Corrado d’Elia e Stefano De Luca omaggiano un mostro sacro del teatro italiano, che ad oltre vent’anni dalla scomparsa continua a condizionare le scene
di Vincenzo Sardelli
MAESTRO! MEMORIE DI UN GUITTO
scritto, diretto e interpretato da Stefano de Luca
luci di Claudio De Pace
assistente alla regia Linda Riccardi
Info: http://www.stefanodeluca.it
Età: dai 15 anni
NON CHIAMATEMI MAESTRO
Progetto e regia di Corrado d’Elia
Con Corrado d’Elia
Scenografia e grafica di Angelo Finizio e Chiara Salvucci
Info: Tel. 338 1620051, http://corradodelia.it
Età: dai 15 anni
«Racconterei anche muto. Racconterei anche immobile, ad occhi chiusi, voltato di spalle, dietro una tenda, chiuso in un ripostiglio o in fondo al mare. In qualsiasi modo io racconterei, perché l’importante per me è raccontare… raccontare le storie di altri, ad altri… ad altri che ascoltano». Così Giorgio Strehler – nel 2017 se n’è ricordato il ventennale della morte – esprimeva la propria urgenza di un contatto con il pubblico. Anche nel teatro, il cuore conta più delle parole.
Strehler è un riferimento con cui il teatro contemporaneo italiano deve fare incessantemente i conti, tanto più dopo la scomparsa recente di altre due figure amate e controverse come Luca Ronconi e Dario Fo.
La forza di Strehler era il lampo della sua intelligenza ironica e curiosissima, ribelle, mai conformista. Era dignitoso e riservato, un galantuomo senza troppi pudori. Non mansueto, anzi combattivo. Che nei momenti giusti sapeva mordere. D’umore instabile, era irruente e iperattivo. Tanti difettacci e nessun difettino. Amava ribaltare ogni certezza. Aveva il dubbio come cultura. La sua nuvola di capelli bianchi sprigionava un potere magnetico. Strehler passava da una socievolezza amichevole, affettuosa alla scontrosità senza preavviso. Secondo i momenti, era malinconico, brillante, esilarante.
Diverse iniziative ricordano Strehler anche in questo 2018. Anzitutto la mostra fotografica Il giovane Strehler da Novara al Piccolo Teatro di Milano, a cura di Clarissa Egle Mambrini, che, dopo aver fatto tappa al Carcano di Milano, arriva ad Aosta, al Circolo Valdostano della Stampa, fino al 28 aprile. Mambrini, anche autrice del saggio omonimo pubblicato da Lampi di stampa nel 2013, affronta lo Strehler sconosciuto delle origini, quello che a vent’anni pubblicava articoli di un’attualità e una complessità sconcertante sulle riviste dei GUF (Gruppi universitari fascisti) e, come atto rivoluzionario, andava ramingo per l’Italia a cercare spettacoli e testi teatrali di qualità. La mostra, composta di foto, pagine di giornali grandi come lenzuoli e documenti d’epoca, è un piccolo tassello utile non solo a tracciare il profilo giovanile del regista triestino destinato a fondare Il Piccolo, ma anche a ricostruire, senza schematismi o filtri ideologici, il contesto culturale del Ventennio.
Sul piano drammaturgico, spiccano invece due monologhi, uno datato (l’esordio è del 2014) di Corrado d’Elia, l’altro più recente (ha chiuso il 2017 al Piccolo di Milano, dopo essere stato di scena a Lugano e a Como) di Stefano De Luca.
Non chiamatemi maestro di d’Elia è un monologo capace di testimoniare l’amore per il teatro, che è strumento totale per conoscere la realtà e la vita, per sondare l’animo umano e rivelarne emozioni e sentimenti. È il format collaudato di quelli che d’Elia definisce “album”, come Beethoven o Notti bianche: la propria presenza scenica, uno sgabello, le luci intime dosate da Alessandro Tinelli.
Nei suoi assolo d’Elia normalmente si trova sul palco vuoto, con un oggetto simbolico moltiplicato all’infinito: lampadine in Notti bianche; pannelli come spartiti in Beethoven.
Qui lo sguardo si allarga: non oggetti, ma persone. La solitudine diventa spazio per un incontro che è condivisione. Ecco la scelta di far sedere un certo numero di spettatori sul palco.
Il pubblico vive l’emozione della centralità, la possibilità di sentir vibrare voce e respiro dell’artista, di farsi lambire dalle luci. Gli spettatori scrutano quello che percepiscono in sala, il silenzio, il buio, gli umori.
È un clima raccolto. In scena ci sono anche un microfono e un leggio, metafore di uno spazio ideale.
Il sonoro non è intermezzo, ma partitura narrativa. Le musiche sono state scelte per creare un tempo sospeso: opere di Mozart, di cui Strehler curò la regia: Don Giovanni, Le nozze di Figaro, Così fan tutte; Ma mi, scritta per Ornella Vanoni. E poi, ancora, Concertino-Allegro dei Madredeus, Les choristes di Bruno Coulais e il valzer finale Cries and whispers del coreano Cho Young-Wuk.
