Il libro di Luca Rossi Galateo della scuola non risparmia nessuno: docenti, alunni, genitori, DS, DSGA, collaboratori scolastici e impiegati, tutti rimessi in riga… con le buone maniere e una buona dose di ironia
di Thomas Pistoia
Professori, alunni, genitori, dirigenti, collaboratori scolastici e impiegati: “Galateo della scuola”, il libro scritto da Luca Rossi, docente di lingua e letteratura francese in un liceo linguistico empolese ed esperto di francesistica, non dimentica nessuno. Un capitolo per ogni aspetto della loro vita scolastica, dall’abbigliamento, al saluto, ai limiti nell’uso del cellulare, fino al comportamento da tenere durante il ricevimento con i genitori, o durante le interrogazioni. Decine di momenti quotidiani della didattica corredati da precetti, consigli, ammonimenti, come un monsignor Della Casa contemporaneo, dedito a una ricostruzione di quella buona educazione che una deriva apparentemente inarrestabile minaccia ormai da anni.
Il professor Rossi ha selezionato e studiato decine di galatei esistenti (la bibliografia è imponente), da essi ha tratto le regole di buone maniere applicabili alla scuola. Alcune possono sembrare scontate, sì, e lo sono, ma la loro messa in pratica quotidiana è osteggiata dal pressapochismo, da mancanze di rispetto e di considerazione ormai croniche.
Si badi bene, “Galateo della scuola” (Edizioni La Linea), non è un libro cattedratico, pretenzioso, noioso. Le intenzioni sono nobili, costruttive e spesso la trattazione è vivace, ironica, divertente. Non tralascia nessun aspetto della vita scolastica, dal più frivolo al più delicato. Lo analizza senza inutili giri di parole, lo critica e lo corregge senza esitazioni, in modo immediato, implacabile e privo di beceri moralismi.
“In classe il telefono è proibito dalle buone maniere ancor prima che dai regolamenti […] Purtroppo in certi momenti non è facile controllare gli adolescenti che hanno più destrezza nello sguainare e nel riporre il cellulare di quanta non ne abbiano con la spada i cavalieri della chanson de geste”.
L’insegnante “non è tenuto ad avere capacità di decifratore di geroglifici, né a dover maneggiare fogli che sembrano usciti da una pattumiera. Gli studenti non sarebbero entusiasti se il docente consegnasse loro delle fotocopie scritte in un modo pressoché incomprensibile, magari macchiate, scarabocchiate”.
Si tratta di un libro consultabile. I vari capitoli sono disposti in ordine alfabetico e ognuno di loro è come la voce di un dizionario. Ecco, per esempio, cosa recita il capitolo “Leadership”, dedicato ai dirigenti.
Una dirigente scolastica che non posso nominare era così temuta che nessuno voleva incrociare il suo sguardo o rientrare nel suo campo visivo.
Pare che al suo arrivo scuola si verificassero scene di panico esattamente come quando Miranda Priestley ne Il diavolo veste Prada arriva alla redazione di Runway. Meryl Streep si è aggiudicata l’ennesima candidatura al premio Oscar per quell’ interpretazione. Questa dirigente ha ottenuto solo il disprezzo di tutti quelli che lavoravano per lei e una bella collezione di vertenze sindacali. Non mi sembra divertente. Occupare una posizione dominante in una gerarchia professionale significa essere il capo, non il padrone. Assumere il comando non consente di disporre della vita e della dignità dei sottoposti. Un dirigente scolastico è un manager, un organizzatore e gestore, ma anche una guida, un punto di riferimento del personale. il docente deve saper guidare il gruppo-classe non solo con quello che sa, ma anche con la sua personalità. Un leader degno di questo nome è orientato sia al compito sia alle relazioni, cerca di spiegare le sue ragioni, non fa sfuriate, ascolta gli altri e li aiuta a rendere al meglio, cerca di avere rapporti cordiali con tutti, ma non intrattiene relazioni intime con nessuno, non accetta regali inopportuni, declina ogni invito a compleanni e feste private, non propone a un sottoposto di riaccompagnarlo a casa o di andare a pranzo da soli se non per giustificabili motivi professionali, non cede a certe avances e non si azzarda a farne. Un leader non pretende di passare avanti a tutti quelli che sono in fila ai distributori automatici, al bagno o quando le porte dell’ascensore si aprono; se qualcuno glielo propone, rifiuta con grazia. Non accetta che i sottoposti gli offrano il caffè. Non si fa attendere, accoglie con gentilezza chi ha un appuntamento con lui, alzandosi per riceverlo (non se è un dipendente), dandogli la mano e invitandolo a sedersi per primo dicendo “Prego, si accomodi”. Oltre al capo d’istituto e al docente (capo della classe durante la sua lezione), nella scuola vi sono dei “mezzi capi” che, detto tra noi, possono essere i più pericolosi e i più bisognosi di galateo.
