di Francesco G. Nuzzaci
1-Con la terza e definitiva lettura del Senato, il 4 agosto è stata approvata la c.d. Riforma Madia, una legge delega che, in attesa della sua pubblicazione in gazzetta ufficiale, è stata illustrata, nella struttura e nei contenuti, dalle immancabili sbrigative slide della presidenza del Consiglio e dagli organi di stampa, in termini parimenti essenziali, anche per quel che concerne il perno su cui la stessa ruota: la radicale riscrittura della disciplina della dirigenza pubblica per conferire una maggiore responsabilità, e insieme valutarla come in concreto sia poi stata assolta, a chi, quale primum movens, è chiamato ad implementare una pubblica amministrazione a misura dei cittadini.
Il rinumerato articolo 11 (Dirigenza pubblica) del nuovo testo di legge, ancorché recante modifiche ed integrazioni rispetto alla stesura iniziale a suo tempo licenziata dal Senato, mantiene sostanzialmente la coerenza con il primigenio impianto – il DDL 1577/14 – che aveva disegnato una dirigenza pubblica in senso generalista, siccome tipica figura organizzatoria che, a prescindere dal luogo di esercizio della funzione, era – è – chiamata ad azionare autonomi poteri di gestione di risorse umane, finanziarie e strumentali, che deve combinare in modo ottimale – secondo i criteri di efficienza, efficacia ed economicità – per la realizzazione dello scopo-programma-progetto, non importa se predefinito dal committente politico (paradigma: art. 16, D. Lgs 165/01, per i capidipartimento e direttori generali) o assegnato dal dirigente di vertice (successivo art. 17, per i dirigenti amministrativi e tecnici di seconda fascia) o direttamente prescritto da fonte normativa e con possibilità di ulteriori obiettivi specifici nel provvedimento d’incarico (per i dirigenti scolastici preposti alla conduzione di istituzioni scolastiche, enti-organi dello Stato, funzionalmente autonome, secondo il paradigma figurante nell’art. 1, comma 2, D.P.R. 275/99, integrabile con i contenuti della funzione compendiati nell’art. 25 del D. Lgs 165/01, cit., ed ora rinforzati dalla legge 107/15, art. 1, comma 78 ss.): valendo per tutti l’ esclusiva responsabilità di risultato.
2-Conseguentemente, è confermata l’istituzione dei tre ruoli unici (per lo Stato, per le regioni, per gli enti locali), distinti ma coordinati e suscettibili di reciproche compenetrazioni: ciò che ha importato l’abolizione delle due attuali gerarchizzate fasce, di una dirigenza a carriera garantita e a vita, non più compatibili con una dirigenza che si vuole position based, strutturalmente precaria, connotata dalla piena interscambiabilità e rotazione degli incarichi in virtù dei titoli e competenze culturali e professionali volta per volta allegabili – e valutabili ad opera di un organismo indipendente – da ogni dirigente che aspiri a quell’incarico disponibile e a prescindere dall’amministrazione di provenienza; con l’ulteriore corollario dell’omogeneizzazione delle retribuzioni, quindi della riparametrazione delle inerenti voci tabellari, posizione fissa, posizione variabile e rimodulazione della retribuzione di risultato, nei limiti delle risorse complessivamente destinate dalle vigenti disposizioni legislative e contrattuali, rapportate esclusivamente ai carichi quali-quantitativi di lavoro e inerenti responsabilità.
Resta, coerentemente, esclusa dai ruoli unici la dirigenza medica, veterinaria e sanitaria del SSN siccome esercitante prevalentemente, se non esclusivamente, funzioni tipicamente professionali, di natura squisitamente tecnica, all’interno della struttura organizzativa, cioè priva di compiti di gestione di risorse umane e finanziarie, se non in misura marginale o eventuale, come per gli ex primari ospedalieri che, pur preposti alla conduzione di strutture dipartimentali complesse, hanno comunque anch’essi la funzione preponderante del compimento dell’atto medico.
