• sabato , 22 Febbraio 2025

La scuola dei Rav, dei Pdm e dei Ptof

Progettualità o adempimento?
(stralci da una lezione per i futuri dirigenti)

di Rita Bortone

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Questo all’esame non va detto
Mi è stato chiesto recentemente di tenere delle lezioni ad insegnanti che intendono partecipare al prossimo (?) concorso per la dirigenza. Il titolo della prima lezione, Una progettazione di lungo termine per una scuola migliore, richiedeva chiaramente una riflessione che, coerente con il dettato della buona scuola, ragionasse sul Piano triennale dell’offerta formativa e sulla logica del miglioramento, temi molto frequentati quest’anno e oggetto di numerosissimi scambi, comunicazioni, riflessioni, articoli, volti alla ricerca della migliore risposta possibile alle imponenti nuove richieste rivolte oggi alle scuole.
La mia attenzione dunque, generalmente centrata sui problemi che dirigenti e docenti affrontano nella quotidianità, si è spostata verso le domande di principio che mi pongo ogniqualvolta mi capita di dover aiutare chi concorre alla dirigenza, domande che discendono dalla consapevolezza che le mie lezioni e riflessioni, con gravi rischi per i malcapitati che hanno chiesto il mio aiuto, tendono a preparare più alla professione che al concorso. Qualcuno potrebbe chiedersi: non è forse la stessa cosa? Teoricamente, lo sappiamo, dovrebbe essere la stessa cosa, ma in realtà non lo è.
Il concorso vuole che tu sappia le cose come la scuola ufficiale le descrive, vuole che tu conosca il dover essere illustrato da norme e riforme, che la tua immagine di scuola sia quella rappresentata nei siti e nei documenti nazionali, e vuole che tu dimostri di saper governare quella scuola con gli strumenti e i modelli che le istituzioni hanno costruito per te, e che pertanto sono buoni e giusti e ti aiutano a fare bene il tuo dovere di dirigente.
Mi sento dunque sistematicamente in colpa quando mi lascio andare vuoi ad osservazioni critiche sulla realtà e su quanto vistosamente essa si discosti dalla norma, vuoi ad autoreferenziali seppur fascinose immagini di una scuola che potrebbe essere ma che non c’è e di una professionalità che potrebbe essere ma che non c’è, né viene richiesta, né forse sarebbe oggi compatibile con quanto il sistema vuole e consente.
E tuttavia, nonostante il senso di colpa, penso che in fondo è ingiusto, nel nome della miopia e della angustia concorsuale, privare menti e coscienze di stimoli che – chissà! – magari possono lievitare domani in direzione di professionalità consapevoli e critiche e non solo applicative. Quindi, la mia proposta di riflessione tenta di mediare tra la necessità di informare oggettivamente e la voglia di commentare soggettivamente: presento norme e riforme, dipingo le immagini ufficiali di una scuola moderna e tecnologicamente avanzata, attenta ad esiti e a processi, a saperi e a cittadinanze, accogliente e inclusiva, che apprende da se stessa per crescere e migliorarsi; presento funzioni e ruoli della figura dirigenziale, ambiti di competenza e ricadute sul sistema, stili di indirizzo e di leadership, e così via di seguito…; ma non risparmio poi la segnalazione di bugie e millanterie, di parole belle ma operativamente vuote, di intenzionalità nobilissime non supportate da strumenti attuativi, né risparmio (dall’alto della mia vecchiaia!) critiche e ironie (più o meno affettuose!) nei confronti della classe dirigente e docente, o meglio delle prassi talvolta seguite nella gestione della scuola e delle professioni.
Le mie visioni critiche e l’implicito incoraggiamento ad assumerne di altrettanto critiche nella futura professione mi impongono dunque di segnalare, ad ogni piè sospinto, ragazzi, questo però all’esame non va detto, quello che va detto è questo e quest’ altro, e così via su molti, troppi, temi.
