• giovedì , 21 Novembre 2024

Il viaggio della conoscenza nell’incertezza del futuro

di Antonio  Errico

Fino ad un certo punto abbiamo avuto la possibilità di ipotizzare quali saperi sarebbero stati necessari negli anni a venire. Fino alle ultime stagioni del Novecento abbiamo potuto tracciare percorsi di conoscenza, stabilire finalità, delineare prospettive, confidando in alcune certezze o comunque in fondate consapevolezze. Poi, gradualmente ma rapidamente, le possibilità di ipotesi, le aree di previsione,  le fondate consapevolezze si sono ridotte, se non del tutto azzerate. La rapidità con cui  mutano  i contesti e si attivano e disattivano i fenomeni e i processi  sociali e culturali rendono pressoché improbabile la previsione e mettono a rischio la progettazione. Ma di un progetto abbiamo comunque bisogno; non può esserci formazione e cultura senza un progetto. L’essenziale è che non si tratti di un progetto rigido; l’importante è che si lascino varchi aperti all’imprevisto. Forse non possiamo assumere riferimento diverso da quello della figura di Ulisse: che un progetto di viaggio ce l’aveva, ma aperto, spalancato all’accoglienza del nuovo, dell’imprevisto,  dell’avventura.

Forse ora possiamo pensare alla conoscenza soltanto in termini di avventura. Inquieta, anche, perché priva di certezze. Protesa verso l’ignoto, anche se tramata di nostalgia. Attratta, allo stesso tempo, dalla condizione del passato e dalla figurazione del futuro. L’avventura della conoscenza si realizza prevalentemente, anche se non esclusivamente, in territori sconosciuti, e quasi del tutto sconosciuti sono i territori della conoscenza che si apriranno nel prossimo futuro. Possiamo formulare qualche ipotesi sugli sviluppi vertiginosi che avrà la tecnologia, ma forse molto poco e forse niente possiamo dire sulle conseguenze che produrranno quegli sviluppi. Possiamo supporre che l’umanità avrà necessità di incontrarsi parlando nuove lingue, ma al momento non sappiamo con certezza quali saranno queste lingue. Qualcuno sostiene che saranno quelle orientali. Può darsi. I territori sono foreste sconosciute. L’avventura necessaria, inevitabile. La prospettiva dell’avventura qualche volta ci impensierisce, ci fa quasi paura.  Ma poi, ci si rasserena se consideriamo che, in fondo, è sempre stato così, si è sempre avuto un confronto, talvolta anche serrato, con l’incognita e  l’imprevisto.

Non c’è nulla di nuovo, in fondo, se non una dilatazione della condizione di incertezza ormai diventata strutturale nell’esistenza di ciascuno e in quella di tutti. Aveva perfettamente ragione Zigmunt Bauman quando diceva che la versione postmoderna dell’incertezza non si presenta come un semplice fastidio temporaneo che può essere mitigato o risolto: il mondo postmoderno si sta preparando a vivere una condizione di incertezza permanente e irresolubile.

Però, tutti noi vorremmo che la condizione di incertezza nella quale ci ritroviamo si trasformasse in energia di creatività e in impulso alla progettazione di situazioni sociali e culturali di più forte dinamicità, di maggiore flessibilità.

Forse l’incertezza su quali saranno i saperi di cui avremo bisogno in un prossimo futuro potrebbe indurci a cominciare, adesso, una sperimentazione di riconfigurazione, di risemantizzazione dei saperi che abbiamo a disposizione. Perché, probabilmente, le conoscenze che verranno costituiranno l’esito di una integrazione e interazione di conoscenze vecchie e nuove. 

Ma una riconfigurazione e una risemantizzazione delle conoscenze richiedono  anche – o forse soprattutto – una direzione e una finalizzazione diverse da quelle che frequentemente attribuiamo ad esse. Quando, per esempio, si investe completamente  su quelle che definiamo “spendibili”, probabilmente si commette un errore di prospettiva abbastanza grave, perché non si può sapere se potranno essere spese anche domani.  Forse si deve investire sulle conoscenze trasversali, su quelle che si possono riconvertire, rielaborare, riformulare.  

