• sabato , 21 Dicembre 2024

La scuola, l’eterna riformanda

di Fabio Scrimitore

Qual è colui che somniando vede,/ che dopo ‘l sogno la passione impressa rimane, e l’altro alla mente non riede,/ cotal son io, che quasi tutta cessa / mia visione e ancor mi distilla nel core il dolce che nacque da essa”.

Dante, nell’ultimo canto della Commedia, vuol farci sapere come sia riuscito a ritrovare gli elementi necessari per ricostruire il quadro della visione di Dio, e ricorre all’espediente di descrivere un uomo che vede, benché sogni, e che poi, il mattino dopo, più non ricorda ciò che ha visto; resta tuttavia nell’animo del poeta-sognatore qualcosa di quel sogno, tanto quanto basta per ritrovarne il senso e la trama. Similmente, qualche sequenza della sua vita di compartecipe appassionato del vivace tempo della ricostruzione della scuola italiana resta impressa nella mente del redattore di questo editoriale.

La prima immagine d’un passato lontano, che non si è ancora dissolta nella levità dell’oblio – allo stesso modo in cui, al soffiar del vento, si perdono le sentenze della Sibilla cumana scritte sulle foglie levi -, riflette la sorridente persona del vice-provveditore agli studi che, molti anni prima di sedere sullo scranno al vertice del Senato della Repubblica, ed ancor prima di sentire il suo nome letto e riletto da tante schede tratte dalle urne per l’elezione al Quirinale, passeggia lentamente intorno al lungo tavolo della biblioteca del suo autorevole ufficio; e con meditante, calviniana lentezza detta alla sua segretaria le linee-guida per la ricomposizione del sistema scolastico provinciale. Muovendo, come pedine sulla scacchiera, le tradizionali, classicheggianti scuole medie statali, le meno storiche scuole di avviamento professionale ed i corsi inferiori degli istituti d’arte, il vice-provveditore attualizza la voluntas legis della prima, grande riforma della scuola secondaria repubblicana. Era apparsa in Gazzetta ufficiale l’ultimo giorno del 1962, col numero 1859, la storica legge che sarebbe stata ricordata, negli anni successivi, per avere dato avvio al faticoso processo di equiparazione democratica della scuola di completamento dell’obbligo scolastico, abolendo l’impegnativo e selettivo insegnamento del latino e sostituendolo con quello delle applicazioni tecniche.

Stuoli di giovanili ed attempati dottori in farmacia, in biologia e in veterinaria avevano lasciato poco lucrose farmacie rurali, non ancora affermati laboratori di analisi bio-chimiche e scarsamente redditizie aziende zootecniche, per integrare l’insufficiente corpo docente di ruolo della nuova scuola secondaria di primo grado. Ed allo stesso modo, fiduciose schiere di studenti degli ultimi anni delle facoltà universitarie, insieme a giovanissime matricole, erano salite in cattedra, insieme con dottori in giurisprudenza, affidatari degli insegnamenti linguistici stranieri.

Così, il 1° ottobre 1963, negli edifici delle scuole elementari e medie vennero accolti gli alunni svantaggiati in scarne aulette, poco distanti da quelle più grandi, riservate ai coetanei più fortunati. Poi, ai meno fortunati alunni svantaggiati, il 1° ottobre 1997, il Parlamento avrebbe finalmente consentito che venissero dischiuse le porte delle comuni aule scolastiche, nelle quali, grazie al generoso apporto di insegnanti specializzati, si sarebbero potuti integrare nei medesimi percorsi di apprendimento dei loro compagni più favoriti da madre natura.

Il processo di riforma della scuola secondaria avrebbe dovuto riprendere vigore il 1° settembre del 1966 con l’attesissima riforma degli istituti secondari di secondo grado, a conclusione, cioè del triennio successivo alla legge 1859, ma l’ attesa fu vana perchè il Parlamento non riuscì a porre fine alla dialettica interpartitica che continuava a contrapporre prudenti conservatori a convinti progressisti.

Tuttavia, ai mancati riformatori vennero in casuale soccorso i giovani studenti del Quartiere latino di Parigi. Per resistere alla loro poderosa spinta riformatrice, ed alle successive mobilitazioni dei giovani che agitavano striscioni policromi sul Lungarno, sul Lungotevere, lungo i viali della Sapienza e sul rettifilo della Federico II di Napoli, nel febbraio del 1969 il Governo avviò più che frettolosamente, e per decreto-legge, la riforma degli esami di Stato dei licei e degli istituti tecnici, cancellando la tradizione della selezione per merito che la legge gentiliana del 1923 aveva sancito, assegnando con magnanima generosità diplomi di maturità e di abilitazione tecnica ai diciannovenni. Lo fece riducendo a due le prove scritte degli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio e sostituendo i duri esami orali con il più distensivo e più abbordabile colloquio; limitato, peraltro, a due sole discipline, di cui una affidata alla libertà decisionale dello studente e l’altra alla discrezionalità tecnica della commissione.

Né il Governo sarebbe potuto restare insensibile alla richiesta d’aiuto che saliva dalle aule degli istituti professionali e da quelle degli istituti d’arte, ai cui studenti il ministro della Pubblica Istruzione era andato sollecitamente incontro proponendo al Parlamento l’istituzione, in via pudicamente sperimentale, d’un biennio conclusivo del tradizionale triennio e del conseguente diploma di maturità professionale e d’arte applicata.

