Certo. Salvo a considerare cosa pensassero, cosa scrivessero, che cosa muovesse quegli intellettuali, quella classe politica e quella società che fu grande: forse un pensiero così fortemente antisistema da preparare il terreno di cui si nutrì la contestazione. Varrebbe sempre la pena approfondire.

Oggi un lungo fiume carsico, dai primi anni 2000, sta facendo emergere le contraddizioni di quella sovraeccitazione euforica che si era illuminata alla luce del nuovo modello economico-sociale della competizione, reso forte dal profitto e confermato nel processo didattico delle competenze come modello educativo vincente.

 

Se in un primo momento è sembrato che il dibattito fosse consumato nel prodigio efficace delle competenze (i figli) a scapito delle conoscenze (i padri), in un secondo momento i figli si sono riscoperti nudi dinanzi a un padre assente: soli e inefficienti, hanno riscoperto la necessità di un punto di riferimento, di valori condivisi.

La norma[5], la legge, simbolo dell’autorità paterna, è riconosciuta nuovamente come garanzia di quelle autorevoli coordinate all’interno delle quali l’uomo è libero di esprimersi senza ledere ad altri, nel pieno rispetto delle prerogative proprie e altrui: principio universalmente condivisibile dell’idea spinoziana di un’Ethica more geometrico demonstrata, capace di esprimere, all’interno della necessità del mondo, il massimo della possibilità.

 

Verso un’ Aufhebung scolastica

Si può così giungere al momento di una consapevole ragionevolezza.

Se guardiamo, infatti, per grandi linee, allo sviluppo del sistema scolastico italiano così come si è venuto costituendo all’indomani della proclamazione della Repubblica, appare evidente che, seppur sommariamente, si possono distinguere tre momenti o fasi essenziali:

  • dal decreto legge n. 1599 del 17 dicembre 1947 (che istituiva, ancora prima dell’entrata in vigore della Costituzione, la scuola popolare, che riuniva in sé le scuole serali, festive ed estive per adulti con lo scopo essenziale e fondamentale di combattere l’alto tasso di analfabetismo) alla Legge n. 1859 del 31 dicembre 1962 (che istituisce la scuola media unica, rappresentando una svolta decisiva in senso democratico del nostro sistema scolastico perché è unica, è gratuita ed obbligatoria per tutti i ragazzi dagli 11 ai 14 anni, ed eliminando così una gran parte degli elementi di discriminazione sociale degli allievi facendo leva sul concetto di orientamento);
  • dai Decreti Delegati del 1974 (sotto l’urgenza del fermento sociale e culturale del’68, infatti, la richiesta di una ristrutturazione globale del sistema formativo diventa la spia di un’accresciuta consapevolezza, in special modo, fra gli operatori scolastici, della stretta interazione tra scuola, educazione e gestione politica) alla Legge sull’autonomia, la n. 59 del 15 marzo 1997, con il seguente regolamento applicativo, il DPR n. 275 dell’8 marzo 1999 (autonomia che, nelle intenzioni del legislatore, diventa sostanzialmente garanzia di libertà di insegnamento e di pluralità culturale, esplicitandosi nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione miranti allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire il successo formativo coerentemente con le finalità e gli obiettivi generali del sistema di istruzione e con l’esigenza di migliorare l’efficacia del processo di insegnamento e di apprendimento);
  • dagli anni Duemila a oggi, con l’evoluzione del sistema scolastico, all’indomani del crollo del muro di Berlino e delle ideologie ma soprattutto del progressivo sviluppo delle politiche comunitarie del Trattato di Lisbona, orientato dalle fondamentali Raccomandazioni Europee in materia di istruzione e formazione del cittadino attivo e consapevole.