La predetta esclusione dai ruoli unici è stata adesso allargata a quelle figure che il D. Lgs. 165/01 mantiene nell’ambito della disciplina pubblicistica e che in essa continuano a permanere: magistrati ordinari, amministrativi e contabili; avvocati e procuratori dello Stato; personale militare e delle forze di polizia dello Stato; personale della carriera diplomatica e prefettizia; personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco; personale della carriera dirigenziale penitenziaria; professori e ricercatori universitari; il personale di talune autorità indipendenti.
Detto, incidentalmente, che per tutte queste categorie notoriamente forti non dovrebbe derivarne pregiudizio alcuno, appare per contro del tutto incoerente con la ratio legis la confermatissima esclusione dai ruoli unici dei cirenei preposti alla direzione delle istituzioni scolastiche, e proprio nel momento in cui la parallela legge 107/15 ne ha rafforzato i poteri ed incrementato le afferenti responsabilità, sancendo che essi sono chiamati a garantire un’immediata e celere gestione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche e materiali, svolgendo dunque compiti di gestione direzionale, organizzativa e di coordinamento, con responsabilità della valorizzazione delle risorse umane e del merito dei docenti.
In un Paese normale dovrebbe risultare pacifico che tutti i connotati dell’appena riscritta dirigenza pubblica si attagliano alla perfezione alla dirigenza scolastica e perciò ne imporrebbero la sua inclusione nel ruolo unico, per l’esattezza nel ruolo unico della dirigenza statale, come esplicitamente, e ripetutamente, riconosciuto dalle giurisdizioni superiori – da ultimo: Cons St.,Sez. II, Parere 1021/00; id., Parere 1603/99 e Ad. Gen. 9/99; Cons. St., Comm. Spec. P.I., 529/03, richiamato da Corte cont., sezioni riunite di controllo, 02/04/06 e 14/07/10 – e dalla dottrina ( PAOLUCCI, POGGI).
Certo è che difettando l’obbligato presupposto di legge dell’appartenenza al ruolo unico, non vi è ipso iure possibilità di collocazione in una delle sezioni interne del medesimo, previste per le carriere e/o professionalità speciali, vale a dire per quelle figure dirigenziali – o almeno così dovrebbe essere – connotate da intrinseche peculiarità. E sarebbe esattamente il caso della dirigenza scolastica, per il cui accesso, oltre ai requisiti ordinari per accedere ad ogni dirigenza, è imposta la provenienza dalla funzione docente; evidentemente perché lo stesso Legislatore, con libera valutazione, ha ritenuto e ritiene che chi è preposto alla conduzione delle istituzioni scolastiche debba avere confidenza con i processi educativi, affinità di linguaggio con i professionisti dell’educazione-istruzione-formazione che deve coordinare, familiarità con contesti organizzativi contrassegnati da legami deboli, in cui l’interpretazione prevale sull’esecuzione, in luogo dei lineari canoni propri delle procedure prevalentemente standardizzate.
Ma evidentemete a suo tempo la Commissione del Senato, alla buon’ora concludendo i propri lavori, aveva stimato non doversi fare irretire da consimili e sterili disquisizioni, decretando l’esclusione della dirigenza scolastica dal ruolo unico della dirigenza statale con la motivazione resa seraficamente dalla presidente Anna Finocchiaro: Sono inammissibili gli emendamenti, d’iniziativa sia parlamentare che governativa, che rechino disposizioni contrastanti con le regole di copertura stabilite dalla legislazione vigente o estranee all’oggetto dei disegni di legge stessi, come definiti dalla legislazione vigente nonché dal documento di programmazione economico-finanziaria come approvato dalle risoluzioni parlamentari.
