«l’economia che uccide»di Mario MelinoIntroduzione
Nel 1776, Adam Smith – il padre della rivoluzione economica che ha stravolto e modellato il mondo attuale – nella sua opera maggiore (Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni) esordisce con la descrizione di una fabbrica di spilli: «una manifattura di poco conto». Osserva che in tale opificio si è dato avvio ad una nuova e stupefacente organizzazione della produzione: il lavoro viene diviso in diciotto operazioni distinte, ognuna fatta da operai diversi. Rispetto all’artigiano che da solo – con il metodo tradizionale – fabbricava un “intero” spillo al giorno, la divisione del lavoro accresce la produzione fino a 4.800 volte per ogni addetto(1). Il ricettario principale dell’economia moderna è già pronto: divisione del lavoro, mercato, libera concorrenza, “mano invisibile”, competizione, disponibilità di merci, consumo, benessere e felicità sociale … Non manca nulla per costruire i “fasti” e i “nefasti” dell’età contemporanea.
La rappresentazione della società come mercato trova la sua piena fioritura nella scuola scozzese del XVIII secolo. «La conseguenza fondamentale di una tale concezione – scrive Pierre Rosanvallon – risiede nel fatto che si traduce in un rifiuto globale della politica. Non sono più la politica, il diritto e il conflitto a dover governare la società: è il mercato. Da questo punto di vista Adam Smith non è tanto il padre fondatore dell’economia politica, quanto il teorico del decadimento della politica»(2). Altrimenti – commenta Jean-Paul Fitoussi – «come spiegare perché continuiamo ad affidarci alle virtù del mercato anche quando veniamo edotti delle sue debolezze?»(3).
Il nuovo imperialismo
La versione economica del liberalismo che conosciamo e sperimentiamo oggi è quella passata attraverso le tesi di Friedrich August von Hayek e la Scuola neoclassica di Chicago, quella antikeynesiana di Milton Friedman, quella che ha propugnato un mondo ideale interamente regolato dalle leggi economiche, dalle logiche del mercato, senza interferenze da parte dello Stato. Il neoliberismo considera il mercato una sorta di ecosistema in grado di autoregolarsi e mantenersi in equilibrio, un mondo perfetto fatto di crescita continua e piena occupazione, dove i singoli sono mossi esclusivamente da interessi egoistici, dove anche se sono pochi quelli che si arricchiscono, i benefici ricadono comunque su tutti (la “goccia” che cade in basso). Una teoria, osserva G. Ruffolo, che sembra l’anacronistico remake del divino orologiaio di Newton e del migliore dei mondi possibili di Leibniz e che Fitoussi definisce più brutalmente: «una fiaba per bambini … una teoria la cui complessità è seconda solo all’inutilità»(4).
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