• venerdì , 27 Dicembre 2024

L’insostenibile profondità della memoria

di Antonio Errico

Probabilmente non c’è un solo accadimento, una sola condizione, una sola situazione di un giorno passato che non abbia una relazione con il giorno che si vive e con quello che si vivrà.

Probabilmente non c’è un solo significato delle storie che sono accadute che non proietti la sua ombra – chiara o scura – sulle storie che accadono.

Probabilmente non c’è pensiero, che un uomo possa avere, che non sia stato pensato da un altro uomo in un altro tempo, un altro luogo che conosciamo o non conosciamo; non c’è egoismo, altruismo, odio, amore, indifferenza, compassione che non siano stati provati; non c’è verità o menzogna che non siano state pronunciate.

Quando si dice che la storia si ripete, forse, in fondo, significa questo: che nella profondità dell’istinto, nelle emozioni viscerali, l’uomo non ha mai mutato natura, per cui le sue manifestazioni, le sue espressioni, i suoi sentimenti possono riproporsi continuamente.

Se poi nel loro riproporsi hanno la facoltà di distinguere il bene dal male, di adorare la civiltà e disprezzare la barbarie, se si rivelano utili o dannosi per un uomo solo o per l’intera umanità, dipende soltanto ed esclusivamente da quanto la ragione riesce a prevalere, e la ragione è determinata dalla comparazione degli effetti prodotti da comportamenti differenti, e la comparazione può avvenire soltanto sulla base della conoscenza di quei comportamenti.

Quindi è necessario conoscere quello che è stato. Conoscere quello che è stato significa avere memoria: personale, collettiva, diretta o mediata culturalmente.

La memoria personale, diretta, ha una possibilità relativa. Un uomo, ogni uomo, ricorda per un certo tempo e poi non più; a volte ricorda in modo nitido, a volte in modo confuso. La memoria collettiva, mediata culturalmente, ha la possibilità di codificarsi, di stabilire punti di riferimento, di elaborare contesti di appartenenza.

A pensarci: ci sentiamo più o meno appartenenti a qualcosa, a qualcuno, ad un luogo, alla sua gente; più o meno con i luoghi, con la gente, abbiamo un vincolo di memoria.

Ci sentiamo più o meno appartenenti quando, per dire, per significare, possiamo anche scegliere l’implicito o il silenzio perché abbiamo consapevolezza del fatto che l’altro ha la stessa conoscenza che noi abbiamo, conferisce alle cose i significati che noi conferiamo, attribuisce ad esse lo stesso valore.

Allora non si ha necessità di cominciare a dire sempre tutto dal principio. Si può partire da un senso acquisito, da un punto condiviso, e andare avanti.

Avere memoria vuol dire avere l’opportunità di andare avanti: in un discorso, in un processo di sviluppo, in un percorso di progresso. Si può andare avanti perché si ha memoria, e dunque conoscenza, di quello che c’è dietro, di quello che è già avvenuto, di quello che è già stato raccontato. Così la memoria non è uno sguardo rivolto al passato: è piuttosto uno sguardo rivolto all’orizzonte, con la consapevolezza della strada che si è fatta e di chi si è incontrato nel corso del viaggio, del tempo bello e del tempo brutto che è venuto, del pericolo che si nascondeva o si mostrava spavaldamente in qualche punto e del soccorso che si è manifestato. Diceva Paul Ricoeur che è nella misura in cui torniamo alle nostre origini e in cui ravviviamo il nostro passato che possiamo essere, senza scontentezza, gli uomini del progetto. Ma in questa tensione verso il progetto, il passato ci interpella continuamente.

La memoria non è mai indifferente. Non può esserlo perché coinvolge idee, emozioni, esperienze; perché riapre ferite, o accende nostalgie. La memoria non può essere indifferente perché determina decisioni, orienta le scelte. Forse, tutto quello che facciamo dipende dalla memoria di quello che abbiamo fatto o dalla conoscenza di quello che altri hanno fatto, degli esiti che ogni circostanza ha prodotto. Non può essere indifferente perché richiede, o pretende, una sostanziale rielaborazione ed una interpretazione continua dei fatti, delle cause, degli effetti.

