di Antonio Santoro
<… le politiche mirate a lottare contro le diseguaglianze nell’istruzione e nella formazione non si possono limitare all’ambito scolastico, ma devono puntare a migliorare in primo luogo il contesto extrascolastico dove si svolge la vita dei bambini dei ceti meno abbienti>.
(Guglielmo Malizia – Carlo Nanni)
La nostra è una scuola diseguale. E’ un dato di realtà confermato anche dai risultati delle prove INVALSI 2024, che hanno evidenziato preoccupanti disuguaglianze <di opportunità di apprendimento nelle regioni del Mezzogiorno sia in termini di diversa capacità della scuola di attenuare l’effetto delle differenze socio-economico-culturali, sia in termini di differenze tra scuole e, soprattutto, tra classi>.
Scrivono Camilla Borgna ed Emanuela Struffolino, ricercatrici, rispettivamente, in Sociologia generale e in Sociologia economica: “i divari che già da tempo segnavano il nostro sistema scolastico sono diventati sempre più stridenti e difficili da ignorare. Poiché si parla di istruzione, si tratta di divari particolarmente allarmanti”, soprattutto perché denunciano che “l’Italia si contraddistingue per una situazione di grave povertà educativa”, la quale – come è noto – “può esprimersi anche in termini di competenze: in questo caso, il problema riguarda persone che, indipendentemente dagli studi che hanno fatto, non sono in grado di effettuare operazioni basilari (come leggere e comprendere un testo o risolvere un semplice problema matematico) che dovrebbero avere imparato a svolgere durante la scuola dell’obbligo” (1).
“Povertà educativa e diseguaglianza – sottolineano opportunamente le due ricercatrici – sono strettamente legate. Non solo perché le scarse competenze (al pari della dispersione scolastica) riguardano prevalentemente ragazze e ragazzi che crescono in contesti familiari e territoriali svantaggiati, ma anche perché spesso questi fenomeni sono essi stessi forieri di disparità. Infatti, in linea con il capability approach di Amartya Sen, il raggiungimento di un livello minimo di istruzione per tutti è precondizione per l’emancipazione di ciascun individuo e quindi per una vera uguaglianza di opportunità” (2).
Le recenti indicazioni sulla nostra povertà educativa costituiscono una sostanziale conferma della “incapacità dei sistemi scolastici di garantire effettivamente a tutti almeno una (solida) formazione di base” (3): quindi, “di realizzare per tutti gli obiettivi di apprendimento a cui sono finalizzati” e, in particolare, di “assicurare a ognuno il raggiungimento della soglia minima o l’acquisizione dello zoccolo comune di conoscenze, abilità e competenze” (4). Si tratta di una incapacità che può determinare, in futuro, la morte della scuola di tutti, sulla base della considerazione che “l’istruzione obbligatoria finanziata con risorse pubbliche si legittima solo se garantisce a qualsiasi membro della società il conseguimento, alla fine dell’istruzione scolastica obbligatoria, di una base comune di conoscenze e competenze. Questo è l’unico obiettivo che può giustificare la ripresa degli investimenti a favore dell’istruzione anche in un periodo di crisi finanziaria o di politiche economiche restrittive. Se si dimostrasse, prove alla mano, cioè con dati empirici provenienti da valutazioni rigorose e ineccepibili e democraticamente condotte, che i servizi scolastici così come sono attualmente non sono in grado di garantire il conseguimento di uno zoccolo comune di conoscenze e competenze per tutti, allora i servizi scolastici dovrebbero essere condannati a scomparire perché non più giustificabili. Bisogna (quindi) coniugare l’efficienza del sistema scolastico con l’equità e l’eccellenza” (5).
Soprattutto in Italia siamo ancora piuttosto distanti dall’Obiettivo dell’Agenda ONU 2030 di <assicurare un’educazione di qualità, equa e inclusiva, e promuovere opportunità di apprendimento per tutti lungo l’intero arco della vita> (6). Siamo lontani perché “La meta dell’inclusione e dell’equità esige che si proceda a eliminare tutti gli ostacoli che si frappongono alla piena realizzazione: in particolare, (a) rimuovere ogni forma di esclusione, di marginalizzazione, di diseguaglianza nell’accesso, nella frequenza e nei risultati” (7); e perché l’obiettivo di assicurare un’educazione di qualità richiede la disponibilità di maggiori risorse e una adeguata valorizzazione del ruolo e delle attività degli insegnanti (8).