Quando, ancora per esempio, si investe su conoscenze e competenze nettamente settoriali, probabilmente si commette un errore altrettanto grave, perché non si tiene conto che il settore al quale quelle conoscenze appartengono in modo esclusivo potrebbe essere coinvolto da crisi profonde e strutturali.  A volte accade che si aprano scenari in cui  le conoscenze e le competenze  settoriali diventano impedimenti. Per esempio, accade quando  il mondo del lavoro viene coinvolto, in qualche caso travolto, stravolto, da trasformazioni improvvise e radicali;  accade quando le migrazioni diventano fenomeni costanti e strutturali,   quando l’occupazione richiede  un progetto da ideare e da  realizzare  con fantasia e determinazione;  accade quando il benessere non si può considerare una conquista definitiva, ma una realtà che si può disintegrare se non si protegge costantemente e se non si diffonde a livello sociale; accade  quando la povertà assume altri profili, insospettati,  quando gli interrogativi sul senso dell’essere e dell’esistere vengono formulati con un lessico antico, ma con un senso nuovo. Accade in tutti questi e in molti altri casi.

Ecco, allora, che si rivela indispensabile predisporre le condizioni per  un sapere che possa avere una funzione domani, domani l’altro. Perché oggi, a quest’ora, è già passato.

La conoscenza è profondità

Quando i tempi passano e le storie di quei tempi diventano come scene sfocate in lontananza, e le cose che a quei tempi sono appartenute si trasformano in nient’altro che impolverati souvenir, allora può accadere, certe volte, che di quei tempi e quelle storie e quelle cose si avverta la mancanza. Una quasi nostalgia. Accade nell’esistenza di ciascuno. Accade nei contesti del sociale e quindi anche nelle forme e nei contenuti culturali.

Così in qualche caso ci si chiede, per esempio, se quello che sopraggiunge con la fisionomia  del nuovo sia nuovo veramente. Oppure ci si chiede se risulta veramente indispensabile, o almeno necessario, o almeno conveniente, rimuovere certe strutture culturali che per anni, per decenni hanno dato significativi risultati. Ci si chiede se è indiscutibilmente  vero che il nuovosia sempre e comunque migliore dell’antico o se intorno a questo si può anche ragionare, operare dei distinguo, cercare di valutare quanto si perde e quanto si guadagna a promuovere o ad accettare mode e modelli culturali senza verificare la profondità delle loro radici.

Che il progresso si fondi sostanzialmente sul nuovo  non c’è da dubitare.  Ma non è possibile permettersi di sbagliare  gli accertamenti che si fanno sulla consistenza del nuovo rispetto ai contenuti e alle forme  culturali; non è possibile procedere con modalità  superficiali. Perché, quando si perde qualcosa che riguarda quei contenuti e quelle forme, diventa molto difficile e forse anche impossibile recuperare. Si perdono secoli di conoscenze. Visioni del mondo. Configurazioni di pensiero. Rallentano i processi di costruzione dei saperi fondamentali. Gli orizzonti si restringono e si fanno nebulosi. 

Allora, forse la distinzione non dovrebbe coinvolgere le categorie del nuovo o dell’antico, ma quelle della profondità e della superficie. Qualche volta si ha l’impressione che il confronto con i saperi si limiti alla superficie. Si ha l’impressione che non si abbia il tempo di assimilare, di mettere a confronto metodi e concetti in modo da  verificare se un nuovo modello di conoscenza costituisca uno sviluppo di quello precedente e quindi di ipotizzare i risultati sulla base di elementi concreti.   Si ha l’impressione, talvolta, che la superficialità con la quale stabiliamo una relazione con il sapere sia una condizione che interessa e attraversa ogni territorio culturale. Consumiamo gli oggetti delle conoscenze e anche gli esiti delle esperienze con una imprudente rapidità e con l’inevitabile conseguenza della dissolvenza di quegli oggetti e di quegli esiti, quasi che quel nuovo non sia mai venuto, che non sia accaduto niente. Consumiamo in fretta. Dimentichiamo in fretta. Così dell’esperienza e della conoscenza non resta niente.

Si perde anche la superficie e, ancora inevitabilmente,  le stratificazioni di significato che essa  contiene e che non abbiamo saputo neppure intuire. Ecco perchè si perdono secoli, visioni del mondo, passaggi di storia fondamentali.