 

Dopo la contestazione degli anni Settanta, per una scuola che pioneristicamente aboliva le classi speciali (Legge 517 del 1977), sostituite da attività integrative di sostegno[6], e si sforzava di realizzare i principi ispiratori dei decreti delegati, cioè autonomia, partecipazione e democraticità, che avevano guidato gli interventi di riordino del sistema scolastico secondario, c’è stato certamente un momento in cui, come spesso accade, si è rimasti folgorati sulla via per la Damasco di tutte le Riforme (quella politicamente in auge): sono gli anni in cui occorre ingoiare il rospo del peccato originale della Riforma sull’Autonomia scolastica, che se da un lato ricorreva alle persuasive seduzioni di una maggiore flessibilità del sistema scolastico, di un approccio alle specificità dei singoli territori nell’entusiastica declinazione prima provinciale, poi regionale e, infine, nazionale; se ribadiva l’importanza della responsabilizzazione dell’intero personale scolastico nella gestione della cosa pubblica; se mirava alla correzione di eccessi commessi nel passato (poca iniziativa formativa, poca attitudine all’aggiornamento), dall’altro lato piegava queste argomentazione a una mera logica di politica economica.

E proprio dal mondo dell’economia si è frettolosamente adottata, ma non adattata al diverso contesto, l’idea della competenza declinata, come detto, secondo la logica della competizione, ponendo le basi per una distorsione didattica.

Il crescere del dibattito, che dall’inserimento dei soggetti disabili passava alla concettualizzazione di una reale integrazione, poi espressa e formulata nel concetto di un percorso di autentica inclusione per una scuola per tutti – ampliando le fragilità dalla disabilità al disagio clinico, sociale, economico e culturale – ha spinto verso l’adesione ad un nuovo linguaggio pedagogico, a una riformulazione della didattica sulla base delle tesi psico-pedagogiche che formulavano un rinnovato modello educativo, alla luce di teorie che proponevano i risultati delle rispettive ricerche e sperimentazioni: si pensi alle intelligenze multiple di Gardner, alle diverse dimensioni del pensiero umano di Sternberg, ai modelli degli stili cognitivi e attribuitivi.

Lungi dal rappresentare un momento che, secondo taluni, ha comportato una sempre maggiore medicalizzazione della scuola, è proprio grazie al dibattito sulla necessità di realizzare una scuola per tutti, una scuola in grado di offrire istruzione e formazione per tutti coloro che subivano un disagio – di qualunque genere fosse – che il rinnovamento scolastico è divenuto ormai inevitabile, richiamando a maggior impegno e maggior responsabilità gli operatori del settore.

Gli studi e le proposte formative per favorire le metodologie didattiche sulla disabilità per alunni con handicap sociale e di apprendimento hanno inevitabilmente condotto a un approfondimento della diversità degli stili cognitivi anche fra i normodotati e hanno richiamato alla necessità di una riformulazione dell’azione didattica.

 

Ed è, infatti, proprio con la Legge n. 53 del  marzo 2003 che, in modo sostanziale ed esplicito, si invitano le istituzioni scolastiche, nella loro azione formativa ed educativa, a prendere in considerazione i concetti di individualizzazione e personalizzazione degli apprendimenti.

Se il richiamo alle teorie psico-pedagogiche più valide ha dunque sostanziato le argomentazioni di natura prettamente didattica, a partire dal Duemila le Raccomandazioni Europee formulate sulla base del Trattato di Lisbona hanno richiamato l’Italia stessa alla formazione educativa e formativa di un cittadino attivo, libero e responsabile su base più ampiamente socio-politica e culturale.

Il senso delle successive riforme, rimodulazioni di norme e decreti all’interno del sistema scolastico italiano, non può essere letto e compreso al di fuori di quelle Raccomandazioni, al di fuori di quel rinnovamento culturale, sociale, politico ed economico proposto dall’Unione Europea.

È, dunque, all’interno di quei documenti che, nella ormai vexata nova quaestio del dibattito fra conoscenze e competenze, il discorso finalmente può giungere a una effettiva chiarificazione.

In particolare, si può fare riferimento alla Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio Europeo per realizzare la strategia di Lisbona in tema di competenze, abilità e conoscenze del dicembre 2006: quella, per intenderci, che definisce le “otto competenze chiave per l’apprendimento permanente[7], confluite nella ratifica del documento sul Quadro Europeo delle Qualifiche nel febbraio 2008 e nella successiva Raccomandazione in tema del 23 aprile 2008.