E’ stato solo concesso un innocuo ordine del giorno, perché privo di qualsivoglia cogenza e perciò approvato all’unanimità, che dovrebbe impegnare il Governo, in sede di decretazione attuativa e tenendo altresì conto del documento programmatico La buona scuola, poi tradotto nella legge 107, a:
-definire una disciplina chiara e omogenea che garantisca la coerenza dell’indirizzo politico del Governo provvedendo, con riferimento al profilo, alla condizione e all’inquadramento della dirigenza pubblica, a ricondurre ad una logica unitaria i due provvedimenti citati, nel senso del pieno riconoscimento della funzione gestionale e amministrativa del dirigente scolastico e pertanto valutare la sua progressiva confluenza all’interno del ruolo unico dello Stato;
-valutare anche una classificazione dei ruoli dei dirigenti, nel senso di due sole distinte classi, uno relativo ai ruoli professionali (medici, dirigenti tecnici, ricercatori) e l’altro a ruoli gestionali (dirigenti amministrativi e scolastici), caratterizzati, questi ultimi, dalla responsabilità della gestione delle risorse umane e strumentali, oltre che da autonomi poteri connessi allo svolgimento delle varie funzioni affidate.
Per intanto, prosaicamente: Le risorse finanziarie restano quelle a legislazione vigente e pertanto la loro riparametrazione-redistribuzione non può intaccare gli pseudo diritti acquisiti e cristallizzati di tutte le odierne dirigenze vere, già collocate nelle sette delle vigenti otto aree dirigenziali. Per cui, detto sempre fuori dai denti, non possono partecipare alla divisione della torta gli ingombranti ottomila e passa parenti poveri; che, gioco forza, devono restare confinati nell’Area quinta – o come la si vorrà ridenominare nella presumibile prossima riapertura dei tavoli contrattuali – a contemplare la loro ineffabile specificità.
Le regole di copertura della legislazione vigente non sono però di ostacolo per coloro che, tecnicamente, potrebbero definirsi dei professional, come gli odierni dirigenti tecnici, compresi gli ultraspecifici dirigenti tecnici del MIUR, già ispettori scolastici ed obbligatoriamente provenienti, come i dirigenti scolastici, dalla funzione docente: Che non gestiscono, istituzionalmente, risorse umane e finanziarie e che spesso sono del tutto privi di una minima struttura fisica da governare; per i quali – e a dispetto dell’ordine del giorno appena riportato – non è, né mai è stata, in discussione la loro appartenenza al ruolo unico, senza neanche necessariamente collocarli in un’apposita sezione speciale. E lo stesso è ora a dirsi per i già segretari comunali, che pure li si voleva abolire e che invece sono stati promossi dirigenti pleno iure.
Per quel che può valere, e al fine di evidenziare l’inconsistenza di risalenti – e ricorrenti, alla stregua di un fiume carsico – teorie prive del minimo ancoraggio normativo, secondo cui la dirigenza scolastica sarebbe una forma differenziata dell’unicità della funzione docente, quella agita nelle istituzioni scolastiche non può, di tutta evidenza, qualificarsi come dirigenza professionale (di per sé un ossimoro), quasi che la sua funzione fosse quella di un maestro o di un docente disciplinarista, giustamente fondata sull’insegnamento con quel che lo integra e lo supporta: che costituisce, per l’appunto, il contenuto tipico della funzione docente (cfr. art. 395 del D. Lgs. 297/94 e artt. 26 e 27 CCNL Scuola), già distinta de plano dalla funzione direttiva (cfr. art. 396 dello stesso decreto) e ora dirigenziale (cfr. la norma speciale di cui all’art. 25 del D. Lgs. 165/01, ripreso e dettagliato dall’art. 1 del CCNL dell’Area quinta, e le disposizioni di valenza generale dell’ art. 17, D. Lgs. 165/01, cit., oltreché ora l’art. 1, comma 78 ss., legge 107/15, cit.).
3-Occorre dunque, allo stato, prendere realisticamente atto, e senza coltivare soverchie illusioni sui cennati decreti attuativi della delega, che, per non breve tempo, sarà preclusa la via legislativa per la giusta rivendicazione della dirigenza scolastica ad un trattamento normativo ed economico di una dirigenza vera e non di una dirigenza farlocca.
