di Rita Bortone
Uso del web e modalità di lettura
Tra le opportunità che ti offre la rete c’è quella di poter leggere cose che diversamente mai ti capiterebbero sotto mano, o meglio sotto gli occhi.
Ma è proprio da questa opportunità che comincia oggi la mia riflessione.
Un articolo di Michael S. Rosenwald su Washington Post, dell’aprile 2014 (l’ho conservato proprio per ragionarci su con calma), ha riportato un interessante (e allarmante) dibattito sulle modalità di lettura indotte in bambini ed adulti dall’uso del web.
Secondo alcuni neuroscienziati cognitivi statunitensi, il cervello sta sviluppando nuovi circuiti per scorrere e filtrare i flussi di informazioni online, e le modalità di lettura che ne derivano stanno entrando in competizione con i circuiti di lettura profonda sviluppati dal nostro cervello nel corso di diversi millenni.
Le conseguenze di tale forma di adattamento del cervello alla prolungata esposizione al web consisterebbero in una crescente difficoltà delle generazioni digitali (non solo dei giovani, ma anche di noi adulti) di fronte alla lettura lenta e approfondita. E ciò è tanto più grave in quanto, come afferma la ricerca scientifica, è da quest’ultimo tipo di lettura, e non da quella online, che sembrano provenire la maggior quantità e qualità dei significati costruiti dalla nostra mente.
In parole povere (e poco scientifiche), sembra che stia accadendo questo: mentre prima di Internet si leggeva in modo lineare, una pagina dopo l’altra, un argomento dopo l’altro, un’informazione dopo l’altra, la lettura di Internet propone così tante informazioni e link e video e interazioni varie, che i nostri cervelli devono creare delle scorciatoie per orientarsi, scorrendo velocemente su e giù, cercando parole chiave, dando rapide occhiate e passando da un file all’altro, magari senza leggerne realmente nessuno.
Il problema starebbe nel fatto che oggi tendiamo sempre di più ad adottare questo stile di lettura anche quando abbiamo a che fare con strumenti più tradizionali, ad esempio quando ci accostiamo alla lettura di un romanzo o di un saggio, che non possono, ovviamente, esser letti linkando, cliccando, scorrendo su e giù.
Preoccupa particolarmente il fatto che stiano aumentando i soggetti che accusano grosse difficoltà nel leggere autori classici, che non riescono più a seguire la sintassi articolata di tanti capolavori della letteratura, che fanno fatica a seguire l’argomentazione di un saggio o a studiare approfonditamente un argomento, e così via. Ma la sintassi, osservano gli stessi ricercatori, è il modo in cui esprimiamo pensieri complessi. Il rischio avvertito è dunque che, attraverso il progressivo adattamento, i nostri diventino tutti cervelli da Twitter.
Certo, la ricerca merita maggiori approfondimenti e non è il caso di gridare al lupo al lupo prima di avere dati certi. Gli studiosi statunitensi, comunque, al momento affermano la necessità di “educare i bambini leggendogli libri e insegnandogli a leggere in modo lento e attento, ma allo stesso tempo aumentando la loro immersione nell’era digitale e tecnologica. Occorre fare tutte e due le cose, parallelamente…”.
Quanto e cosa leggono i nostri alunni?
Sono passati molti anni da quando la scuola italiana fu scossa da numerosi progetti nazionali di promozione della lettura dettati dagli allarmanti dati sugli usi degli italiani: eravamo nel ‘95 e risultavamo un popolo di non lettori: 6 italiani su 10, come abitudine, non leggevano niente; il 63,4% della popolazione non leggeva neanche un libro all’anno.
E nacquero il “Piano nazionale di promozione della lettura”, “A scuola con l’Autore”, la “Prima giornata nazionale della lettura a Scuola”, i concorsi promossi dai quotidiani nazionali, le iniziative di valorizzazione delle biblioteche.
Le scuole italiane accolsero in grandissimo numero le sollecitazioni provenienti dal mondo della cultura e dell’editoria e il “Progetto lettura” stimolò nelle scuole di allora, elementari, medie e superiori, iniziative di grande valore culturale e di grande impatto formativo.
Poi i ministri che si sono succeduti hanno avuto altro da pensare, e i problemi finanziari sono apparsi più importanti dei problemi culturali: non saprei dire quante scuole hanno tenuto in vita quei “progetti lettura”, ma chi, oggi, si pone domande sui processi culturali che stanno investendo la scuola italiana? Chi ha interesse ad analizzare cosa c’è dietro all’ammodernamento tecnologico, dietro alla presunta progettazione per competenze, dietro ai dichiarati obiettivi di cittadinanza?
Tutti gridiamo l’interesse ad avanzare nelle classifiche internazionali: ma chi, al di là delle classifiche, ha interesse a far sì che i nostri studenti sappiano leggere e abbiano voglia di farlo, per coltivare interessi, per esercitare cittadinanze, per potenziare il pensiero, per arricchire le esistenze?
Oggi, al di là di quanto accade oltre oceano, il buon senso e la constatazione di quanto accade da noi, relativamente alla quantità ed alla qualità della lettura dei nostri allievi, dovrebbero comunque indurci a riflettere criticamente sulle nostre pratiche.
La prima considerazione rilevante ai fini del nostro discorso riguarda la modesta quantità e frequenza di lettura che oggi viene generalmente richiesta ai nostri studenti, qualunque sia la loro età. La pratica della lettura individuale è diventata in molte scuole una pratica residuale: a casa i ragazzi non hanno voglia di studiare, le letture che gli si propongono devono essere brevi e facili altrimenti non le leggono, i romanzi risultano noiosi e difficili, i libri di testo sono incomprensibili. E in classe le attività di lettura sono guidatissime, oppure è l’insegnante stesso che spiega il testo, e comunque l’insegnante si preoccupa generalmente che venga appreso ciò che nel testo è scritto, non che il testo sia letto e compreso e fatto proprio da ciascun alunno attraverso processi messi in atto da lui stesso.
Insomma sia lo studente che l’insegnante si arrendono di fronte alle difficoltà, e poiché è più facile ascoltare una spiegazione che interpretare un testo, ed è più facile spiegare che insegnare a qualcuno a fare qualcosa, entrambi rinunciano: l’uno a capire, l’altro ad insegnare a capire.
I ragazzi devono leggere molto, invece, molto, molto. Cose varie, cose brevi e cose lunghe. Facili ma anche difficili. Divertenti ma anche serie. Devono imparare a leggere e a riflettere e a farsi domande, sulle cose del mondo e di sé. Devono leggere in spazi personali e privati e senza dover rendere conto del profitto che ne hanno tratto. E devono leggere per scopi sociali e di studio rendendo conto del profitto che ne hanno tratto. Devono leggere Internet in funzione di scopi diversi, ma devono saper leggere Internet in funzione di scopi diversi. Devono poter avvertire che leggere è un piacere, e che saper leggere è un vantaggio, prima che un dovere. Le famiglie oggi sono attente a procurare altri piaceri ai propri figli, e poco sanno di processi cognitivi che si deteriorano e di cervelli che si adattano a nuove velocità restando vuoti di significati. Ma gli insegnanti non possono non farsene carico e, per la loro stessa funzione, non possono dimenticare che la lettura è condizione imprescindibile di accesso al sapere, di gusto del sapere, di significazione del mondo, di scoperta di sé.