L’intento della Raccomandazione era quello di favorire lo sviluppo di un Quadro Europeo delle Qualifiche, resosi necessario fin dai primi anni 2000[8] in risposta alle richieste degli Stati membri, delle parti sociali e di altre parti interessate, concernenti la creazione di un riferimento comune necessario a incrementare la trasparenza delle qualifiche. Il Quadro Europeo offre una definizione di competenza, che può indubbiamente sgombrare il campo da una certa e pasticciata ricezione dei documenti europei in ambito italiano (la cui storia meriterebbe una trattazione a parte).

Difatti, viene definita come la comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale. Nel contesto del Quadro europeo delle qualifiche le competenze sono descritte in termini di responsabilità e autonomia[9].

 

Ed è proprio su questi ultimi due termini che occorre riflettere, perché definiscono un’idea di competenza che va oltre i tecnicismi in cui spesso la si vuol far ricadere. L’autonomia definisce, infatti, la capacità di determinarsi in conformità a una legge di ragione, non semplicemente come affermazione della propria indipendenza da qualcuno o qualcosa, bensì come riconoscimento della regola che orienta l’azione come principio in sé. La responsabilità definisce letteralmente la possibilità di rispondere della propria azione, del proprio comportamento, delle conseguenze del proprio agire. L’etica della responsabilità, da Kant a Jonas, presuppone un agire razionale rispetto allo scopo, in considerazione dei mezzi e degli effetti relativi a questi stessi scopi.

In questa definizione di competenza, dunque, rientra la persona nel suo complesso, nel suo insieme di conoscenze, abilità e capacità, ovvero gestalticamente più della somma delle parti, più della somma dei tre saperi (sapere, saper fare, saper essere): in tal senso, come ha affermato fra gli altri Franca Da Re, la competenza viene definendosi non semplicemente in termini di processo, ma come sapere esistenziale le cui coordinate sono, per l’appunto, l’autonomia e la responsabilità della persona – come si evince dal testo del documento – che si traducono in sapere agìto, cioè sapere significativo in situazione: «Il fatto che la persona sappia mobilitare conoscenze e abilità attraverso l’impiego di capacità personali le permette di generalizzare a contesti differenti il modello d’azione e, inoltre, di reperire conoscenze e abilità nuove di fronte a contesti che mutano, alimentando e accrescendo la competenza stessa»[10].

Richiamando la definizione dell’OCSE, l’autrice sposta il focus dall’oggetto agìto al soggetto agente, dalla competenza alla persona competente[11], intendendo dunque sottolineare che «l’assunzione di autonomia e responsabilità implica che la persona assimili e integri dentro di sé i valori condivisi, la cura e l’attenzione per l’altro e per l’ambiente, l’adesione alle norme di convivenza, il loro rispetto non per timore della sanzione, ma per comprensione del loro valore di patto sociale»[12].

Non v’è dubbio, certo, che un consistente numero di pubblicazioni abbia argomentato sull’opportunità, il valore e l’efficacia di un percorso educativo centrato sulle competenze secondo esiti che possono essere validi.

A un certo momento, nel dibattito italiano, l’errore è stato semmai pensare di aver trovato la soluzione definitiva, nell’idea che le metodologie e le tecniche didattiche da sole potessero compensare l’insufficienza delle conoscenze, rincorrendo un modello più economico che non culturale, più incentrato sulla logica del profitto: solo che il profitto economico è un ricavo, quello culturale e scolastico semmai un investimento (precondizione necessaria per ottenere l’altro).

Aver semplificato e ricondotto la medesima definizione economica a entrambi i campi ha prodotto una illusione prospettica, una distorsione concettuale il cui fallimento è sotto gli occhi di tutti.

