Di Benedetta Caldararo (studentessa Liceo Scientifico “De Giorgi” di Lecce)
Ci sono, e scrivo a distanza di tempo, irrispettosa dei dominanti “tempi da time-lapse”, dopo aver visto uno “spot” virale generato nel contesto della mia stessa Scuola, da compagni e compagne, rappresentanti d’istituto e non rinuncio a porre domande s-comode, a riflettere. Potrei giustificare il mezzo adottato con il fine o considerarla una “ragazzata” solo dal contenuto frettoloso e superficiale e finire qui, dire nulla. Invece rivolgo la mia “critica” allo “spot” con la postura necessaria a svelare mistificazioni e stereotipie che con fatica abbiamo imparato a riconoscere. Cavalcare l’onda dell’indignazione, permette di mobilitare l’attenzione, ma non avere cura di come strutturiamo il discorso e di conseguenza lo “spazio pubblico” rappresenta un problema per tutti e tutte noi, esposti ed esposte nello “sciame” digitale di cui ci si inebria “senza essere in grado di valutare del tutto le conseguenze di una simile ebbrezza.” *1
Utilizzare altrui lavoro cogliendone solo la “BELLEZZA” dell’idea di superficie, di cui “appropriarsi”, senza dedicare “riguardo” o sforzo di comprensione di quanta ricerca ci fosse stata dietro, dico che è violenza. Riprendo Nietzsche per cui ciascuna parola detta ha potere e coloro che esercitano quel dominio “impongono con la parola il suggello definitivo a ogni cosa e a ogni evento e in tal modo, per così dire, se ne appropriano.” *2
Byung-Chul Han sostiene che
“Il rispetto costituisce il fondamento della sfera pubblica. Una società senza rispetto, senza pathos della distanza sfocia in una società del sensazionalismo. La decadenza della sfera pubblica e la crescente mancanza di rispetto si determinano a vicenda.” *3
Appropriarsi di un’idea senza sforzarsi di comprendere il lavoro di ricerca alla base è negazione dell’altro/a, è violenza. Fuorviare contenuti altrui è spregio e sfregio di altra istanza di cambiamento agita a partire dal pensiero e dal voler capire in profondità. La mancanza di confronto e relazione con soggetti pur presenti nella stessa scuola e che avevano fatto altro lavoro, nei contenuti e nel metodo, rispetto a un “esporsi” è violenza.
Durante l’anno scolastico nel mese di novembre, abbiamo realizzato in gruppo “Corti di Genere”, il cortometraggio “Everything can change” per un Bando che proveniva dalle Istituzioni di Pari Opportunità della Provincia di Lecce e che ci fu proposto come progetto della Scuola, dalla professoressa Daniela Rollo e dalla professoressa Stefania De Donatis. Abbiamo vissuto quel gruppo nello spirito della “stanza tutta per sé” di Virginia Woolf a cui nel cortometraggio ci riferiamo, luogo reale e simbolico di elaborazione di pensiero autonomo e di libertà. Il gruppo, che dopo la partecipazione al bando sarebbe stato destinato a “sciogliersi”, è stato poi da noi rinominato “Pari, ma Dis-pari”, si è ampliato a nuove compagne coinvolte, ci ha viste insieme in scambi virtuali e reali a realizzare momenti di approfondimento per ciascuna e ci ha tenute insieme, fin qui.
“Tutto può cambiare” rappresentava un movimento verso un cambiamento a livello personale che per me oggi resta, partendo dal linguaggio che scegliamo di usare, e che esprime chi siamo, in un pensare e agire a partire da sé capace di realizzare un nuovo inizio, far cominciare un mondo nuovo. *4
Quel desiderio di cambiamento lo abbiamo espresso a gran voce in un mondo in cui manca l’immaginario del cambiamento.
Allora, la mia riflessione porgo ai “padroni del tempo” di “ORA BASTA! Non è più tempo di ignorare”, “Non è più tempo di nascondersi, di subire, di accettare passivamente: è tempo di denunciare”. Quello che mi arriva indirettamente è un concetto ben preciso: “Tu donna o ragazza che subisci violenza, non devi nasconderti subire e accettare passivamente, devi denunciare altrimenti è COLPA TUA”. Non denunciare una molestia è addirittura una molestia? In questa maniera si agisce violenza e colpevolizzazione della donna/ragazza che ha subito violenza e che non avrebbe voluto o non sarebbe riuscita a dirla. Insomma, si punta il dito proprio all’indirizzo della ragazza/donna che NON DENUNCIA!