La nuova offerta formativa tra procedure obbligate e ricerca di modelli
Se si analizzano un po’ dei nuovi Ptof, facilmente visionabili nei siti dei diversi Istituti, è facile osservare le analogie d’impianto, la ricorrenza delle tematiche, la uniformità del lessico, dovuti sia ai comuni riferimenti a documenti e procedure standardizzate a livello nazionale (Rav e Pdm), sia alla comune assunzione di scelte conseguenti alle indicazioni di cui alla Legge n.107/2105, sia infine al diffuso riferimento ai modelli di Ptof che associazioni sindacali o di categoria, case editrici e opinion leader nazionali hanno fornito ai dirigenti che hanno incontrato difficoltà nella elaborazione del nuovo documento.
Al di là delle analogie, comunque, leggendo un po’ di Ptof, si può constatare facilmente che essi manifestano, pur nella comunanza dei riferimenti, una profonda differenza di qualità progettuale tra una scuola e l’altra: i modelli forniti sono ben “riempiti” dalle scuole che già prima dei Rav e dei Pdm conoscevano la logica delle analisi Swot e dei miglioramenti, che erano già strategicamente proiettate verso un’idea unitaria di scuola, già in possesso di sicure tecniche progettuali, valutative e autovalutative. Le altre scuole, quelle che progettavano male prima, hanno progettato male anche adesso, magari con parole e formule che a prima vista (ma solo a prima vista!) suggeriscono immagini di coerenza, di efficacia, di efficienza. Prima, c’erano scuole che progettavano e scuole che riempivano carte. Oggi, ancora, ci sono scuole che progettano e altre, molte altre, che adempiono ad imperativi nazionali e compilano modelli.
Gli obiettivi da perseguire sono quelli. I modelli da adottare sono quelli. Le procedure devono esser quelle.
Le responsabilità centrali mi sembrano elevate: nel mio peregrinare tra scuole di ambienti e ordini diversi, troppe volte ho l’impressione che le condizioni in cui docenti e dirigenti sono chiamati a lavorare stiano promuovendo una cultura dell’adempimento più che dell’autonoma progettazione, e che stiano arrestando, mentre dicono di volerla sostenere con modelli e schemi attuativi di dubbia funzionalità, ogni potenziale autonoma ricerca di una caratterizzazione sul piano culturale, organizzativo, formativo. C’è persino qualcuno (tra gli estensori dei modelli) che generosamente ha proposto e messo in rete esemplificazioni delle diverse parti del Ptof già strutturate nell’impianto testuale, con le parti mancanti pronte al completamento…
Per progettare occorrono un’idea da perseguire e tanti strumenti tecnici: mio caro prof. aspirante alla dirigenza, un modello resterà sempre vuoto se a te e alla tua scuola mancano le risorse culturali e professionali. E se lo Stato non ti dà nient’altro che modelli e procedure da seguire, e non ti chiede nient’altro che di correre per adempiere, non devi sentirti esonerato dal dover studiare sempre, non per il concorso, ma per sconfiggere l’inerzia culturale che facilmente si anniderà in te, nascosta dalle corse sfrenate e dall’appagamento per la data rispettata e la piattaforma compilata.
Per una scuola migliore occorrono più adempimenti o più competenze?
Il Pof, nato con l’autonomia e come suo fondamentale strumento, richiedeva agli Istituti l’esercizio di una progettualità che, coerentemente con una lettura del contesto e dei suoi bisogni e con una visione culturale e pedagogica, avrebbe dovuto caratterizzare l’offerta formativa attraverso scelte di contenuto e di metodo, attraverso modalità di organizzazione del lavoro, di gestione di tempi e spazi, di definizione di incarichi e organigrammi, di relazione col territorio.