Forse non è un problema di vecchio o di nuovo, di moderno o di antico, dunque. E’ un problema di profondità o superficie. E’ come se uno avesse la sfrontatezza di dire di conoscere il mare soltanto perché se ne sta  a guardare i movimenti leggeri delle onde. Il mare è la profondità che non si vede. Ma in pochi, in pochissimi possono conoscere la profondità del mare attraverso l’esperienza. In pochi, in pochissimi possono giungere alla conoscenza attraverso l’esperienza diretta. La conoscenza diretta rappresenta una percentuale minima della conoscenza di ciascuno e di una civiltà. Si conosce indirettamente, con la mediazione delle scienze, delle arti. La profondità del mare si conosce con questa mediazione. Ma nella relazione con le scienze e con le arti bisogna andare in profondità, e a volte bisogna anche avventurarsi al largo, “dentro, più dentro dove il mare è mare”, dice il finale di Horcynus Orca, il grande romanzo di Stefano D’Arrigo,  imparare a sentire la forza delle correnti e la loro confluenza. Poi non basta nemmeno andare nella profondità di una sola scienza, di una sola arte. Si deve comparare quello che si è appreso, metterlo in relazione, integrarlo, farlo interagire. Possono essere diversi i livelli di profondità ai quali si arriva: in un’arte, in una scienza,  possono essere maggiori, in un’altra  minori, a seconda degli interessi, delle finalità, della formazione di ciascuno. Ma ad una profondità si deve arrivare.

Quando i tempi e le storie passano, di quei tempi e quelle storie si avverte la mancanza. Una quasi nostalgia. Ma si sente la mancanza e una quasi nostalgia soltanto di  quelle stagioni e quei particolari delle storie che abbiamo vissuto in profondità. Tutto il resto si dimentica. E’ una legge naturale.

Accade la stessa cosa nella nostra relazione con le espressioni culturali. Rimangono soltanto quelle di cui abbiamo esplorato le profondità. Tutte le altre è come se non ci fossero mai state. Non ne abbiamo memoria. Non lasciano traccia. Forse quello che resta è soltanto il rammarico per il tempo che abbiamo dedicato alla superficialità.

Il progresso ha bisogno della creatività di tutti

“Io ho inventato e costruito una serie di equazioni che servono per gestire i sistemi complessi; equazioni a loro volta talmente complesse che non capivo cosa volessero dire. Poi lavorando con altri scienziati, ne abbiamo compreso il significato. Direi che è una grande soddisfazione perché è stato un lavoro molto creativo”.

Così dice il Nobel per la fisica Giorgio Parisi in un’intervista per il “Messaggero” rilasciata a Paolo Trevisi. 

Quanto più i fenomeni, i fatti, le storie, gli eventi, le organizzazioni, i sistemi, le strutture, gli apparati sono complessi, tanto più per la loro comprensione si ha la necessità di un pensiero creativo: che perfori la superficie, squaderni l’apparenza, metta in crisi l’acquisito, ridiscuta le finalità e gli obiettivi,  ridefinisca i metodi e le sequenze dei processi con cui si arriva alla conoscenza, determini un equilibrio tra prevedibilità e imprevedibilità, tra sistematicità e confusione che caratterizzano le situazioni e le condizioni che riguardano il sapere. In questo tempo più che in ogni altro tempo, probabilmente. Ma poi, in questo tempo più che in ogni altro tempo, non solo si ha bisogno di un pensiero creativo, ma si ha bisogno anche di una creatività condivisa. Il pensiero creativo e solitario, pur restando indispensabile e prioritario in quanto è nella solitudine che il pensiero di ciascuno si confronta con il non ancora pensato, non è più sufficiente. Se il pensiero creativo resta solitario, corre il rischio di non comprendere i risultati che raggiunge, le figure di significato che disegna o ridisegna, le strutture di senso che elabora o rielabora, le nuove espressioni che proietta sulla scena della conoscenza. Giorgio Parisi dice di aver inventato equazioni talmente complesse che ha potuto capire soltanto lavorando con altri scienziati. 