Nel corto “Everything can change”, sullo specchio avevamo scritto parole come “zitta, pazza, puttana, tu non sai, sii docile, non desiderare, troppo” e abbiamo anche sostenuto come queste siano parole “pungenti, scottanti, che ci segnano a partire dall’infanzia e che ci impongono un’identità che non ci rispecchia”. Dopo essere stato imposto, da un simbolico patriarcale sessista, il silenzio, la moderazione, perché socialmente “adatto” ad una donna, si finisce per essere doppiamente colpevolizzate e messe sotto accusa.
Un altro passaggio fondamentale su cui sento di soffermarmi è l’utilizzo della parola “MANIACI”. No, questi uomini e ragazzi, non sono malati e non vanno visti in quella categoria della “eccezionalità” che li marginalizza come solo “devianti”. Questi uomini e ragazzi sono SANI, questi uomini e ragazzi sono FIGLI SANI DEL PATRIARCATO, sono uomini e ragazzi che agiscono nella espressione del loro squallido sentire senza risonanza emotiva. Questi uomini e ragazzi sono dei BASTARDI e come tali vanno visti e considerati, non come MALATI. E questo è un problema che riguarda la costruzione sociale del “genere”, stereotipi che riguardano il linguaggio e la comunicazione, l’assunta normalità. *5
Un’altra frase che mi ferma è “non è più tempo di avere paura”. Quindi, una ragazza è colpevole anche del suo “avere paura”?
“É tempo di dire basta! Tu donna, tu uomo, tu ragazza, tu ragazzo…”. Direi che uno spot contenente un linguaggio di rivalsa è confusivo e neutralizza il problema della violenza, lo rende problematica quasi “scatenata” dalla fragilità di donne e uomini. Mi sembra una strategia che sottovaluta e amplifica le radici della violenza. Una parola scritta e “cancellata” su quello specchio che mi ha fatto riflettere molto è proprio la parola FRAGILITÀ. No! La fragilità non va cancellata, essere fragili per certi versi è un pregio e nessuno ha il diritto di imporre ad una ragazza o ad un ragazzo di cancellare la propria fragilità solo per adattarsi ad un mondo che non la rispecchia. Dunque, ritrovo stereotipi che con fatica avevo imparato a riconoscere come base della cultura e del simbolico che nutre e genera la violenza nei rapporti umani. Si nominano “ragazze fragili e vittime indifese”, ma dove si vuole arrivare? A dire che una ragazza che sa ben difendersi ed è resiliente può tranquillamente ricevere violenza?
I gesti e i corpi “cancellano” parole allo specchio già scritte per metà, espressione di un qualcosa proveniente da un copione per “l’occasione”, fino ad arrivare ai corpi concentrati ad “apparire”. Ricordo bene quanto sia stato difficile in “Everything can change” fare i conti con quello specchio, quanto sia stato estremamente complesso e sempre in relazione fra noi partire da sé, dal proprio vissuto e “buttarlo” fuori. Quando siamo andate lì a cancellare le parole, lo abbiamo fatto per davvero, c’eravamo “INTERE”, con mente e corpo; quello specchio è rimasto opaco, perché sarebbe ipocrita dire che da un giorno all’altro si riesca a non sentire più il peso di quelle parole addosso. C’è un percorso estremamente complesso e graduale che va fatto prima di arrivare ad avere un’immagine limpida di sé.
Oltre ad essere stato plagiato un lavoro altrui e stravolto e occultato il suo senso, dico che non è certamente questo il modo di trattare un tema del genere. Questo spot è esso stesso causa della violenza che cerca in qualche maniera di “combattere”. Questo spot è espressione del mondo di cui facciamo parte, un mondo “levigato” privo di pensiero critico, dove la parola “critica” è espunta e assimilata ad “attacco personale”, un mondo in cui si è talmente tanto omologati, che si finisce per fare un lavoro del genere per narcisistica esposizione di sé. La misura di riferimento e di valore? I numeri dei like. ‘Si, l’ho fatto anch’io’! “Io c’ero!”.
“La levigatezza non ferisce, e neppure offre alcuna resistenza (…) Sharing e like rappresentano un mezzo comunicativo levigato. Le negatività sono eliminate poiché rappresentano un ostacolo alla velocità di comunicazione (…) Quando si fa largo il mi-piace, il like, viene meno l’esperienza, la quale risulta impossibile senza negatività” *6 e rappresentano un ostacolo al pensiero a partire dall’esperienza.