E a ben vedere ne è conferma la stessa pluricitata legge 107/15, laddove incrementa per la dirigenza scolastica il Fondo unico nazionale per il riconoscimento e la valorizzazione delle specificità che ne caratterizzano i compiti e il profilo professionale. Peccato però che quella spacciata come remunerazione delle nuove competenze attribuite al dirigente scolastico in realtà è una doverosa – e parziale – reintegrazione del predetto Fondo per la retribuzione di posizione e di risultato; che vale solo dal primo settembre 2015 e che forse sana appena, con la somma stanziata a titolo di una tantum per il solo 2016, le decurtazioni imposte dal MEF, e subite dal MIUR, per gli anni scolastici 2012-13, 2013-14, 2014-15: per cui, secondo conti già fatti, se non proprio dovrà restituirsi quanto in parte già percepito – ma qualche Ufficio scolastico regionale ha già al riguardo dimostrato un’inopinata solerzia – si dovrà rinunciare alla miserabile retribuzione di risultato, neanche un decimo di quella mediamente percepita dai normali dirigenti di attuale pari seconda fascia, per almeno un paio d’anni. In conclusione, a noi sembra che, a porla in chiaro, si sia di fronte a uno dei tanti sperimentati giochi di prestigio di chi potrà poi affermare di aver già dato.
Avevamo a suo tempo avuto occasione di dubitare della reale consistenza di quel piccolo spiraglio che, a giudizio del sindacato maggiormente rappresentativo della dirigenza scolastica, si era aperto in forza di un emendamento minimale che aveva inserito nel testo licenziato dalla Commissione Affari costituzionali del Senato – e confermato nella legge – la salvezza della disciplina speciale in termini di reclutamento e inquadramento della stessa (id est: della dirigenza scolastica), sicché sarebbe stato allontanato il rischio di una esclusione dei capi d’istituto (sic!) dal profilo dirigenziale.
Peraltro annotavamo – e annotiamo – che non c’era, e non c’è, da far salva alcuna disciplina speciale poiché quella così qualificata, già figurante nel previgente art. 29 del D. Lgs 165/01, risulta abrogata dall’art. 17 del D.L. 104/13, convertito dalla legge 128/13, in favore di una esplicita generale e uniforme statuizione, sia di reclutamento che di formazione, valevole per tutta la dirigenza pubblica, e ora affidata alla neo istituita Scuola Nazionale dell’Amministrazione; che nei concorsi pubblici nazionali per titoli ed esami nella selezione degli aspiranti dirigenti scolastici dovrà certamente accertare le competenze didattiche, ma non di meno quelle gestionali e organizzative adeguate alle nuove funzioni.
In realtà, il solo effetto dell’emendamento adesso cristallizzato in un testo di legge è quello di conservare il mero nomen iuris di dirigenza, che magari con suggestive ridenominazioni continuerà ad essere sempre – è stato efficacemente scritto – relegata in una specie di retrobottega per farvi stazionare l’unico scarto della dirigenza pubblica.
Insomma, quel soddisfacente compromesso provvisoriamente raggiunto non è, di per sé, per nulla propedeutico e/o strumentale al perseguimento dell’obiettivo del pieno inserimento nel ruolo unico. Che è ormai andato.
E a riflettere con maggiore attenzione, l’esser fuori dal ruolo unico e regolati dalla, presunta, normativa speciale di reclutamento e di formazione, non è che, propriamente, dia la sicurezza di evitarne l’altra faccia della medaglia, resa ora meno cruenta nella versione definitiva della legge.
E’ una faccia che già in sede di reclutamento, sia per corso-concorso che per concorso, prevede l’iniziale inquadramento come funzionario per un triennio e solo in seguito a positiva valutazione l’acquisizione della qualifica dirigenziale.