Dalla conoscenza e dall’interpretazione della memoria deriva anche la dimensione dell’identità.

Probabilmente, senza una consapevolezza ed una coscienza del passato che ha fondato culturalmente il presente, non si può formare nessuna identità, o se ne può formare una frammentata e indefinita.

Si dice che un presente senza memoria è un tempo senza forma e senza identità. Si dice che, senza una memoria, non c’è possibilità di conoscenza significativa delle storie e delle esperienze che si vivono, che non ci può essere confronto fra sistemi di pensiero, visioni del mondo, condizioni di esistere, che non ci può essere fondata cognizione della ragione per la quale una civiltà si presenta con una determinata fisionomia, e non con un’altra. Si dice che tutto quello che passa lascia una traccia che costituisce l’indicazione per la direzione che si deve seguire o che si deve evitare nel corso del cammino verso il futuro.

Si dice che questa civiltà stia assistendo alla scomparsa della memoria, che sia diventato pressante e rapidissimo e irreversibile il processo di oscuramento prodotto dall’oblio, che non c’è nulla che perduri, nulla che resista, che si costituisca come riferimento al quale il presente possa rivolgere interrogativi per ottenere risposte elaborate dall’esperienza.  È difficile capire quanto questo sia falso e quanto sia vero. Probabilmente, come molte delle faccende che riguardano l’umano, è un po’ falso e un po’ vero allo stesso tempo, ma in ogni caso è sempre soggetto ad una interpretazione individuale e collettiva, che, in quanto interpretazione, muta in relazione alle circostanze che intervengono su di essa, che ne determinano l’orientamento, la conformazione, la consistenza. È difficile capire se veramente il tempo che viviamo stia assistendo alla scomparsa della memoria o se, più semplicemente, si stiano trasformando il concetto di memoria, le forme con cui essa si conserva o si tramanda, le relazioni emotive e culturali che richiama.

Forse, se ci si sofferma un istante sulla soglia del presente ad osservare le conformazioni dei paesaggi sociali e culturali, si avverte l’impressione che tutt’intorno si stenda un deserto di memoria, che ciascuno e tutti insieme si viva in una condizione di smemoratezza. A volte consapevole, a volte inconsapevole, a volte triste, a volte perfino spensierata, quasi che il non avere memoria ci liberasse da un gravame. Può sembrare così, dunque, se ci si sofferma ad osservare distrattamente. Ma quando poi si affonda lo sguardo, quando si lacera il velo dell’apparenza attraverso un approfondimento, una più attenta riflessione sulle situazioni, una focalizzazione dei particolari del paesaggio, comincia ad insinuarsi il sospetto che la realtà sia alquanto diversa da quello che sembra, che la memoria rappresenti ancora una condizione di riferimento. Sono cambiati, invece, i modi con i quali avviene la consegna da generazione a generazione.

Sono cambiati le forme e gli strumenti con i quali la memoria si custodisce. Sono cambiati i sistemi di categorizzazione, organizzazione, rappresentazione. Di conseguenza, è cambiato tanto il bisogno di memoria quanto la modalità e la frequenza con cui si ricorre ad essa.


Non saprei dire se questo possa significare che è cambiata anche la sostanza della memoria. Potrebbe anche essere, però, per il fatto che, come si sa, per molte cose è la forma che determina la sostanza. Quello che forse si potrebbe affermare, con qualche certezza, è che noi, oggi, abbiamo una memoria diversa da quella degli uomini di qualsiasi altro tempo. Non è maggiore o minore, ma semplicemente diversa. È diversa la struttura, sono diversi il tessuto, lo spessore, la densità, la tempra, la resistenza; è diverso il valore che le si attribuisce, la funzione, il senso.
Forse, questo è un tempo che non richiede più una memoria tramandata; è un tempo che richiede, o pretende, una continua rigenerazione della memoria, una ristrutturazione dei suoi modelli, una rielaborazione dei suoi simboli. Forse anche, forse soprattutto, una sua narrazione in forme diverse.