Da tempo immemore, tutti chiamano “vicepreside” i collaboratori del dirigente scolastico. In realtà, questa dicitura non esiste a livello normativo. La legge 107/2015 stabilisce che i compiti delegabili dal dirigente ai suoi collaboratori sono solo di natura organizzativa e amministrativa. Per intenderci, i vicepresidi non possono accampare sugli altri docenti alcuna pretesa di superiorità gerarchica. Gli studenti e i genitori trattino il vicepreside con il riguardo che devono al dirigente. I docenti lo rispettino perché si assume compiti importanti che richiedono impegno e dedizione alla scuola senza per questo ricevere chissà quali compensi o vantaggi. Nell’ambito delle competenze che gli vengono delegate dal dirigente, il vicepreside si comporti da leader senza pretendere che il resto dei colleghi insegnanti gli dia del Lei o gli riservi gli stessi ossequi del capo. Non ha superato un concorso pubblico per diventare dirigente. Per quanto bella e preziosa, una tiara non è una corona e un braccio destro non è un capo.
Ma perché un insegnante decide di scrivere un libro di questo genere? Come è nata l’idea?
L’idea è nata da una congiunzione “astrale” fra due elementi – risponde Luca Rossi – la mia passione per i manuali di buone maniere e l’amara constatazione che la scuola, come parte integrante della società e crocevia intergenerazionale, non è stata risparmiata dalla sciatteria dei modi che dilaga un po’ ovunque e che è il riflesso di una sciatteria più profonda, di un deficit di educazione in senso lato. I galatei contemporanei sono sempre più “settorializzati” e ne esistono di ogni tipologia, da quello della tavola a quello della comunicazione, da quello del viaggiatore a quello del matrimonio. Quello della scuola mancava all’appello, quindi eccolo.
Lei ripete spesso (e lo sottolinea anche nel libro) che la scuola è un pezzo dello stato. Perché è necessario dirlo? Quali sono, a suo parere, i motivi per cui i cittadini non riescono più a percepire bene questa corrispondenza?
Va ribadito perché comunemente non si ha questa percezione della scuola ed è molto grave. La scuola è uno dei pilastri dello Stato, della democrazia. Victor Hugo diceva che dove si chiude una scuola si apre una prigione. Purtroppo, è evidente che la scuola non è più vista né come un’autorità né come un bene primario, bensì come una succursale della propria casa, un luogo utile alla custodia dei figli mentre i genitori lavorano. Tutto ciò è molto legato alla perdita di prestigio sociale della professione docente. Nessuno oggi vede più il docente come uno dei “maggiorenti” della città. Le cause? Discendono tutte da una politica che ha sempre considerato la scuola una palla al piede delle casse dello Stato, impoverendola, non degnandola di investimenti seri, non pagando il personale educativo in modo consono, contando sulla buona volontà dei suoi lavoratori per colmare le lacune della gestione dall’alto.