Sappiamo bene che le scuole non hanno poi brillato per progettualità e divergenza, e che i Pof hanno spesso assunto caratteri molto simili tra loro, differenziandosi a volte solo per qualità grafica dei documenti e per quantità di progetti proposti. Sappiamo anche che tali progetti, promossi dall’alto o suggeriti dal basso, hanno avuto talvolta esiti positivi pur nella loro frammentarietà, ma difficilmente sono stati portatori di un’idea formativa unitaria e raramente hanno caratterizzato l’offerta formativa dell’Istituto per una condivisa idealità culturale, politica, etica, o per una condivisa scelta metodologica. Oggi il piano dell’offerta formativa diventa triennale, ma non so quanto questa triennalità possa far guadagnare in progettualità e strategicità, non essendo cambiate le situazioni che generano il problema, e che riguardano soprattutto le professionalità implicate (da: Cosa offrirà la nostra offerta, R.B., Scuola e Amministrazione, ottobre 2015).
Di fronte ad una nuova pratica è sempre, comprensibilmente, avvertito il bisogno di modelli di riferimento; per interpretare il contesto e definire i propri obiettivi, è sempre stato giusto partire dalla norma; nell’elaborare un piano, è sempre stato necessario considerare le criticità precedentemente rilevate ed effettuare serie analisi di fattibilità, e la ricerca della qualità ha sempre richiesto politiche di autovalutazione e di miglioramento: sempre, ma per chi e per quante scuole del Paese? Oggi, processi autovalutativi e migliorativi sono attivati per norma, da tutte le scuole. Ma bastano gli arzigogolati modelli centrali per produrre le competenze necessarie? E l’ansia adempitiva potrà mai supplire ad una progettualità distesa, consapevole, competente?.
I Rav proposti alle scuole spesso hanno messo a fuoco solo le criticità di superficie; i Pdm spesso sono stati solo un complicato gioco di caselle ad incastro; la fatica compilatoria non sempre ha prodotto apprendimenti “significativi” o “organizzativi” da parte dell’Istituzione scolastica. Quanto gioverà alla fertilità progettuale d’Istituto il rispetto delle priorità e dei traguardi indicati nel Rav? Quanto gioverà alla qualità dell’offerta il rispetto del Pdm? E in quale pagina potremo scoprire l’anima culturale e pedagogica del nuovo Ptof?
L’illusione ministeriale è quella di poter promuovere la cultura dell’autovalutazione e del miglioramento a forza di circolari, modelli e piattaforme?
Penso che, per progettare un’offerta formativa a lungo termine, occorra prima di tutto avere un’idea di scuola da perseguire, un’idea di studente da formare, tante idee specifiche e tra loro connesse da realizzare per quell’idea; credo che occorra saper pesare le Indicazioni nazionali, saper costruire un Rav con consapevole criticità e intenzionalità e con indicatori capaci di far emergere le reali debolezze dell’Istituto; che occorra saper definire le proprie priorità oltre l’appiattimento sulle medie Invalsi, saper individuare le proprie criticità oltre la mancanza di prove parallele; che occorra avere la cultura di un utilizzo funzionale delle risorse, di una gestione funzionale del tempo, una cultura del controllo e della rettifica come prassi permanenti, diffuse, funzionali al miglioramento. Il diagramma di Gannt non è la compilazione più o meno occasionale di caselle disposte lungo una linea del tempo.
Credo che occorra conoscere le logiche e le tecniche della progettazione e disporre di strategicità di pensiero, ovvero della capacità di individuare la concatenazione causale di processi e azioni. Ma la strategicità implica la capacità previsionale, e la capacità previsionale implica la padronanza dei processi che si intendono governare: per una progettazione a lungo termine, occorrono maggiori competenze al dirigente scolastico ed al suo staff, occorrono progettualità e strategicità insieme, condivise e diffuse. E non saranno certo le continue assillanti richieste centrali o i modelli nazionali a far maturare queste competenze: semmai essi ne bloccano ulteriormente lo sviluppo e la ricerca, identificando la qualità della scuola con la capacità di rispondere, entro i giusti tempi e compilando i giusti modelli, alle richieste nazionali. Identificando la qualità dell’offerta formativa con la capacità di stare nelle medie Invalsi o di rispondere agli obiettivi elencati nella buona scuola.