In fondo, da sempre, non si narra altro che la memoria: perché non si può narrare altro che quella, nei suoi riflessi, nelle sue stratificazioni, nelle sue implicazioni. Però, probabilmente, ora si rivela necessario elaborare nuove forme di narrazione che rispecchino quelle forme con le quali la memoria si custodisce, si tramanda, che ne trasformano il concetto, la struttura, la sostanza, la funzione, il senso, il sentimento. Si dovrebbe forse intraprendere una nuova ricerca del tempo perduto, che sarebbe inevitabilmente più complessa perché implicherebbe una dimensione collettiva, un’interazione di differenti visioni e concezioni e coscienze del passato, uno sprofondamento nelle trame e negli intrecci della storia e dell’antropologia.

Non saprei dire se i metodi e gli strumenti narrativi che abbiamo a disposizione siano compatibili con la narrazione collettiva della memoria. Finora, ogni narrazione relativa al tempo è avvenuta in modo soggettivo e intimo. L’opera di Proust si configura come modello esemplare, ineludibile per chiunque intenda in qualche modo confrontarsi con la narrazione della memoria. Ma sono radicalmente mutati i sistemi sociali, psicologici, culturali che condizionano i processi della memoria e che da essi sono condizionati. Le necessità di memoria sono andate gradualmente orientandosi verso una condizione plurale, collettiva. Ecco, dunque, il motivo per il quale la narrazione della memoria e la sua rappresentazione dovrebbero realizzare il passaggio dalla dimensione individuale a quella collettiva.
Forse, per essere insieme, abbiamo bisogno di ricordare insieme: per mettere insieme esistenze, abbiamo bisogno di condividere le storie di quelle esistenze; per consentire la comprensione di identità, abbiamo bisogno di confrontare il racconto di identità; per mettere in contatto culture, abbiamo bisogno di dire l’origine e le forme di quelle culture. In un saggio che s’intitola La memoria culturale, l’egittologo Jan Assmann sostiene che la memoria individuale si struttura in virtù della sua partecipazione ai processi comunicativi; la memoria vive e si mantiene nella comunicazione: se questa s’interrompe, la conseguenza inevitabile è l’oblio. Viene da chiedersi se, senza una rete a maglie fitte di memoria collettiva, sia possibile la sopravvivenza della memoria individuale. Viene da rispondere che forse non è possibile, che, se anche ciascuno riuscisse a far sopravvivere la propria memoria, quella memoria soggettiva sarebbe improduttiva perché sottratta al confronto, alla comparazione, all’ interazione. Sarebbe una memoria solipsistica, priva di dialogo, ripiegata su se stessa. Come tutte le cose della natura e della cultura, anche la memoria, per riprodursi, ha bisogno dell’altro con cui farsi compagnia.
Da soli diventa difficile, forse impossibile, finanche ricordare.

Non esiste creatura che viva con la disperazione di ricordare tutto. Soltanto gli dei potrebbero essere lacerati da una disperazione così. Ma gli dei non esistono. Chi crede dice che esiste un Dio, che è colui che ha memoria di tutto.

Gli uomini dimenticano. Hanno bisogno di dimenticare affinché i ricordi che rimangono abbiano la possibilità di radicarsi, di diventare essenziali, di farsi struttura sulla quale realizzare la condizione del presente, immaginare occasioni di futuro.

Allora gli uomini dimenticano. E’ un processo naturale: un ricordo lascia il posto ad un altro, quello più consistente a quello che ha una consistenza minore. Un volto, una voce, un luogo, un’esperienza, una circostanza, che costituiscono una maglia della rete della memoria, ad un certo punto si dissolvono o comunque si indeboliscono, si sfilacciano, lasciando il posto ad una nuova maglia di memoria, ad un altro volto, un’altra voce, altri luoghi, esperienze, circostanze. Alla dissolvenza di un ricordo corrisponde l’intensità di un altro, ad un distanziamento un’approssimazione. Ricordare e dimenticare appartengono alla storicità dell’uomo e costituiscono, anzi, una parte della sua storia e della sua cultura, dice Gadamer in quel classico che è Verità e metodo.