 

A tal riguardo, parafrasando Kant, chi scrive è convinta che si potrebbe tranquillamente affermare che “le conoscenze senza le competenze sono cieche, le competenze senza le conoscenze sono vuote”, senza cadere in quell’aut-aut che non tiene conto di ciò che sono propriamente rispettivamente le prime – l’insieme degli apprendimenti e delle acquisizioni che avvengono sul piano logico e/o dell’esperienza, ovvero il patrimonio concettuale ed esperienziale che ciascuno riesce ad acquisire nel corso della propria esistenza, e, quindi, le seconde – intese come la pertinenza o la piena capacità di orientarsi nel mondo (che sia vita o che sia semplicemente scuola).

Viene il dubbio che il fraintendimento di fondo che contrappone i termini del discorso nasca proprio dalla riduzione della conoscenza a mero contenuto e della competenza a mera performance. Come ha sottolineato efficacemente Franca Da Re, «conoscenza non è sinonimo di “contenuto”. Non tutti i contenuti diventano conoscenze, ovvero patrimonio assimilato in modo permanente dalla persona»[13].  E, del resto, come sostiene lo stesso Roncaglia «una concezione troppo astratta della didattica per competenze, associata all’idea che le competenze riguardino in primo luogo i processi e le pratiche, può avere la conseguenza di focalizzare l’attenzione unicamente sulle pratiche formative, considerandole una variabile indipendente e sganciata dai contenuti»[14].

Nella complessità vieppiù crescente del mondo, infatti, la scuola ha perso il primato di ente gestore e formatore di conoscenza, e i contesti, da quelli non propriamente formali in senso stretto (l’extra-scolastico) a quelli informali veri e propri dell’esperienza (l’oltre-scolastico) – dallo sviluppo dell’informazione alle nuove vie della comunicazione – le hanno di necessità imposto un ripensamento della propria didattica che, come si suol dire, per essere al passo dei tempi non può perennemente riproporsi come meramente trasmissiva e procedurale.

Non si tratta di dover ingenuamente limitarsi a inseguire l’evoluzione dei tempi, ma di riappropriarsi di un proprio e specifico tempo, che scandisca ancora una volta quel compito autentico di ‘formazione della persona umana’, a patto però di considerarne una nuova declinazione, o per meglio dire, dando ormai per acquisito – entro certi limiti – il progresso culturale dell’umanità, una nuova dimensione della persona umana, una nuova definizione, perché oltre duemila anni dopo Socrate non si può rispondere alla domanda ti estì se non parlando di ‘cittadinanza attiva’. Che è poi una delle competenze derivate dal Quadro Europeo delle Qualifiche.

Una di quelle competenze iscritte anche nella tripartizione fra competenze di base, professionali e trasversali che rappresentano il cuore delle iniziative dell’Isfol (Ente di pubblico di ricerca sui temi della formazione delle politiche sociale e del lavoro)[15] fin dal 1998 e che è confluita nel decreto legislativo n. 112 del 31 marzo 1998 (sul conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59).

 

L’ecosistema digitale

Nell’ambizioso tentativo di sgombrare il campo da sclerotizzanti fraintendimenti, oltre alla questione di una corretta definizione di competenza, quale azione che si esercita sul terreno di una conoscenza, e non al di fuori o senza di essa, sulla base di singole capacità e specifiche abilità, v’è il problema di come intendere quella competenza, tutta contemporanea, che riguarda l’innovazione digitale.

Anche in questo caso sottrarsi a un reale approfondimento della questione appare la soluzione più naturale, dal momento che «se le pratiche innovative non sono solide, è inevitabile che la reazione sia un rimpianto nostalgico per la (reale o – non di rado – pretesa) solidità della tradizione», come osserva giustamente Roncaglia[16].

Ancora una volta a far da traino sarebbe un errore di semplificazione, perché se da un lato sono ormai diversi anni che si sente discutere di innovazione scolastica, uso delle TIC e di metodologie innovative – in altre parole della declinazione digitale della competenza – dall’altro lato ci si è concentrati nuovamente «più sui dispositivi tecnologici da fornire a studenti e insegnanti che sui contenuti che tali dispositivi dovrebbero ospitare, sulla loro organizzazione, sulle diverse tipologie, sulle strategie da seguire nel selezionarli e utilizzarli»[17].