Probabilmente non basta una sola intelligenza per comprendere la complessità. C’è bisogno della convergenza di una pluralità di intelligenze, competenze, intuizioni. C’è bisogno anche della convergenza di molte sensibilità, di molte visioni dell’essere e del mondo, e dell’essere nel mondo. C’è bisogno di una creatività che integra e fa interagire le diversità. In fondo, la scienza ha proceduto sempre in questo modo. Tutti gli altri contesti devono riprendere e sviluppare i processi adottati dalla scienza. Forse è questa la sola strada possibile per un altro progresso, per un nuovo progresso. Forse è una creatività condivisa e collettiva che può garantitire sviluppo.

Allora, forse è necessario anche rivedere i concetti di creatività, ricostituendo le loro stratificazioni semantiche, anche rinunciando a certe fascinose figurazioni romantiche. Forse è necessario anche riconsiderare le stesse definizioni di creatività, non per cancellarle, ma per riscriverle adeguandole ai tempi e alla temperie culturale. Forse diventa necessario, o quantomeno opportuno, intervenire anche sulle definizioni di pensiero divergente e convergente. Non si può neanche escludere che, se si assume una certa prospettiva, non si possa associare al termine creatività la definizione di pensiero convergente: nel senso di un pensiero collettivo che converge in un punto dal quale si sviluppa una conoscenza nuova.   

Ancora: probabilmente risulta necessario anche riconfigurare il profilo della persona creativa fino ad arrivare al punto di considerare che non esiste qualcuno che non lo sia o che non abbia le possibilità per diventarlo, che non abbia le condizioni per maturare un pensiero creativo: forse la sola condizione indispensabile è che abbia qualcuno vicino, che gli faccia capire che si può vedere oltre, pensare diversamente e soprattutto che è indispensabile pensare insieme: non con lo stesso pensiero, ma con pensieri diversi che ad un punto si incontrano e producono un pensiero che ne costituisce la sintesi. Pensare insieme: soprattutto quando le situazioni e i problemi sono complessi. Questo è il tempo delle complessità, per definizione. Per cui non si può fare a meno di pensare insieme le possibili soluzioni ai problemi. Forse non esiste più un problema che qualcuno possa risolvere da solo, ad esclusione di quei problemi che sono personalissimi e interiori.

Non si può neppure fare a meno di pensare insieme quelli che sono i criteri, i metodi e gli strumenti di sviluppo e di progresso. Innanzitutto perché non si può prescindere dall’individuare collettivamente gli orizzonti di senso, i modelli da adottare, le direzioni da seguire nei processi di realizzazione delle condizioni di sviluppo e di progresso. Pensare insieme significa determinare gli equilibri, conciliare  interessi, integrare  culture, agevolare prossimità, valorizzare le differenze, ridurre le disuguaglianze, tessere  reciprocità,  costruire  consapevolezze. 

Poi nessuno esclude, nessuno potrà escludere mai, quella condizione della creatività che coincide con il genio, che richiede, che pretende, una solitudine assoluta, un ritrarsi dal mondo, perché solo nella solitudine assoluta si può compiere l’opera, elaborare la formula perfetta. 

Ma questo è un discorso completamente diverso.

La meraviglia è solo memoria

Molte esperienze cominciano con una meraviglia, con uno stupore. Molta conoscenza comincia con la stessa meraviglia, lo stesso stupore.  Si incontra qualcosa che non si era mai incontrato prima e si avverte un senso di meraviglia che suscita il desiderio di conoscere la cosa. Poi le esperienze si concludono e qualche volta si avverte meraviglia della loro conclusione. Anche i processi della  conoscenza qualche volta si fermano per uno stupore: perché sembra che basti quello che si è conosciuto, che basti quello stupore che ritorna o che perdura. Si comprende che quella conoscenza è compiuta.