Probabilmente, chi studia la memoria è in grado di dire se siamo noi che volontariamente o involontariamente ci allontaniamo dai ricordi o se siano essi che si allontanano da noi. Forse, chi studia il funzionamento della memoria è in grado di dire in che modo e in che misura noi si resti fedeli ai ricordi e quanto i ricordi rimangano fedeli a noi.

Potrebbe anche essere che talune volte noi perpetriamo un tradimento nei confronti dei ricordi oppure che siano essi a tradirci. Forse, istintivamente ci orientiamo verso la seconda ipotesi, siamo più disposti a pensare che siano i ricordi ad essere infedeli. Sarà anche per questo dubbio che si dice “se la memoria non m’inganna”, “se il ricordo non mi tradisce”.

Ma probabilmente ha ragione uno dei personaggi di un racconto di Ottavio Cecchi, che sta in un piccolo libro che s’intitola L’ornitologo, quando dice: “La memoria inganna lei, inganna me, inganna tutti. Si tratta di capire quale e quanto sia lo spazio, la differenza, tra i fatti reali e le immagini che di quei fatti conserviamo”.

Nella memoria, tutto si trasforma. Le pesantezze della realtà possono diventare come nuvole esili e leggere e le leggerezze possono tramutarsi in un macigno; una persona che non avremmo mai sospettato di poter dimenticare, ad un certo punto, senza che ci si renda conto, scompare dall’orizzonte di memoria; accadimenti che sembrano incidere sui destini si inabissano in profondità che non possiamo esplorare. Quello che era nitido diventa opaco; le cose che avevano contorni precisi, forme definite, si scontornano, si sformano, si fanno fluttuanti, evanescenti, diradate.

Gli uomini dimenticano, dunque. Forse, quello che ricordano è molto meno di quello che dimenticano. Ma gli uomini non vorrebbero dimenticare. Vorrebbero poter ricordare tutto. Il loro sogno più antico è quello di essere come gli dei, che, se esistessero, ricorderebbero tutto. Oppure, almeno, vorrebbero essere come il personaggio di una delle “Finzioni” di Jorge Luis Borges.

Ireneo Funes, osservando la forma delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, poteva confrontarle, nel ricordo, con la copertina di un libro che aveva visto una volta sola. Poteva ricostruire tutti i sogni dei suoi sonni, tutte le immagini dei suoi dormiveglia. Vedeva i crini rabbuffati di un puledro, una enorme mandria in una sierra, i tanti volti di un morto durante una lunga veglia funebre. Forse, riusciva a vedere tutte le stelle che c’erano nel cielo. Riusciva a ricordare non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata. Diceva di avere più ricordi, lui, da solo, di tutti gli uomini di tutti i tempi messi insieme. Diceva che la sua memoria era come un deposito di rifiuti. Era il solitario e lucido spettatore di un mondo vertiginoso e multiforme, istantaneo e quasi intollerabilmente preciso, sovraccarico di immagini, di meticolosi dettagli concreti, eppure intangibili.

Si potrebbe pensare che il motivo per il quale gli uomini hanno inventato prima la letteratura, la cui sostanza si fonda sulla memoria, e poi la Rete sia quello di poter recuperare quando vogliono tutti i ricordi che vogliono, per potersi pensare come dei. Agli uomini non importa che i ricordi abbiano un ordine, una relazione con il tempo, una gerarchia fondata sulla significatività. A loro importa semplicemente di poterli avere tutti a disposizione, anche se in modo amorfo, indistinto; vogliono possedere un accumulo di ricordi, anche se manca una selezione, una mediazione.

Non potendo ricordare tutto, dunque, hanno inventato qualcosa che riesce, o potrebbe riuscire, a farlo. Così i ricordi si impigliano nella Rete, coesistono indiscriminatamente, separatamente, frammentariamente, e compaiono nel preciso istante in cui si digita un nome, una data, un luogo. La Rete ricorda ogni cosa. Non cancella nulla. Non dimentica nulla.