È stato sufficiente pensare, in altre parole, che dotando la scuola di una connessione internet e di una LIM per classe, fornendole postazioni computer e attrezzando laboratori informatici, l’interazione multimediale avrebbe garantito automaticamente il risultato atteso, ovvero il successo formativo, in una sorta di «determinismo tecnologico» delle umane sorti.

 

Il fallimento di questa prospettiva, la confutazione della fede, ha nutrito l’animo dei detrattori, che, fra l’altro, hanno ravvisato, sostiene Roncaglia, il punto debole della competenza digitale nella frammentazione dei contenuti offerti, nel loro carattere dispersivo e sovrabbondante.

Ma è davvero fallito il tentativo innovativo della scuola? Roncaglia, membro del gruppo di studiosi che ha realizzato l’agenda programmatica per l’innovazione scolastica nota come Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD[18]), invita innanzitutto a chiarire i termini del discorso: scuola digitale non significa una scuola cablata interamente dalla rete e dai dispositivi multimediali; né la si può intendere semplicemente in base alla capacità di autoproduzione dei contenuti, affidando ad essa la costruzione di un sapere la cui forma deve essere in ultima analisi complessa e non frammentaria, di un sapere che, perché possa essere agìto, deve essere prima costruito (insistendo sulla formazione dei docenti): «il bisogno formativo fondamentale al quale la scuola deve oggi rispondere è la riconquista e l’estensione all’ecosistema digitale della capacità di riconoscere, comprendere, selezionare, produrre, utilizzare, valutare, conservare nel tempo informazioni strutturate e complesse»[19].

Quello digitale, dunque, è un ecosistema, un mondo che ha una sua vitalità, un suo equilibrio, una sua evoluzione, financo persone umane che lo compongono e ne fruiscono: la tesi di Roncaglia, del resto, indica il carattere evolutivo del sistema, per cui l’apparente frammentarietà dei contenuti in esso rintracciabili è tale solo perché ne rappresenta una fase di sviluppo, esattamente come lo sviluppo di ogni società umana. In questo senso l’impegno auspicato è quello di favorire lo sviluppo della fase successiva, quella che dovrebbe portare alla creazione e fruizione di contenuti e/o informazioni strutturate e complesse.

Ancora una volta, per comprendere meglio l’ecosistema digitale soccorre la dimensione europea del dibattito: l’EU SCIENCE HUB – The European Commission’s science and knowledge service – ha prodotto un documento, il Digital Competence Framework for Educators (DigCompEdu)[20], che intende specificare cosa significhi, per gli Educatori in generale, essere competenti in ambito digitale. Il documento è rivolto agli educatori di tutti i livelli formativi, dalla prima infanzia al livello superiore, senza tralasciare la formazione degli adulti, inclusi i bisogni speciali e i contesti non formali d’apprendimento.

Nel documento sono individuate nel dettaglio ben 22 competenze organizzate in sei aree[21]:

  1. l’ambiente professionale (Professional Engagement);
  2. risorse e i contenuti digitali (Digital Resources);
  3. aspetti pedagogici e didattici connessi all’uso delle tecnologie e viceversa (Digital Pedagogy);
  4. valutazione attraverso le tecnologie digitali (Digital Assessment);
  5. personalizzazione e individualizzazione, nell’ottica del potenziamento dell’autoefficacia (Digital empowerment);
  6. sviluppo della competenza digitale degli studenti (Facilitating learners’ digital competence).

Un’analisi delle competenze sottese a ciascun area rinnoverebbe forse un po’ di quel salvifico thaumazein che si prova dinnanzi alla conoscenza.

Prendiamo ad esempio la sesta area: siamo davvero sicuri di sapere cosa significhi favorire lo sviluppo della competenza digitale negli studenti? Siamo in grado di riconoscere, gestire, applicare l’information literacy (6.1 Information and media literacy), la comunicazione e collaborazione digitale (6.2 Digital communication & collaboration), la creazione dei contenuti (6.3 Digital content creation); di introdurre in modo esplicito l’argomento del “benessere”, cioè la capacità di “vivere le tecnologie” in modo sostenibile, dal punto di vista personale e sociale (6.4 Wellbeing); di favorire lo sviluppo del Problem solving (6.5 Digital problem solving)?