Conseguita tale qualifica dirigenziale, l’attribuzione del relativo incarico ha la durata di quattro anni, rinnovabili per lo stesso periodo a condizione che si partecipi alla procedura di avviso pubblico, ed eccezionalmente per altri due anni. Dopodiché per restare dirigenti necessiterà il superamento di un’altra procedura selettiva, vale a dire rifare il concorso, diversamente retrocedendosi a funzionario.
Tal che, alla luce di quanto or ora dedotto, non appaiono poi così stravaganti le dichiarazioni rilasciate alla stampa dalla ministra Giannini non molto tempo fa: che i dirigenti scolastici dopo alcuni anni torneranno verosimilmente a fare gli insegnanti.
4-Sbarrata la via legislativa, non resta che far affidamento allo strumento contrattuale, che dovrebbe essere riattivato subito dopo che la Legge di stabilità per il 2016 avrà stanziato le inerenti risorse. Ciò grazie alla recente sentenza n. 178/15 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità sopravvenuta del blocco contrattuale iniziato con la legge 122/10 e reiterato con successive pari disposizioni sino al 31 dicembre 2015, così rendendo strutturali, e non già eccezionali e transitorie, misure che irragionevolmente sacrificano, per un tempo di fatto indeterminato, alle pur legittime esigenze degli equilibri di bilancio – prescritti dall’art. 81 Cost. – il diritto fondamentale della libertà sindacale tutelata dall’art. 39 e che si estrinseca essenzialmente nel diritto di negoziare e di concludere contratti collettivi, e che non può essere precluso ad libitum, atteso che il contratto collettivo contempera in maniera efficace e trasparente gli interessi contrapposti delle parti e concorre a dare concreta attuazione al principio della proporzionalità della retribuzione, ponendosi, per un verso, come strumento di garanzia della parità di trattamento dei lavoratori e, per altro verso, come fattore propulsivo della produttività e del merito.
Sembrerebbe superfluo rimarcare che l’obbligata riapertura dei tavoli negoziali imporrà alle parti di agire secondo buona fede. E nel caso di specie lo imporrà soprattutto al datore di lavoro pubblico, che non può procrastinare all’infinito il diritto all’equiparazione, sotto il duplice profilo normativo ed economico, della dirigenza scolastica alla dirigenza statale, dopo che il predetto diritto, nelle congiunte dichiarazioni a verbale delle parti e in ordini del giorno votati dal Parlamento all’unanimità ed accolti dal Governo, si sarebbe dovuto già realizzare con il secondo CCNL, quello del 2006, successivo al contratto d’ingresso nella dirigenza dei già presidi e direttori didattici, stipulato nel 2002.
Andato in cavalleria anche il quadriennio 2006-2009, non onorare l’impegno neanche con il quarto contratto collettivo nazionale di lavoro – sempre allegando gli ostativi vincoli di bilancio – significherebbe, nella sostanza, vanificare il principio ora statuito dagli alti magistrati del Palazzo della Consulta e rinforzato sia dalla giurisprudenza comunitaria che dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, di cui è puntuale parola nella stessa sentenza 178/15 in discorso.
Quanto meno elementari ragioni di equità pretendono la realizzazione dell’obiettivo minimo della perequazione della retribuzione di posizione fissa, connessa al semplice fatto dell’esercizio di qualsivoglia funzione dirigenziale (e tale è ex lege quella espletata nelle istituzioni scolastiche).
Se non potranno a sufficienza soccorrere le risorse delle tante preannunciate e mai seriamente realizzate spending review si dovrà operare una redistribuzione solidaristica sull’intera platea della dirigenza pubblica, andando ad incidere sulle retribuzioni di posizione variabile e, vieppiù, sulle voci accessorie quali le retribuzione di risultato, talvolta decisamente spropositate, senza che qui possa farsi valere il dogma dei diritti acquisiti o di aspettative giuridicamente protette.
Se il contratto – l’imminente prossimo contratto – dovesse ancora fallire, allora bisognerà percorrere extrema ratio la via giudiziaria. Che dopo la pronuncia della Corte costituzionale sembra meno disagevole.