D’Elia evoca Strehler e il suo mondo di passioni e solitudini, di sogni e tenacia. La Milano antica dei lampioni, della nebbia e del dialetto. Il sogno del Piccolo Teatro, realizzato con Paolo Grassi, strana coppia di un triestino e un pugliese. Donne significative della sua vita privata e artistica: la madre, Valentina Cortese, Giulia Lazzarini, Andrea Jonasson. E frecciate, attualissime, all’indirizzo di una politica che considera superflue le spese per la cultura.
Pochi guizzi di violino, e via. Inizia così Maestro! Memorie di un guitto, monologo di e con Stefano De Luca. È l’omaggio di un artista al suo mentore. È il diario intimo di un uomo legato a un altro uomo dalla passione divorante per il teatro.
Maestro! esprime la fatica dell’apprendistato, il lavoro e il tormento prima della messinscena, l’autenticità della figura dell’attore: prima di tutto un guitto, un saltimbanco, il volto solcato da una smorfia ilare, lo sguardo attraversato da un sorriso velato. Esercizio e sforzo fisico sfumano in un orizzonte immaginifico.
Pochi orpelli in questo monologo: solo sentimento e affabulazione. L’odore e il crepitio del legno. E la scintilla creativa, sospesa a mezz’aria come pulviscolo svelato dalla luce. Questo è il teatro per De Luca, interazione con il pubblico: storie d’altri destinate ad altri, storie di sé destinate a sé stesso e agli altri.
L’abbrivo è nell’educazione sentimentale consumata fra i porticati e i cortili di Taranto, dove si era trasferito piccolissimo da Napoli, profondo Sud e voglia d’evadere. La seduzione aveva il volto e il lungo abito bianco di un’attrice del Piccolo, e rapiva il ragazzino di scuola media mentre la radio suonava Ti amo di Tozzi. E amore fu anche per Stefano De Luca. Amore per quest’attrice irraggiungibile, amore per il mestiere dell’attore, amore per Giorgio Strehler, amore per il palcoscenico e il carrozzone che gli gira intorno. Da Taranto al grande teatro: la valigia rubata alla nonna si riempiva di sogni sulla strada ferrata verso il Nord.
Quello di Strehler è un ritratto ombroso ed esilarante: genio, classe, sagacia, naturalezza mordace. Lavorare accanto a un tipo così era complicato ed elettrizzante. Un giorno si soffermava a chiacchierare amabilmente, il giorno dopo non ti guardava neppure. De Luca aveva imparato a non prenderlo alla lettera. Lavorandogli a stretto contatto di gomito, divenne prima aiuto regista, poi regista.
Confessione e poesia accendono questo monologo. C’è qualche nota surreale. C’è un’inconsueta capacità descrittiva e narrativa. C’è il contatto con il pubblico, scandito dalle luci di Claudio De Pace, che creano atmosfere sopite come una cena a lume di candela.
Il flusso ininterrotto e travolgente di comunicazione, che partiva da Strehler e raggiungeva gli attori, qui arriva fino a noi spettatori. Ma, diversamente da Strehler, De Luca lascia spazio alle pause e ai silenzi. Lascia alle nostre emozioni il tempo di condensare.
De Luca, una sedia, un tavolo, un libro e un microfono. Il ricordo del saluto misterioso di Strehler in quel 1997, alla vigilia di Natale, alla vigilia della morte. Il nostro applauso, rivolto a chi è di scena, e a chi in scena non c’è più ma è come se ci fosse. Perché a teatro, quando le luci si spengono, per emozionare basta un bravo attore. E parole. Con dentro un’anima.
PERCHÉ LI CONSIGLIAMO
Chi voglia apprezzare il teatro come atto conoscitivo e culturale, come libera espressione della personalità, come intreccio di nessi relazionali anche attraverso l’insegnamento, vada a vedere queste rappresentazioni. Spettacoli e mostra, a vent’anni dalla morte di Strehler, sono un omaggio, un dichiarato atto d’amore, ma anche una riflessione sulla trasmissione dei saperi, sulla necessità della relazione umana, sull’insegnamento come arte nobilissima e fondamentale.
Gli appassionati monologhi di De Luca e d’Elia, senza mai scadere nel melò, riescono a mantenersi sempre nell’agile e sospeso istrionismo della Commedia dell’Arte. Attraverso la forza della parola pura, nuda e cruda, oppure accompagnata dallo sberleffo buffonesco del clown, dal sapiente calibro del mimo, o semplicemente seduti, arriva al pubblico l’omaggio a un Maestro, e a un intero modo di fare e di concepire il teatro.
È l’urgenza della narrazione, della condivisione e dell’incontro. È il bisogno di quell’umano contatto che unisce – nell’amore per l’arte e per la parola che attraverso la regia si fa gesto e carne – attore e spettatore.