Siamo sicuri di conoscere l’esatta connotazione dei termini su riferiti? Ad esempio, quanto si può dare per scontato che per information literacy taluni non intendano semplicemente la conoscenza delle notazioni bibliografiche sul tema? In realtà, è un’alfabetizzazione informatica, o per meglio dire, di apprendimento di base essenziale e fondamentale che, nelle intenzioni del “National Forum on Information Literacy”, fa riferimento alla capacità di identificare, individuare, valutare, organizzare, utilizzare e comunicare le informazioni[22].

L’Istituto Italiano di ricerca INDIRE ha condiviso il progetto europeo “Mentep – Mentoring Technology Enhanced Pedagogy[23] per la valutazione e l’implementazione dell’uso delle tecnologie in ambito pedagogico e ha messo a disposizione dei docenti e di tutti gli educatori in genere la piattaforma per una prima verifica del livello di competenza digitale posseduto da chi volesse testarla. Il progetto si propone l’obiettivo “di facilitare la meta-riflessione pedagogica riguardo all’uso delle tecnologie in classe, favorire l’aggiornamento professionale dei docenti e fornire dati continui su attitudini, comportamenti e fabbisogni degli insegnanti europei nel settore dell’uso didattico delle tecnologie”.

Anche per il Mentep si parla di ecosistema[24] ovvero, di un ambiente in cui è possibile reperire un insieme di risorse formative utili a migliorare le proprie competenze digitali distinte fra:

  1. Pedagogia digitale;
  2. Uso e produzione di contenuti digitali;
  3. Collaborazione e comunicazione digitale;
  4. Cittadinanza digitale.

 

Anche in questo caso, la sottodeterminazione delle competenze, nel caso della pedagogia digitale – per far un esempio – riguarda tre azioni:

  1. pianificazione e implementazione dell’insegnamento con le TIC (Progettazione dell’apprendimento);
  2. progettazione e gestione di ambienti di apprendimento basati sulle TIC;
  3. valutazione supportata dalle TIC.

Insomma, a ben guardare, il digitale è già pienamente avviato sulla strada della complessità e non può essere ridotto alla mera connessione internet.

Probabilmente questo è un esempio che rende attuale, e sempre auspicabile per il mondo della scuola, per i docenti, per gli educatori e i formatori in genere, il principio dell’educazione permanente, del lifelong learning.

 

Considerazioni conclusive

Nell’idea di quanti rilanciano un modello scolastico refrattario al tentativo di una doverosa innovazione, occorre ribadire che riappropriarsi del proprio compito formativo non significa oggi per la scuola ribadire un modello scolastico incentrato su contenuti semplicemente trasmessi, esercitazioni e verifiche come pratiche pedisseque, convinti che ciò sia sufficiente a riconoscere l’autorevolezza del percorso proposto.

E sicuramente questo non significa riproporre semplicemente l’esperienza informale, perdendo il proprio senso per le vie di una semplificazione ad ogni costo, di una semplice ed elementare istruzione senza formazione.

Il tanto celebrato tempo d’aula non può essere più semplicemente quello scandito ogni sessanta minuti di media dal suono della campanella (o da ritmi del mondo esterno), ma quello scandito dalle parole, dalla viva voce delle discussioni e dei confronti, dal senso con il quale lo si riempie, che ci si ritrovi in un’aula, in un laboratorio, in una palestra, in uno spazio di ricreazione.

 

L’aula conosce una nuova definizione che va oltre il perimetro fisico che la qualifica: così come ogni azione didattica, dalla semplice spiegazione alla verifica dei contenuti, dall’interazione fra gruppi ristretti o allargati alla messa in situazione di un fatto o un evento, non può essere affidata alla casualità di una proficua coincidenza di interessi, ma dev’essere effetto di un dialogo didattico pensato, costruito, causato.