Così la natura dell’umano retrocede; scompare, o comunque si riduce, quella dimensione di soggettività, di intimità, di irripetibilità della memoria che si realizza quasi esclusivamente attraverso la rielaborazione del ricordo. Forse, scompare anche il senso autentico, sostanziale, della memoria che talvolta si può ritrovare soltanto nel contrasto con l’oblio.

Allora, forse, gli uomini dovrebbero porsi il problema della qualità della memoria; non potendo essere come gli dei che ricordano tutto, forse dovrebbero domandarsi se vale di più ricordare tutto oppure ricordare le cose e le storie verso cui proviamo un sentimento e quindi scegliere fra la quantità e la qualità dei ricordi. Ci sono ricordi che non cambiano nulla nell’ esistenza di ciascuno. Ce ne sono altri senza i quali la nostra esistenza sarebbe completamente diversa da quella che è. Poi ci sono ricordi che cambiano il corso della Storia e ce ne sono altri con i quali o senza i quali la Storia va per la sua strada, senza differenza. Si potrebbe dire che possono convivere tutti, senza alcuna esclusione. Certo, possono. Però c’è il rischio che nella massa informe si faccia confusione.

Se gli uomini fossero dei, potrebbero anche farsi carico della disperazione di ricordare tutto. Ma non lo sono, e poi gli dei non esistono.

Noi siamo soltanto gli ultimi arrivati. Siamo quelli che hanno le cose ricevute in eredità. Quelli che continuano a rimaneggiare le storie che altri hanno già raccontato. Che hanno pensieri che altri hanno già avuto. Siamo quelli che strutturano le loro arti, le loro scienze, riprendendo le arti e le scienze che vengono da un tempo concluso.

Siamo soltanto gli ultimi arrivati. Anche se a volte crediamo che si stia inventando tutto noi, che sia inedito tutto quello che facciamo, che siamo le più scintillanti intelligenze mai esistite. Lo pensiamo arrogantemente, incoscientemente. Lo pensiamo fino a quando, ad un certo punto, non ci fermiamo un attimo a riflettere. Basta fermarsi solo un attimo a riflettere e ci si rende conto che la relatività è già stata teorizzata, che è già stata scoperta la fissione dell’atomo, che Giorgio De Chirico ha dipinto il suo Canto d’amore, che Joyce l’Ulisse lo ha scritto già. E’ proprio un peccato: ma lo ha scritto già.

Noi siamo soltanto gli ultimi arrivati. Per cui, abbiamo un obbligo di memoria.

Eppure molto spesso si ha l’impressione che la memoria ci sia indifferente, quasi che prima di noi non fosse mai accaduto niente, quasi che prima di noi il mondo non esistesse. Forse, si potrebbe trattare di una ideologia che considera la supremazia del presente. Ma sostenere che si tratti di un’ideologia significa attribuire a questa condizione uno spessore culturale che invece non ha. Forse, si potrebbe trattare semplicemente di superficialità. Forse, si tratta soltanto di questo: di una imponente superficialità.

Forse, viviamo costantemente in superficie, limitando il nostro sguardo alle cose che ci passano davanti agli occhi e che spesso si perdono rapidamente, non lasciandoci nemmeno il loro ricordo. Limitiamo il nostro ascolto alle voci che ci giungono in un determinato momento e che si disperdono anche più rapidamente delle cose che vediamo. Assistiamo allo svolgersi di eventi senza chiederci da dove vengono, quali altri eventi li hanno causati, quali conseguenze i precedenti hanno determinato.

La nostra superficialità non ci consente di comprendere che non esiste nulla, assolutamente nulla, appeso al niente, che ogni cosa proviene da un prima e si muove verso un dopo. Così ci priva di una appartenenza consapevole e ci destina ad una incerta, ambigua, indeterminata identità.