Siamo lontani – annota Lorenzo Caselli – per le responsabilità di politiche educative che spesso ‘dimenticano’, nelle loro scelte, di considerare la scuola “un bene comune che guarda al futuro” (caratteristica che legittima e giustifica, evidentemente, l’attesa della assegnazione di risorse adeguate) e perché dentro le articolazioni del sistema di educazione e di istruzione non vi è o non si esprime sempre la consapevolezza che “La scuola <bene comune> non può che essere la scuola dell’inclusione […] la scuola ove si coopera e si dialoga, da persona a persona […] la scuola ove si apprende la centralità dell’alterità e dell’intersoggettività nella storia e nella società” (9).
Attenzioni e impegni specifici richiede, soprattutto, l’aspettativa di “equità nella scuola”. Secondo Luisa Ribolzi, “Il punto di partenza per un sistema formativo più equo può essere l’idea di soglia formulata da Rawls e ripresa da Meuret: per distribuire in modo equo un bene, è necessario innanzitutto determinare una soglia minima che tutti devono raggiungere, che nel caso della scuola coincide con la determinazione degli standard minimi di apprendimento dell’obbligo”. Ed è altresì necessario considerare, realisticamente, che “nel percorso verso una maggiore equità non basta una logica di trasformazione organizzativa, perché non si può rispondere in modo esauriente ad un bisogno così differenziato come la domanda di formazione con soluzioni esclusivamente organizzative. In particolare, non è possibile limitarsi ad agire sulle variabili macro, di sistema, trascurando l’ influenza specifica della scuola e della classe frequentata” (10).
“L’equità postula (infatti) una didattica differenziata e plurale: per aiutare […] a porre rimedio a (eventuali) deficit di partenza”, e richiede – secondo le indicazioni provenienti da ricerche sperimentali a livello micro – “approcci di <combined instruction> […], nei quali processi di apprendimento esplicitamente guidati dagli insegnanti si combinano in vario modo con processi di interazione e lavoro in team degli studenti, una particolare declinazione del cooperative learning. Un modello, questo, che ha visto accumularsi nel tempo numerose evidenze empiriche di impatto positivo, con riguardo (ma non solo) agli studenti appartenenti a gruppi sociali sfavoriti” (11).
Si tratta, complessivamente, di linee di azione didattica e organizzativa che “confermano l’idea, cara ai sociologi della stratificazione educativa, che ai fini dell’equità le politiche socio-economiche pesino in modo determinante, senza peraltro giustificare la convinzione che il funzionamento interno della scuola e le politiche educative abbiano un peso trascurabile.
La verità è che in un sistema come l’istruzione, definito dagli studiosi di organizzazione <a legami deboli>, non contano unicamente le politiche di sistema (vuoi sociali, vuoi educative), bensì anche le pratiche a livello micro (di istituto e di classe) in quanto dotate di un grado elevato di autonomia rispetto alle decisioni top-down. E a quel livello entrano in campo la cultura e la professionalità di dirigenti e docenti, quello che è stato chiamato il <capitale professionale> della scuola” (12). Al quale si richiede, oggi più di ieri, l’impegno di sviluppare e valorizzare i talenti in tutte le classi sociali.
Note
1. C. Borgna ed E. Struffolino, Una scuola diseguale, il Mulino, n. 4/2022, p. 88;
2. ivi, pp. 88-89;
3. Guglielmo Malizia, Politiche educative di istruzione e di formazione, FrancoAngeli, Milano 2019, p. 24;
4. ivi, p. 67;
5. Norberto Bottani, Requiem per la scuola?, il Mulino, Bologna 213, p. 11;
6. G. Malizia, Politiche educative di istruzione e di formazione, cit., p. 82;
7. ivi, p. 83;
8. cfr. ivi, p. 84;
9. L. Caselli (a cura di), La scuola bene di tutti, il Mulino, Bologna 2009, pp. 34-35;
10. L. Ribolzi, Più equità, più felicità? Equità del sistema formativo e ben-essere, in L. Caselli, cit., pp. 92-93;
11, Luciano Benadusi, Equità, politiche educative e politiche sociali, in L. Benadusi – O. Giancola, Equità e merito nella scuola, FrancoAngeli, Milano 2022, pp. 131-133;
12. ivi, p. 176.