Quella della sperimentazione si sarebbe rivelata la strada più diretta e meno impervia per superare le persistenti posizioni ideologiche dei gruppi parlamentari, che continuavano a contrapporre piani di studio caratterizzati dalla prevalenza di discipline comuni a piani di studio pre-professionali sin dal primo anno dei corsi superiori della scuola secondaria.

Il 31 maggio del 1974, l’on.le Aldo Moro appose la sua firma di Presidente del Consiglio dei Ministri, accanto a quella del buon Ministro Franco Maria Malfatti, in calce a cinque decreti legislativi. Erano nati così i più famosi decreti delegati della storia della scuola repubblicana, i quali, da una parte, istituzionalizzavano il processo di riforma per sperimentazione, dall’altra, aprivano le austere e riservate porte della scuola anche alle famiglie degli studenti.

Al vertice degli organi collegiali della scuola gli insegnanti e le famiglie avrebbero visto un genitore, con il titolo di presidente del Consiglio di Istituto, seduto insieme al direttore didattico o al preside, ai quali, a titolo di doverosa compensazione, era stata confermata la funzione di rappresentanza istituzionale del singolo istituto.

Si sarebbero dovuti attendere molti anni prima che l’autorevole voce del filosofo della storia, Umberto Galimberti, ricordasse ad insegnanti e dirigenti scolastici, riuniti in aula magna, che lo stato di efficienza formativa della scuola italiana di allora era l’effetto indiretto del primo dei cinque citati decreti delegati “Malfatti”, il n. 416, che avrebbe dovuto avere il merito storico di democratizzarne l’organizzazione e la gestione amministrativa.

In realtà, quel decreto legislativo avrebbe inopinatamente aperto le porte ad una sorta di inedita cogestione della didattica. Con ciò, confermando la teoria, riportata dai testi di filosofia della storia, dell’eterogenesi dei fini dell’azione umana, secondo la quale il progresso storico difficilmente si realizza in virtù di una finalità intenzionale delle persone, ma a causa dell’ alterna successione di eventi che si verificano. Non si può immaginare che il generoso ministro Franco Maria Malfatti si fosse proposto di aprire le porte della scuola ai genitori degli alunni minorenni per incidere, poi, acriticamente sugli esiti degli apprendimenti.

Nel dicembre del 1997, l’iniziativa legislativa del ministro Luigi Berlinguer sembrò destinata a far cadere, come le Perseidi a San Lorenzo, i vecchi e generosi esami di maturità del 1969. Ma, siccome non è detto che soltanto alla natura debba essere impossibile fare dei salti, si convenne che neppure ai ministri potesse risultare utile proporre provvedimenti legislativi troppo incisivi sulle realtà sociali, tali da deludere le aspettative dei cittadini titolari del diritto di voto. Sicché Berlinguer ritenne saggio limitarsi a riformare la denominazione dei vecchi esami di maturità che, dall’anno scolastico 1998, diventarono “Esami di stato conclusivi dei corsi degli istituti di istruzione secondaria di II grado. Il ministro sardo portò, poi, da due a tre le prove scritte, concedendo, però, che la terza fosse affidata alla discrezione tecnica della commissione d’esame. Inoltre, stabilì che il numero dei commissari esterni sarebbe stato pari a quello dei componenti interni e che il curriculo dello studente sarebbe diventato rilevante ai fini del calcolo del voto finale dell’esame di Stato, con l’introduzione del credito scolastico.

La ministra Moratti, a sua volta, non rinnegò le sue posizioni ideologiche, correggendo alcune parti della riforma Berlinguer, quale l’esclusione dei commissari esterni dalle commissioni degli esami di Stato, composte dai soli insegnanti della classe.

Con maggiore slancio riformatore, nel marzo del 2003, la stessa ministra cancellò la riforma dell’intero sistema della scuola pre-universitaria, che per anni Berlinguer aveva faticato a realizzare, contribuendo così a far pubblicare la legge n. 30 del febbraio del 2000, che, proprio grazie alla Moratti, assunse l’eterea consistenza dell’araba fenice.

Il successore della Moratti, poi, avrebbe concluso la singolare alternanza nella composizione della commissione dell’esame conclusivo dei cicli, disponendone la parità numerica fra professori esterni ed interni.

Nelle aule dei tribunali amministrativi ed in quelle del Consiglio di Stato continuarono ad esser pronunciate sentenze di annullamento di sfavorevoli giudizi collegiali, assunti da varie commissioni a conclusione delle sessioni d’esame di Stato e di decisioni, deliberate da alcuni consigli di classe, di non ammissione di studenti alla classe successiva.

L’ultima immagine che, come la neve al sol si disigilla, si è dissolta nella fantasia del sognante redattore è quella del presidente di un Tribunale Amministrativo Regionale che rende felice un genitore presente in aula. È felice, il genitore, perchè apprende che è stato accolto il ricorso, presentato tre anni prima a nome del bravo figliolo, liceale di penultima classe, ammesso alla classe successiva con 8 decimi, poi diventati nove per effetto della decisione del TAR.

Ora, dall’aureolato scranno del secondo piano del Ministero dell’Istruzione e del Merito, in viale Trastevere, il ministro Valditara sembra intenzionato ad accorrere in soccorso dei docenti e degli alunni meritevoli.

Auguri di buon anno scolastico sia agli uni che agli altri.

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