La Scuola e il “massimo individualmente possibile”
di Antonio Santoro
In un tempo in cui si continua ad indicare la scuola tra le priorità dell’azione di governo e si trascura poi, quasi sistematicamente, di impegnare risorse e competenze adeguate per migliorare in termini significativi qualità ed esiti delle politiche educative, appare almeno opportuno, se non proprio necessario, esprimere, anche sulle pagine di Scuola e Amministrazione, qualche considerazione sul diritto all’istruzione e alla formazione nel nostro Paese. Dove, secondo dati attendibili, sembra addirittura che ci si allontani, a più di 70 anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, dall’obiettivo di garantire “di fatto il diritto di tutti all’educazione di base”, a un’educazione che tenda “ad estendersi verso l’alto all’educazione secondaria e verso il basso all’educazione e alla cura della prima infanzia” (1). Di soddisfare quindi, e più precisamente, le “esigenze basilari di apprendimento a cui deve conformarsi l’educazione, che è diritto di tutti. Esse includono: <gli strumenti essenziali di apprendimento (lettura, scrittura, espressione orale, calcolo, risoluzione dei problemi); i contenuti educativi fondamentali (conoscenze, attitudini, valori e atteggiamenti) di cui la persona ha bisogno per sopravvivere, sviluppare tutte le sue facoltà, vivere e lavorare con dignità, partecipare pienamente allo sviluppo, migliorare la qualità della sua esistenza, prendere delle decisioni sagge; continuare ad apprendere> (Conférence mondiale sur l’éducation pour tous, 1990…)” (2).
Finalità non alla portata, evidentemente, quando l’azione ministeriale pensa di qualificarsi, esclusivamente, attraverso la conferma di prossime procedure concorsuali, e dice poco o nulla – ad esempio – a proposito dell’urgenza di fronteggiare le attuali povertà educative dei nostri giovani che, come è stato più volte documentato, vanno dal sottorendimento (scarto tra capacità personali ed esiti della frequenza scolastica) alle ripetenze e, infine, all’abbandono degli studi.
Quelle povertà educative, come pure la prospettiva di promuovere nei percorsi di formazione di tutti gli studenti – per dirla con Elio Damiano – il massimo individualmente possibile, continuano a porre l’esigenza di una maggiore e più diffusa qualità dei processi di insegnamento-apprendimento, possibile solo a condizione che nella diversità delle attribuzioni e delle responsabilità coerentemente si operi per favorire e realizzare adeguatezze strutturali, forme organizzative efficaci e significativi itinerari di innovazione pedagogica e didattica. Si tratta, in sostanza, di impegni più o meno esplicitamente previsti dal programma Unesco Education 2030, il quale fissa, tra l’altro, “una serie di obiettivi da perseguire, ancora una volta con tutti gli allievi, e cioè: promuovere negli alunni le conoscenze e la creatività; assicurare l’acquisizione non solo delle competenze di base […], ma anche di quelle relative all’analisi e alla risoluzione dei problemi così come di altre attitudini cognitive, interpersonali e sociali di grado elevato; educarli ai valori e agli atteggiamenti che permettano ai futuri cittadini di condurre una vita sana e appagante, di prendere decisioni responsabili e di confrontarsi in maniera risolutiva con questioni di carattere locale, nazionale e globale” (3).
Sono obiettivi che – evidenziano opportunamente G. Malizia e C. Nanni – chiamano in causa anche le realtà dell’extrascuola, tutte sollecitate ad allontanarsi senza riserve, in tempi problematici e difficili, da “una concezione di istruzione, formazione e educazione quasi esclusivamente ridotta alla loro capacità di risultare strumento <ravvicinato> di occupazione lavorativa; e non da una formazione integrale, personale e culturale, per gli individui, le famiglie, le comunità e la società nel suo insieme: come è invece nelle intenzionalità educative della migliore pedagogia contemporanea” (4).
In termini più generali, esprimono aspettative per un impegno consapevole di tutti di ‘cittadinanza educativa’, la quale consideri che “l’obiettivo di una pedagogia dei diritti umani resta l’adultità, intesa come raggiungimento di una certa compiutezza umana che si manifesta nella capacità consolidata di esercitare responsabilità e di prendersi cura, piuttosto di reclamarla. Essere adulti, in questo senso, consiste nel sentirsi realizzati nell’adempimento silente dei propri doveri, più che nella pretesa urlata dei propri diritti” (5).
Sottolineatura importante, quest’ultima, nella quale certamente il lettore sentirà l’eco della lezione e del monito di Aldo Moro: <Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere>.
Note
1) Guglielmo Malizia e Carlo Nanni, Il diritto all’educazione per tutti nel mondo e in Italia. A settant’anni dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, in Orientamenti Pedagogici, n. 4/2019, p. 670;
2) ivi, p. 671;
3) ivi, p. 683;
4) ivi, p. 689;
5) Alessio Rocchi, Per una pedagogia <futurante> dei diritti umani, in Orientamenti Pedagogici, cit., p. 910.