La contestazione giovanile degli anni Settanta aveva altri luoghi (le accademie) e altri spazi da conquistare (le riunioni assembleari, le occasioni di dialogo, la richiesta di un antesignano ampliamento dell’Offerta Formativa ancora da costituirsi, nonché precursore di un’inedita flipped classroom): tutto ciò che ad oggi è stato conquistato, viene conosciuto e studiato nella sua complessità; e forse per questo spaventa e induce a trarsi indietro sconfortati, anche perché lo sforzo richiesto non risulta compensato da un riconoscimento sociale e culturale, con un’aggravante economica.

Molte sono, indubbiamente, le criticità che ad oggi si pongono all’interno e all’esterno della scuola: all’interno, la questione del reclutamento e della formazione dei docenti, connessa ad un necessario percorso di aggiornamento permanente rivolto anche ai docenti ormai da diverso tempo di ruolo; la questione della visione politico-sociale sottesa ad ogni riforma ispirata da questa o quell’altra idea governativa – nonché la questione di una reale ed effettiva connessione fra le diverse riforme; la ridefinizione del ruolo del docente in una società mutata e complessa; all’esterno, il problema del riconoscimento sociale e culturale dell’istituto scolastico e del personale nel suo complesso; i condizionamenti sociali e politici della crisi economica.

Per ciascuno di questi aspetti, naturalmente, occorrerebbe un approfondimento che non può trovar spazio e tempo in questa sede. Piace pensare, però, che in tutto ciò ci sia qualcosa che vada oltre ogni complessità e ogni possibile e inevitabile contraddizione: la persona, come nucleo originario di autonomia e responsabilità.

 

 

Irene Giannì, docente di Filosofia e storia nelle scuole secondarie superiori, specializzata nell’attività didattica di Sostegno per l’integrazione scolastica degli alunni in situazione di handicap nella scuola secondaria di primo e secondo grado, Ph.D in discipline storico-filosofiche dell’Università del Salento. Ha pubblicato contributi sulla storia della filosofia italiana del Novecento, il meridionalismo in Puglia, il concetto di empatia fra Husserl e le neuroscienze. Per i tipi della BUR ha tradotto dal tedesco alcuni scritti di Sigmund Freud.

Note

[1] Cfr. http://ec.europa.eu/education/policy/strategic-framework_it; https://www.unric.org/it/agenda-2030;

https://www.unric.org/it/agenda-2030/30815-obiettivo-4-fornire-uneducazione-di-qualita-equa-ed-inclusiva-e-opportunita-di-apprendimento-per-tutti; Tutti i collegamenti ipertestuali citati sono stati consultati un’ultima volta in data 4 ottobre 2018.

[2] Massimo Recalcati, L’ora di lezione, Einaudi, Torino 2014, p 3.

[3] Gino Roncaglia, L’età della frammentazione – cultura del libro e scuola digitale, Laterza, Bari-Roma 2018, p. 6.

[4] Massimo Recalcati, L’ora di lezione, Einaudi, Torino 2014, p. 25.

[5] M. Recalcati, cit., pp. 32-36.

[6] L’idea che comincia a farsi strada in questi anni realizza, infatti, un ripensamento dei modelli educativi fino al momento praticati a favore dei soggetti con bisogni educativi speciali e si consolida nel superamento della convinzione che fosse necessario un contesto separato per il raggiungimento di determinati obbiettivi di apprendimento e di comportamento. Si diffonde, dunque, l’idea che il vivere in un ambiente sociale, nel quale la presenza, la collaborazione e la condivisione di coetanei normodotati potesse funzionare da volano per conseguire più ricchi ed interiorizzati apprendimenti, favorendo, nel contempo, lo sviluppo di comportamenti prosociali, ovvero di quell’insieme di comportamenti spontanei di aiuto e di sostegno e di collaborazione verso gli altri. Cfr. Caprara G. V., Indicatori delle capacità di adattamento sociale in età evolutiva, Organizzazioni Speciali, Firenze 1992.