Però, in questo tempo, e ormai da tempo, si ha l’impressione che non ci si meravigli più di niente, oppure che la meraviglia che di tanto in tanto ci sorprende sia una fiamma tremolante che si spegne presto. Non ci meravigliano le storie che accadono intorno, né quelle che arrivano da lontano, non ci meraviglia la tragedia o la commedia del mondo, quasi che avessimo conosciuto già tutto, che avessimo fatto ogni esperienza, che avessimo già fatto ogni scoperta e provato tutte le emozioni, tutti i sentimenti. Nemmeno ci meraviglia la bellezza, quasi che avessimo conosciuto ogni bellezza possibile e che una bellezza ulteriore risulti impossibile oppure copia di quella conosciuta. Probabilmente sono molte le cause di questa condizione. Una di queste, forse tra le prevalenti, consiste nella circostanza di essersi abituati ad avere a disposizione, rapidamente, ogni informazione. Per cui non abbiamo il tempo per lo stupore. Non abbiamo la necessità dell’attesa. Tra il confronto con qualcosa di nuovo e la conoscenza del qualcosa, non si apre lo spazio dell’incertezza, quello in cui si sviluppa l’interrogativo e si cerca di razionalizzare lo stupore, dando inizio ad una ricerca della risposta.

Quella risposta che vogliamo è già pronta nella Rete. Almeno questa è l’impressione. Perché poi bisogna vedere se è proprio quella la risposta, se il significato è quello che ci serve, se quella informazione acquisita rapidamente si trasforma in conoscenza duratura.

Perché poi bisogna verificare se quella conoscenza abbia una relazione, sia compatibile con la nostra esistenza.    

Forse la condizione fondamentale, essenziale, è proprio questa: la relazione tra esistenza e conoscenza. Senza una relazione strutturale tra le due dimensioni, ogni conoscenza è inevitabilmente fragile, incerta, smottante. Non si elabora, non si fa memoria, non trasforma le nostre visioni del mondo, il nostro pensiero, i nostri comportamenti. Se fra esistenza e conoscenza non c’è integrazione, interazione, compenetrazione, l’una e l’altra restano distanti e separate, inevitabilmente.

Così viene da domandarsi quale senso possa avere una conoscenza che rimanga separata dall’esistenza. Quali significati possa produrre se non quelli di sterile nozione, percorso che non lascia alcuna traccia, incontro episodico e casuale, evento senza storia, maglia sfilacciata nel tessuto della memoria.

Non c’è stato il bisogno o il desiderio di oltrepassare la superficie della conoscenza, di approfondire. Forse perché non c’è stata meraviglia. La tecnologia ha determinato un’abitudine anche all’effetto speciale. Sappiamo che quell’effetto si può verificare e quindi ce lo aspettiamo, per cui quando accade non ci sorprende, non ci meraviglia. Sappiamo già tutto o così almeno ci sembra. Non c’è nessun giudizio da dare. In questo tempo, e da tempo, è così: diversamente da com’era in un altro tempo e da come sarà nel tempo a venire. Non c’è nessun  giudizio da dare. Si può soltanto constatare che la meraviglia è scomparsa. E’ una condizione culturale con la quale ci si deve necessariamente confrontare e fare i conti. Forse nei confronti della conoscenza essenziale siamo diventati soltanto spettatori, talvolta anche un po’ distratti. Le immagini, i testi, i fenomeni, i fatti, le storie da cui siamo circondati non ci richiamano, non ci affascinano, non ci turbano, non ci entusiasmano,  non ci coinvolgono. Ne prevediamo l’accadimento, per cui quando avvengono non provocano nessuna meraviglia.

Abbiamo perduto la meraviglia e non c’è nulla da fare. Però si potrebbe anche  ipotizzare che stia maturando o sia maturata una meraviglia nuova dalla quale chi appartiene ad un’età diversa dall’infanzia resta inevitabilmente escluso e non può fare altro che sentire la nostalgia della meraviglia che ha provato e lo ha portato a cercare di realizzare una conoscenza. Forse chi ha un’età diversa da quella dell’infanzia non può fare altro che sentire nostalgia per una meraviglia che lo ha sorpreso dalle righe di un romanzo, dall’immagine di una poesia, dalla luce di un Caravaggio, dai versi di una canzone che veniva da un jukebox, dall’apparizione  di una grande città all’uscita dalla stazione, dalle parole e dai numeri che si componevano come per un incantesimo sui fogli di un quaderno in un mattino di scuola, e poi dalla pronuncia di una parola straniera appena imparata e poi di un’altra ancora.

Forse la meraviglia si può ritrovare tornando nelle stanze in penombra della memoria.

(Questo contributo riprende articoli apparsi in “Nuovo Quotidiano di Puglia”)

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