“Il galateo della scuola” è spesso ironico e divertente, ma implacabile nel mettere a nudo i problemi. Non risparmia nessuno, in particolar modo alunni, dirigenti, genitori e insegnanti. Se dovesse fare una classifica, quale di queste categorie è attualmente la più carente di buona educazione (anche nel senso più lato del termine)?
Senza dubbio quella dei genitori. Gli studenti ne sono il riflesso e, per questo, meno colpevoli. La perdita di prestigio sociale e conseguentemente di autorità del docente ha portato certe famiglie a ritenersi clienti anziché utenti del servizio educativo. E il cliente, si sa, vuole sempre ragione. Attenzione: non sto dicendo che la scuola debba tornare ai tempi in cui la voce dell’utenza non contava niente. La scuola è una comunità educante in cui tutti devono aver voce in capitolo, ma nel rispetto delle competenze e dei ruoli.
L’insegnamento dell’educazione civica ha attinenza con il galateo? Le sembra che la scuola italiana lo stia somministrando nella giusta modalità?
Ho dedicato un intero capitolo all’educazione civica. Oggi viene insegnata male, tanto per fare, secondo disposizioni organizzative che, come al solito, hanno badato a non spendere un centesimo e quindi a fare le nozze coi fichi secchi. Il punto è che c’è una carenza di educazione tout court di cui ci dovremmo prioritariamente preoccupare. È il progetto educativo della famiglia che tentenna, sono i genitori più amici che genitori, eterni Peter Pan affetti da bovarismo cronico. Insegnare l’educazione civica a un ragazzo che, per saltare un’interrogazione, viene prelevato in anticipo da scuola dalla madre connivente con il SUV parcheggiato nel posto dei disabili mi pare di un’inutilità abissale. Credere che siano quelle poche ore di educazione civica a prevenire bullismo, vandalismo, abuso di sostanze, omotrasfobia, razzismo, misoginismo… mi pare una grande illusione e direi che ha poca attinenza con il galateo. Quantomeno con il mio.
Lei riserva un paragrafo alle “superstizioni” che gravitano attorno al mestiere dell’insegnante: avete tre mesi di ferie, lavorate diciotto ore a settimana, fate vacanza a Natale e Pasqua… Anche in questo caso c’è un difetto di percezione di parte dell’opinione pubblica. Da cosa dipende? E cosa si può fare per porvi rimedio?
Dipende dal radicamento di certi stereotipi causato dalla mancanza di prestigio sociale dei docenti e anche da una politica che non ha il coraggio di prendere una posizione in loro difesa. Purtroppo, oggi la politica si fa a colpi di pollici alzati e cuoricini sui social network quindi si rincorre la popolarità. Dire la verità sul lavoro dei docenti, sbaragliare certe superstizioni, sarebbe impopolare, non porterebbe né like né voti, perchè nel sentire comune siamo una delle categorie più antipatiche e meno operose. Tutti guardano ai fantomatici mesi di ferie, ma nessuno trova indecente che un docente sia retribuito come un impiegato quando tutti si scandalizzerebbero se un medico alla ASL fosse pagato quanto un ragioniere. Ebbene, non si diventa medici senza essere andati a scuola.
Questo galateo ha un primato: è il primo (e speriamo sia presto anche l’ultimo!) a parlare di Dad. In pratica le regole in questo campo le ha enumerate lei…
Per onestà intellettuale devo dire che io ho declinato nell’ambito scolastico delle regole che sono già state in parte postulate dai manuali di galateo che parlano della cosiddetta netiquette, ovvero le buone maniere da osservare su internet. Nella bibliografia ho citato manuali di galateo della comunicazione, della videoconferenza e dello smart working che mi sono stati molto utili sia per la didattica a distanza sia per avere dei riferimenti utili a creare delle regole più adatte a una lezione che a una riunione di lavoro in videoconferenza. Credo che la pandemia di covid-19 abbia costretto la scuola a utilizzare un medium con il quale prima o poi si sarebbe comunque dovuta confrontare. Usarlo con educazione significa farlo funzionare al meglio.