Parlerei poi di coloro che lo hanno realizzato, i così detti rappresentanti d’istituto. Io mi chiedo, cosa e chi rappresentino queste persone? Io non mi sento rappresentata, io non sono stata informata di quanto si stesse facendo, affinché avessi la possibilità di esprimere il mio parere e il mio coinvolgimento. Questa non è rappresentanza, né tanto meno democrazia. É solo un atto di potere che porta al nutrimento di specifici Ego che seguono la MASSA! E sul concetto di massa mi soffermerei per un attimo. Non c’è cosa peggiore che essere una massa di persone omologate, si, perché questo porta all’assenza di pensiero, all’assenza di relazioni, all’individualismo. E qui mi permetto di andare oltre e fare riferimento ad Hannah Arendt, grande teorica della politica novecentesca, che ci ha detto che le società di massa sono proprio uno degli elementi che portano all’affermazioni del totalitarismo *7, società completamente appiattite e manipolate. E riprendendo Byung-Chul Han che sostiene che
“Massa è potere. Questa decisione manca agli sciami digitali: essi non marciano. Si dissolvono con la stessa rapidità con cui si sono formati. A causa della loro fugacità non sviluppano energie politiche. Allo stesso modo, le shitstorm non sono in grado di mettere in dubbio il rapporto di potere dominante: si scagliano soltanto contro singole persone, rendendole oggetto di scherno o di scandalo.” *8
“Hannah Arendt in una delle sue opere più importanti “La Banalità del Male” *9 riferendosi al gerarca nazista Eichmann, colui che durante il processo rispose che aveva eseguito semplicemente gli ordini, ha inteso causa del male proprio “l’assenza di pensiero”, che non è assenza di ragionamento. Arendt per pensiero intende il dialogo interiore del sé con sé stesso, il dialogo interiore che avviene dentro ciascuno e ciascuna di noi e che ci rende giudici di noi stessi, e questa è anche un’attività costante di scavo nella propria coscienza, nelle proprie idee e nella loro giustezza. Quest’uomo che era prodotto del totalitarismo, è privo di questa interiorità dialogante, si dimostra privo di responsabilità, che è la capacità di rispondere delle proprie azioni, ed è caratterizzato proprio dall’incapacità di elaborare il significato e i risvolti del proprio agire. Trovo queste idee di un’attualità sconcertante e credo che quello che oggi sia assente è proprio il pensiero per come lo intende Arendt e anche la capacità di “avvertire l’urto con la realtà”. In una tale situazione credo che l’unica via d’uscita sia rompere quelle “catene” alla Nietzsche maniera e reinventarci, partendo proprio da noi. L’arma fondamentale che abbiamo per farlo è la conoscenza, perché è da lì che prende forma il pensiero e il linguaggio attraverso cui facciamo il mondo. Solo attraverso la conoscenza, e il superamento di tante stereotipie nei comportamenti fra gli esseri umani, che sono all’origine delle discriminazioni di genere e matrici di violenza, si può arrivare ad assumere uno sguardo critico sulla realtà di cui facciamo parte, si può arrivare ad esercitare un pensiero libero, si può tornare ad assumere quel contatto con la realtà ormai perso e si può arrivare a pensare di combattere la violenza.
*1 Byung-Chul Han, Nello sciame, visioni del digitale, p.9, Figure Nottetempo
*2 Cfr. Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale, Adelphi, p.15
*3 Byung-Chul Han, Nello sciame, visioni del digitale, p.18, Figure Nottetempo
*4 Cfr. Hannah Arendt, Vita Activa: la condizione umana, Bompiani Milano p.46, 246,247
*5 Cfr. Loredana Lipperini, Michela Murgia, «L’ho uccisa perché l’amavo». Falso!
*6 Byung-Chul Han, La salvezza del bello, p.10,16, Figure Nottetempo
* 7 Cfr. Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Piccola biblioteca Einaudi
* 8 Byung-Chul Han, Nello sciame, visioni del digitale, p.25, Figure Nottetempo
* 9 Cfr. Hannah Arendt, La banalità del male, UEF/saggi
Leggi gli altri contributi del gruppo “Pari, Ma Dis-pari”:
Priscilla Eva Rescali classe 5A, Liceo Scientifico “C. De Giorgi” – Lecce
Maria Irma Pezzuto classe 5A, Liceo Scientifico “C. De Giorgi” – Lecce
Anastasia Pezzuto classe 5A, Liceo Scientifico “C. De Giorgi” – Lecce
Sara Persano classe 5A, Liceo Scientifico “C. De Giorgi” – Lecce
Sara Totaro Aprile classe 5A, Liceo Scientifico “C. De Giorgi” – Lecce
Enrica Greco classe 4D, Liceo Scientifico “C. De Giorgi” – Lecce
Alessia Russo classe 4A, Liceo Scientifico “C. De Giorgi” – Lecce