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Marzo 2015

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Se lo studente valuta se stesso
di Antonio Errico

In fondo è una parola dal significato abbastanza semplice. Merito, dicono i dizionari, è il diritto alla gratitudine, alla ricompensa, alla stima, che si ottiene in virtù delle proprie doti e per le opere compiute.
Però quando questa parola è messa in relazione con i processi e, soprattutto, con gli esiti di apprendimento, con i contesti e con i contenuti della formazione, con le sue finalità e i suoi obiettivi, si carica di complessità, di riverberi, di stratificazioni semantiche; il suo significato richiama soprattutto il senso, che è una delle possibili realizzazioni del significato; pretende e impone una serie di interrogativi.
Merito per cosa, rispetto a chi, in base a quali condizioni, tenuto conto di quali prerequisiti e presupposti, in riferimento a quali strumenti di verifica, a quali criteri di valutazione; un merito oggettivo o un merito soggettivo, come risultato di una comparazione con le virtù e le opere possedute e realizzate dagli altri oppure con quelle possedute e realizzate da se stessi.
Il senso – i sensi- della parola merito – talvolta nella sua proiezione di eccellenza – è uno di quei nodi che la scuola tenta di sciogliere da più o meno vent’anni a questa parte, ma che in talune circostanze si stringono ancora di più.
Valutare il merito è una di quelle formule che in qualche caso vengono impiegate come slogan, in altri casi come sintesi di posizioni e impostazioni pedagogiche.
Valutare il merito. Certamente, giustamente.
Ma gli interrogativi di fondo si fanno sempre più pressanti, i metodi da adattare pongono tanti più dubbi quanto più sono i risvolti, di ordine anche pratico, che la valutazione del merito produce.
Fra le tante cose che si possono dire, ci sono anche tre scene provenienti dalla letteratura.
La prima è una frase che Franz Kafka annota nei Quaderni in ottavo : “ L’unica capace di giudicare è la parte in causa, ma essa, come tale, non può giudicare”.
Qualcuno potrebbe anche obiettare che Kafka non avesse competenze di pedagogia, psicologia, docimologia. Ma la smentita viene dalla straordinaria Lettera al padre, che invalida immediatamente l’obiezione. Di conseguenza, la sua affermazione merita una riflessione per nulla superficiale.
Dunque: l’unico soggetto che può valutare sia un processo che un risultato di apprendimento è lo stesso soggetto che realizza il processo e consegue il risultato. Probabilmente per il fatto che è l’unico in grado di considerare tutti gli elementi che hanno interagito, tutti i fattori che hanno condizionato l’apprendimento, in senso positivo o negativo: per esempio, il docente, l’ambiente, la motivazione, il tempo, il grado di attenzione, la propria predisposizione, le situazioni che hanno determinato l’attrazione o la distrazione.
Né si può dire che lo studente non sia capace di valutare se stesso, a qualsiasi età. Sa perfettamente se e quanto ha appreso di qualcosa, conosce anche i motivi per i quali ha appreso oppure no, perché in modo completo o incompleto; sa – o comunque percepisce – se un percorso diverso, un altro metodo gli avrebbe consentito di apprendere di più, in maniera più adeguata.
In un tempo di ricerca di un sistema funzionale – e il più possibile condiviso da tutti i soggetti interessati – di valutazione degli apprendimenti degli studenti, ora che si sta tentando anche di intervenire con degli assestamenti nelle modalità adottate dall’Invalsi, probabilmente si dovrebbe considerare l’opportunità di consentire anche alla parte in causa di prendere parte. Perché, come diceva Kafka, è l’unica parte in grado di giudicare, forse anche per il fatto che l’autovalutazione è la valutazione più efficace.
Lo studente giudica se stesso e gli altri, comunque. Anche dopo, a distanza di anni.
Come giudica Gerhard. E’ la seconda scena. Gerhard è un bambino che compare in un libro di Peter Bichsel, un libro molto serio dal titolo un po’ buffo: “Al mondo ci sono più zie che lettori”.
Gerhard viene bocciato all’esame di ammissione alla scuola superiore. Quindi passa ad un altro insegnante e si trasforma nell’allievo migliore. Diventa ingegnere. Dice Bichsel: “Quando mi incontra sogghigna; tutte le volte che lo incontro mi vergogno”.
Gerhard è uno che non è stato messo nella condizione di prendere parte alla propria valutazione. Nessuno gli ha chiesto un’opinione sul motivo per il quale il suo profitto andava rasoterra.
Quando Bichsel scrive queste cose in una prefazione dell’edizione tedesca alla Lettera a una professoressa di Lorenzo Milani, è il 1970.
Non è cambiato niente.
L’altra scena viene da un romanzo di Peter Hoeg. Un romanzo più bello del Senso di Smilla per la neve: s’intitola I quasi adatti.
“Eravamo al parco giochi, lei era salita sulle rotaie. Si trovava forse a un metro da terra. Da lì mi gridò: guardami. Non fui io a rispondere, non feci in tempo. Fu una donna sconosciuta, anche lei lì con il suo bambino. ‘Come sei brava’ disse. Mi alzai senza pensarci, stavo per andare a staccarle la testa. (…) La bambina aveva chiesto attenzione. Aveva solo chiesto di essere guardata. Ma aveva ricevuto una valutazione. Come sei brava”.
Ecco. Non si può pretendere di valutare tutto. Non tutto deve rispondere a una valutazione. Poi, ci sono aspetti della personalità, particolarmente, ma ci sono anche conoscenze e competenze e abilità, che non possono essere valutati o dei quali non si può avere un riscontro nell’immediato, che non di rado si manifestano anni dopo. Per esempio, sono quelle espressioni del sapere che determinano le visioni del mondo e della vita, le personali decifrazioni e interpretazioni delle cause e degli effetti dei fatti della storia; sono le idee che si hanno riguardo a se stessi e agli altri e le relazioni fra il sé e l’altro da sé; sono comportamenti che si acquisiscono e che determinano la qualità dell’essere e dell’agire.
Non c’è test, non c’è voto, con il quale si possa misurare questo sapere. Ma questo sapere è fondamentale, essenziale, per l’esistenza di ciascuno e per quella di una società.

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