Noi veniamo, senza dubbio alcuno, dal Novecento. Anche chi è nato nel Duemila viene dal Novecento: dalle sue bellezze, dalle sue tragedie, dalle sue lacerazioni, dalle sue contraddizioni, dalle sue filosofie, dalle sue arti, dalle sue scienze. Veniamo dalle ansie, dalle tensioni, dagli entusiasmi, dalle disperazioni, dalle passioni che lo hanno attraversato, dal quel secolo forse troppo lungo, forse troppo breve, dalle promesse che ha disatteso e da quelle che ha mantenuto, dal progresso di cui ci ha fatto dono e dalle paure che ci ha conficcato dentro il cuore.

Ma, una sera di luglio, sulla Luna c’eravamo noi. Lasciammo le strade dei nostri paesi e andammo sulla Luna, tutti insieme. Una sera di luglio del Novecento. Per una volta siamo stati i primi. Per quella sola volta. Eravamo orgogliosi di essere stati i primi. Lo siamo ancora.

Non si può essere superficiali nei confronti di quel tempo. Non si può non avere memoria, perché rappresenta la nostra identità, la nostra appartenenza.

Il nostro volto si è fatto in quegli anni. Si sono fatte le nostre categorie di pensiero, le nostre certezze e incertezze, abbiamo costruito verità e poi le abbiamo demolite.

La memoria del Novecento è una necessità soggettiva e collettiva, esistenziale e sociale.

Se non si avrà memoria di quel tempo, non lo si potrà mai superare. A volte, la memoria ha un prezzo da pagare. Per il Novecento è così. La memoria del Novecento è un problema con noi stessi che dobbiamo risolvere, lasciando la superficie e tentando le profondità.

Ma durante la discesa, ad un certo punto troveremo, inevitabilmente, lo sbarramento di quella affermazione e di quella domanda che Thomas Mann fa brillare nelle prime righe del prologo delle Storie di Giacobbe: “Profondo è il pozzo del passato. Non dovremmo dirlo insondabile?”.

Ad un certo punto, davanti a quello sbarramento, avremo l’istinto di abbandonare la discesa, di risalire alle nostre rassicuranti superfici, di limitarci alle cose che vediamo e che passano, che ascoltiamo e che si disperdono, alle storie con un incipit ed un explicit che si sovrappongono e si confondono. Avremo davvero buon gioco nel pensare che siamo i primi a recitare sul palcoscenico della Storia, che il pubblico in sala ha pagato il biglietto soltanto per assistere ad uno spettacolo mai visto prima.

Invece siamo gli ultimi arrivati. Recitiamo parti già recitate. Pronunciamo battute già pronunciate. I personaggi che siamo sono già stati. E’ tutto una replica; niente più di una replica.

Quello che cambia è solo il fondale di scena. Cambia in continuazione, con una rapidità vertiginosa. Sicchè abbiamo difficoltà a collocarci, a trovare il nostro posto, a prendere coscienza di dove siamo.

Per trovare il nostro posto nel presente, per poterci collocare senza avvertire un senso di vuoto e di spaesamento, per prendere coscienza del luogo in cui siamo, abbiamo bisogno di comprendere alcune cose: poche ma ineludibili, essenziali.

Per esempio, abbiamo bisogno di comprendere quali sono i motivi per i quali noi siamo in un modo e non diversamente. Quali sono i motivi per i quali i luoghi che abitiamo, che attraversiamo, si presentano in un modo e non diversamente. Da dove derivano il nostro benessere e il nostro malessere.

Ma i modi in cui siamo non li abbiamo determinati noi: ci sono stati consegnati da un padre e una madre esistiti nel Novecento.

Quel padre e quella madre ci hanno lasciato anche i luoghi che hanno abitato e che noi abitiamo. Sono stati sempre loro a farci il dono del benessere, conquistato mordendo le zolle, ed a contagiarci il loro malessere.

Allora, alla fine del conto, scendere nelle profondità, riconoscere la propria identità, ribadire l’appartenenza può essere anche semplice. Basta mettersi ad interrogare i padri e le madri: a scandagliare le loro parole, a penetrare i loro silenzi.

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