Caro prof. che aspiri alla dirigenza, non c’è progettualità se non c’è idealità e se non ci sono competenze.
Quando l’adempimento prevarica la progettualità, muore l’autonomia
La buona scuola (la Legge n.107/2015) afferma più volte e con più provvedimenti una intenzionalità diretta verso la costruzione di condizioni che garantiscano la piena attuazione dell’autonomia.
Fin dal suo nascere, l’autonomia si fonda sull’esercizio della progettualità, del dirigente scolastico prima e poi dell’Istituzione tutta: e la prassi progettuale, indirizzata, diffusa e coordinata, rivolta alla complessità del sistema che ciascun Istituto rappresenta, diventa l’ineluttabile strumento dell’ordinario governo dell’Istituzione scolastica autonoma. E’ la progettualità, intesa come processo decisionale, intenzionale e strategico volto alla realizzazione di idee ed al raggiungimento di risultati, il campo in cui non solo si esprime la responsabilità dei diversi attori dell’Istituzione scolastica, ma in cui si realizzano anche le condizioni dell’efficacia del sistema.
Ma fin dal suo nascere, l’autonomia della scuola italiana ha constatato la diffusa debolezza della pratica progettuale e la diffusa tendenza alla sua burocratizzazione, al suo svuotamento. Son passati diversi anni da quando facevo queste poco allegre considerazioni sull’autonomia della scuola italiana: Le difficoltà che incontriamo oggi nella “nuova” quotidianità forse con la riforma non c’entrano (allora si trattava della cosiddetta Riforma Moratti): c’entrano con un’autonomia mai esercitata, con una flessibilità organizzativa e didattica mai sperimentata, con uno scollamento dal territorio mai superato, con una decisionalità stanca, con una responsabilità debole, con una “libertà progettuale” angusta, con una “ricerca povera”. Autonomia “debole”, la nostra. Per le tentazioni centralistiche dei ministri e per la cultura di un legislatore che ha davvero un bel modo di concepire le “norme generali sul sistema d’istruzione”, visto che prescrive contenuti e metodi, figure e strumenti, modelli progettuali e organizzativi. Ma debole anche per la cultura degli Istituti, dove l’adempimento resta regola di pensiero e di comportamento, dove la tensione culturale e civica diventano sempre più tenui, dove sono basse la percezione e la condivisione delle responsabilità culturali, professionali, politiche.
Caro Prof., l’autonomia va agita, non affermata a parole. Le politiche ministeriali contano molto, ma contano anche le tue politiche, la tua capacità di giudizio critico, la tua capacità di scelta. Conta quello che sai, che sai fare, che sai essere.
Quando l’adempimento prevarica la progettualità, nascono le liturgie
Nel tempo, la scuola italiana ha dovuto progettare in attuazione di norme e riforme; è stata indotta, con la carota del finanziamento, a partecipare a bandi e a progetti in funzione degli obiettivi più disparati; ha adottato il lessico e i formulari della progettazione per competenze; ha manipolato indicatori non scelti e strumenti non autonomamente costruiti per valutare i propri processi e per migliorarli; ha elaborato molteplici piani, per l’offerta formativa d’Istituto o per i ragazzini disabili, per l’integrazione dei progetti in visioni unitarie e per i bisogni educativi speciali, per lo sviluppo digitale e per la formazione in servizio: ma senza che mai nessuno dei decisori politici si sia chiesto quali condizioni e quali strumenti siano davvero necessari, a dirigenti e docenti, perché progetti e piani e intenti possano trasformarsi in qualità della formazione e della scuola.
