Il progetto dei docenti della scuola media trentina visto da una prospettiva pedagogica anziché politica: spunti da non sottovalutare, per una “didattica della verità”
di Antonio Santoro
Per una di quelle strane coincidenze che talvolta sorprendono, ho ricevuto, dalla cordialità dell’autore, l’ultimo libro di Mario Caroli (Con il vento di Barbiana. La scuola «rossa» di Mori, Erickson, Trento 2018) proprio nei giorni in cui tornavo a riflettere sull’esperienza della Scuola di Barbiana a seguito della ri-lettura di un breve scritto di Cesare Scurati su La «Didattica» di Don Milani e di un contributo, dal titolo Il principio della comunità di ricerca in Lorenzo Milani, che Fulvio Cesare Manara aveva inviato, poco prima della sua scomparsa, alla rivista Orientamenti Pedagogici (v. n. 3/2016).
Quella coincidenza sembrava quasi indicare una prospettiva specifica nella considerazione del lavoro di Mario Caroli: il suggerimento di lasciare sullo sfondo le motivazioni ideologiche e le ragioni politiche alla base dell’esperienza della scuola media di Mori per rilevare, piuttosto, il vento di Barbiana nell’impegno professionale dei protagonisti di quella vicenda istituzionale. La scelta quindi, per usare le parole di Quinto Antonelli nella Introduzione del libro, di fermare l’attenzione, più che sui tentativi “di mettere in pratica lo spirito anti-autoritario del Sessantotto (il rifiuto della selezione e della valutazione come misurazione asettica)”, sulle iniziative consapevolmente orientate a “introdurre le innovazioni più ambiziose suggerite da un rinnovato attivismo (il lavoro interdisciplinare e di gruppo, l’attenzione alla realtà socio-economica, ma pure a quella psicologica dei ragazzi)”. Un’opzione evidentemente rischiosa, quella di porre in secondo piano le condizioni di contesto, e tuttavia almeno opportuna nella economia di questo contributo.
Il libro in esame – la precisazione è ancora di Quinto Antonelli – racconta “cosa fu la scuola media di Mori (in provincia di Trento) dal 1969 al 1973”: parla delle speranze, delle iniziative (sperimentali?), delle difficoltà e delle contrarietà incontrate da alcuni professori che, come scriveva Rosaria, una ex-alunna, “in numero ridotto, limitatissimo, […] hanno cercato di rendere la scuola più attiva”
Nel percorso di ricostruzione, Mario Caroli richiama “una riflessione articolata” del sociologo Piergiorgio Rauzi che, sul Manifesto del 7 giugno 1972, riferiva di un’esperienza scolastica che, “nonostante non presenti nessun elemento particolarmente rivoluzionario se non di rifiuto nel continuare a lavorare in strutture di tipo feudale (i punti di innovazione riguardano il lavoro interdisciplinare, la ricerca di contenuti didattici allargati alla realtà socio-economica nonché psicologica dei ragazzi, il rifiuto della selezione e, in qualche caso, l’adozione del voto unico, il tentativo di un rapporto non autoritario…), si è scontrata però con un ambiente culturalmente resistente ed egemonizzato da un cattolicesimo tra i più conservatori ed integralisti” (pp. 120-121).
La “riflessione” di Rauzi fa sentire subito l’eco della lezione di don Milani: più precisamente, delle parole dei ragazzi di Barbiana, che consideravano “illegale” il sistema delle bocciature perché “La Costituzione, nell’articolo 34, promette a tutti otto anni di scuola. Otto anni vuol dire otto classi diverse, non quattro classi ripetute due volte ognuna. Sennò sarebbe un brutto gioco di parole indegno di una Assemblea Costituente”; e che sottolineavano, in conclusione, che “la scuola che perde Gianni non è degna d’essere chiamata scuola” (Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, 1967, pp. 81-82).
Caroli ricorda anche i tre interventi su L’Adige, nei mesi di giugno e luglio 1973, del pedagogista cattolico Franco Bertoldi, il quale:
– “Nel primo servizio, […] inquadra il contesto degli avvenimenti e prova a esplicitare le «ragioni», anzi «le motivazioni» sottese all’agire degli insegnanti che lui definisce «innovatori»”;
– “Nel secondo servizio, […] riprende i pericoli della «strumentalizzazione della scuola a fini politici o, peggio ancora, ai fini di un certo movimento politico»; ma si dice convinto che l’obiettivo degli «innovatori» è chiaro: «cambiano la scuola per cambiare la società». Poi, però, si chiede: quali sono gli strumenti che gli insegnanti «innovatori» stanno usando per raggiungere questo obiettivo? Ne individua quattro e, uno per uno, prova a spiegarli e a contestarli: voto unico, lavoro di gruppo, contenuti delle materie insegnate, disciplina in classe”;
– “Nel terzo e ultimo articolo, […] riprende la situazione complessiva, riconosce il valore innovativo delle sperimentazioni didattiche, ma anche l’allarme dei genitori per alcune di queste e si congeda con un (saggio) appello a convergere tutti sull’interesse degli alunni e dei figli” (pp. 207-208).
I dati disponibili non consentono una valutazione puntuale dell’impegno formativo della “scuola «rossa» di Mori” negli anni di riferimento della narrazione di Mario Caroli: in particolare, non permettono di rilevare la qualità degli itinerari di progettazione e di attuazione delle intenzionalità pedagogiche ripetutamente espresse
Perdurano, comprensibilmente, perplessità non irrilevanti a proposito di alcuni tratti della contestazione di quel tempo (si pensi al comportamento a-valutativo degli insegnanti o alla loro decisione, alternativa, del “voto unico”), ma è comunque indubbio che l’esperienza richiamata della scuola media di Mori appaia ancora oggi meritevole di positiva considerazione per aspetti ed elaborazioni che hanno avuto, successivamente, notevoli sviluppi nella letteratura di settore e diffusa accoglienza nel mondo della scuola militante. Mi riferisco, soprattutto:
- a) alla proposta donmilaniana, per dirla con le parole di Cesare Scurati, di “una didattica della verità, della realtà, della immediata implicazione con i fatti, le esperienze, i bisogni” degli allievi;
- b) alla prospettiva di caratterizzare la scuola come comunità di ricerca e di vita al servizio di tutti e di ciascuno;
- c) alla valorizzazione del lavoro di gruppo, che ha trovato poi, nelle soluzioni organizzative del cooperative learning e della «comunità di pratica», le strade per favorire percorsi co-evolutivi attraverso apprendimenti sociali “ad alto impatto trasformativo sul piano personale” (Étienne Wenger);
- d) all’impegno nella direzione di un «lavoro interdisciplinare » finalizzato – direbbe Edgar Morin – a sradicale i docenti dalle loro abitudini e sovranità disciplinari, per una riforma del sistema di insegnamento in grado di promuovere e rendere possibile una adeguata comprensione della complessità del reale.
Se nella cultura istituzionale della scuola media di Mori è rimasto qualcosa della cifra “rivoluzionaria” appena richiamata, ritengo si possa concludere col dire che la dialettica vivace di quegli anni ha contribuito a produrre frutti che sembra giusto, e doveroso, non sottovalutare e non trascurare.