[7] http://www.indire.eu/content/index.php?action=read&id=1507; il Quadro Europeo delle Qualifiche è consultabile al link https://ec.europa.eu/ploteus/sites/eac-eqf/files/broch_it.pdf;

[8] A seguito della risoluzione del Consiglio del 19 dicembre 2002 sulla promozione di una maggiore cooperazione europea in materia di istruzione e formazione professionale e secondo la relazione intermedia comune 2004 del Consiglio e della Commissione sull’attuazione del programma per l’istruzione e la formazione professionale, confluite nella successiva Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 giugno 2009 sull’istituzione di un quadro europeo di riferimento per la garanzia della qualità dell’istruzione e della formazione professionale, consultabile al link http://www.isfol.it/eqavet/Raccomandazione_garanzia_qualita_istruzione_formazione.pdf;

[9] cfr. https://ec.europa.eu/ploteus/sites/eac-eqf/files/broch_it.pdf,  p.13 di 20.

[10] Franca Da Re, La didattica per competenze – apprendere competenze, descriverle, valutarle, Pearson, Milano-Torino 2013, p. 10. Testo consultabile gratuitamente anche in format PDF all’indirizzo http://risorseperladidattica.altervista.org/didattica-per-competenze-franca-da-re/;

http://www.francadare.it/wp/category/didattica/curricoli-per competenze/;

oppure  http://www.pearson.it/ladidatticapercompetenze;

[11] Cfr., https://archivio.pubblica.istruzione.it/news/2007/allegati/misureaccompagnamento.pdf; http://www.isfol.it/piaac/Rapporto_Nazionale_Piaac_2014.pdf; https://www.oecd.org/skills/nationalskillsstrategies/Strategia-per-le-Competenze-dell-OCSE-Italia-2017-Sintesi-del-Rapporto.pdf;

[12]Franca Da Re, cit., p. 10.

[13] Id., cit, p. 12.

[14] G. Roncaglia, cit., p. 7.

[15] Il documento è consultabile al link http://archivio.isfol.it/DocEditor/test/File/Sintesi_Rapporto_Isfol_1998.pdf; nonché al link http://www.isfol.it/temi/Lavoro_professioni/copy_of_progetti/orientamento-al-lavoro/materiali-bi.dicomp/bidicomp_1laboratorio-slide-2;

[16]    G. Roncaglia, cit., p.8.

[17]    Id., p. X.

[18] Consultabile e scaricabile al link http://www.istruzione.it/scuola_digitale/allegati/Materiali/pnsd-layout-30.10-WEB.pdf;

[19]    G. Roncaglia, cit., p. XIV.

[20] Il documento è accessibile al link https://ec.europa.eu/jrc/en/digcompedu;

[21] Per un approfondimento accessibile delle diverse aree si può consultare il link http://www.tecnicadellascuola.it/competenze-digitali-dei-docenti-la-cassetta-degli-attrezzi-si-chiama-digcomedu;

[22] Il Forum è consultabile al link https://digitalliteracy.gov/national-forum-information-literacy-nfil;

[23]Il progetto è “finanziato dall’Unione Europea attraverso il programma Erasmus+ e coordinato da European Schoolnet (EUN), un consorzio composto da 31 Ministeri dell’Istruzione europei di cui l’Indire è membro dal 1996.

Mentep coinvolge 16 partner in 13 Paesi europei e si rivolge a docenti che insegnano a ragazzi di età compresa tra i 12 e i 15 anni”. L’obiettivo è: “sviluppare e sperimentare un tool utile agli insegnanti per effettuare l’auto-valutazione online delle proprie competenze in ambito tecnologico. In base alla propria auto-valutazione, i docenti potranno accedere a degli ecosistemi nazionali di risorse, che forniscono contenuti e strumenti per il miglioramento delle competenze individuate come migliorabili. Nel corso dell’anno scolastico 2016-2017 Mentep è in fase di sperimentazione da parte di 50 scuole italiane, per un numero complessivo di circa 1000 docenti coinvolti”. Il progetto è consultabile al link http://www.indire.it/progetto/mentep/;

[24] cfr. link http://mentep.indire.it/ecosistema/index.php;

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