O forse qualcuno se lo è domandato, ma si è ritenuto di non poter o non voler dare risposte, poiché queste avrebbero richiesto scelte politiche ed economiche impegnative. Forse qualcuno ha ritenuto che la mancanza delle competenze necessarie per dare senso ed efficacia alle nuove pratiche potesse esser colmata da un modello elaborato da Invalsi o da Indire: ma se qualcuno ha pensato questo, forse si è sbagliato. Non dico le logiche di fondo, ispiratrici dei modelli, ma neanche le parole, spesso, sono state comprese dalle scuole che li hanno manipolati e compilati!
Molte volte ho citato quanto scriveva Domenici nel 2008 relativamente alla progettazione della scuola italiana: La pratica della progettazione, più che una realtà consolidata, pare l’ostentazione di un ossequio formale alla imposizione normativa, ridotta così a una sorta di elencazione di pur nobili intenti, di vere e proprie petizioni di principio, evocati vieppiù liturgicamente all’apertura di ogni anno di scuola anche al fine di incrementare o tenere il numero degli iscritti (G. Domenici 2008).
Possono bastare oggi Rav, Pdm e Ptof, con i relativi modelli nazionali di supporto, a superare le vecchie liturgie? O rischiano di crearne altre, più moderne? Forse ci vuol altro perché la scuola pubblica diventi capace di progettare.
La costruzione dell’autonomia si gioca in larga parte sul cambiamento di mentalità: essa richiede che gli insegnanti e i capi d’Istituto diventino, da esecutori di decisioni prese da altri, soggetti protagonisti capaci di fare scelte all’interno di un progetto formativo condiviso, inserito in un quadro di obiettivi e standard formativi nazionali. Così scrivevo tanto tempo fa, compiacendomi della mia stessa utopia.
Quando l’adempimento prevarica la progettualità, caro prof., nascono le liturgie, e le liturgie non portano miglioramento. Solo tu puoi impedire che la progettazione della tua scuola diventi un insieme di liturgie. Ma devi costruire competenze forti, in te e nei tuoi insegnanti

Le condizioni del miglioramento
Abbiamo detto che per una progettazione a lungo termine occorrono, al dirigente scolastico ed al suo staff, maggiori competenze in ambito progettuale e valutativo.
In realtà, una maggiore competenza in ambito progettuale e valutativo non basta: occorre prima di tutto conoscere a fondo, nei loro elementi costitutivi, i processi da promuovere, da controllare, da valutare: sono tanti, e di tipo diverso.
Lo Schema n. 1 riporta un vecchio atto d’indirizzo dirigenziale, tratto dagli atti di una scuola secondaria di 1° grado, un atto d’indirizzo che risale all’anno scolastico 97/98, quando la complessità delle Istituzioni scolastiche era molto meno elevata di ora. E’ molto diverso dai ricchi atti d’indirizzo visibili oggi in rete. E tuttavia la progettualità (la libera progettualità) è l’elemento centrale di quell’atto ed è una progettualità di miglioramento: quasi 20 anni fa.
Non erano diffusi, allora, atti come questo, ma le attese di una scuola migliore, allora, erano riposte nella fiducia di una possibile generalizzazione di quelle pratiche e di quelle competenze: oggi diciamo di volere una scuola più autonoma, di voler costruire una scuola buona o migliore, ma non ne sono state costruite le condizioni. Tra le condizioni di una scuola migliore c’è prima di tutto la qualità delle risorse professionali e un patrimonio generalizzato di competenze.
Quando sarai dirigente, caro prof. che ora aspiri ad esserlo, il tuo compito sarà comunque quello di migliorare la tua scuola: di migliorarla permanentemente, con o senza Pdm. Ma, per farlo, devi costruire, conservare, tutelare, lucidare, coccolare la tua professionalità e la tua autonomia di pensiero, se altri non lo faranno. Senza un pensiero tuo, critico, ricco di ancoraggi al contesto ma anche di idealità, ricco di strumenti culturali e professionali, forte di sintonie e condivisioni, è difficile che la tua scuola migliori, anche se compilerai un bel Pdm.

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