• giovedì , 21 Novembre 2024

Il sapere e l’illusione di sapere

di  Antonio  Errico

 

Noi eravamo al centro. Su una Terra piatta e immobile, però eravamo al centro. Tutto ci ruotava intorno: la Luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove, Saturno ci ruotavano intorno. Eravamo noi l’essenzialità dell’universo. Ci abbiamo creduto; per secoli e secoli ci abbiamo creduto. Probabilmente, fino ad un certo punto è stata la convinzione più profondamente radicata, quella che non sembrava potesse subire mai una qualche confutazione. La nostra centralità nell’universo era un sapere sul quale non si nutriva e non si poteva nutrire nessun dubbio, se non per dabbenaggine o per eresia. Rappresentava la certezza di una conoscenza che ci dava anche un senso di supremazia. Noi eravamo al centro. Eravamo l’assoluto.

La nostra centralità nell’universo rappresentava la certezza di una conoscenza che ci dava anche un senso di supremazia. Noi eravamo al centro. Eravamo l’assoluto

Poi venne Copernico e l’assoluto si disgregò, si immiserì nel relativo, quella convinzione inconfutabile fu confutata, il sapere indubitabile fu dubitato; perdemmo l’orgoglio smisurato di essere al centro, il centro. Poi venne Copernico e la Terra si trasformò in “un’invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come se ci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po’ più di caldo, ora un po’ più di freddo, e per farci morire – spesso con la coscienza d’aver commesso una sequela di piccole sciocchezze – dopo cinquanta o  sessanta giri”. Così dice Pirandello ne Il fu Mattia Pascal.

Copernico ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente, dice. “Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo”. Le nostre storie non sono altro che storie di vermucci, ormai.

Ci illudiamo di avere conoscenza di noi, delle cose intorno a noi, a volte abbiamo addirittura la presunzione di controllarle, di orientarle,  di poterle governare

Non c’è dubbio che  le cose dell’universo stessero nel modo in cui oggi stanno anche prima che Copernico lo capisse.  Ma l’uomo non lo sapeva, e lì, al centro dell’universo, ci faceva una gran bella figura.

Poi venne Copernico – maledetto sia Copernico!, dice Pirandello -e l’uomo dovette rinunciare alla sua bella figura, alla certezza, e all’illusione della sua certezza, del suo sapere.

Ogni giorno si rinuncia a una certezza, all’illusione di sapere qualcosa. Ci illudiamo di avere conoscenza di noi, delle cose intorno a noi, a volte abbiamo addirittura la presunzione di controllarle, di orientarle,  di poterle governare. Invece ad un certo punto si verifica un fenomeno che non avevamo previsto, che non potevamo prevedere. Forse è proprio questa la condizione che fa la differenza fra la certezza e l’illusione di conoscere  qualcosa: la possibilità di prevedere. Forse si può avere certezza del sapere soltanto se si è in grado di prevedere in che modo possa svilupparsi quello che si conosce. Certo, la scienza per molti aspetti consente questa possibilità. Ma non per tutte le cose, ancora, e nessuno può sapere se sarà mai in grado di farlo. Si dice che non esista ancora la possibilità di prevedere i terremoti, per esempio. Forse un giorno questo sarà possibile, si spera che sia possibile. Ma non ancora. Forse in ogni tempo esisterà la condizione del ‘non ancora’ che renderà incerto, continuamente smottante il sapere che riguarda l’umano e il sovrumano, ed esisterà sempre la ricerca, la tensione a modificare quella condizione.

Si dovrebbe imparare ad esporsi al rischio della rivelazione, più o meno graduale, più o meno improvvisa,  che il nostro sapere, in casi non rari,  non è altro che un’illusione di sapere

Questo insegna la scienza e la storia della scienza. Da questo si dovrebbe imparare molto: soprattutto si dovrebbe imparare a considerare estremamente precarie, provvisorie, friabili le conoscenze che abbiamo e ancora più precari i codici e gli strumenti con i quali esprimiamo e applichiamo le conoscenze. Si dovrebbe imparare ad esporsi al rischio della rivelazione, più o meno graduale, più o meno improvvisa,  che il nostro sapere, in casi non rari,  non è altro che un’illusione di sapere.

earth Si dovrebbe imparare. Invece spesso abbiamo l’arroganza di sapere, riteniamo che le nostre conoscenze siano essenziali, che quello che sappiamo non sarà mai messo in discussione. Pensiamo che le conoscenze che servono oggi serviranno certamente anche domani, anche fra venti, cento anni, che serviranno per sempre. Che la nostra etica, la nostra estetica, la nostra letteratura, la nostra scienza, le nostre leggi, le lingue che parliamo, le denominazioni e i significati che attribuiamo ai fatti e  alle cose, le  tecnologie che usiamo e che ci usano, le arti, le filosofie, le psicologie, le pedagogie che consideriamo nostre, le nostre storie e le nostre geografie, i valori in cui crediamo, o ai quali facciamo comunque riferimento, serviranno per sempre. Non ci si accorge, o si fa finta di non accorgersi, che le geografie mutano rapidamente, che le storie si sviluppano con trame e intrecci, in luoghi e con personaggi di cui non abbiamo esperienza, che le narrazioni si dipanano con processi, forme e linguaggi completamente nuovi, che certe filosofie e certe psicologie e certe pedagogie dichiarano implicitamente o esplicitamente la loro inadeguatezza alla temperie culturale, finanche alla dimensione esistenziale;  talvolta non siamo nemmeno disposti ad accettare che l’immaginario e le visioni che abbiamo, le nostre idee di passato-presente-futuro sono determinate, consapevolmente o inconsapevolmente, dalla relazione che abbiamo con la realtà; ci rifiutiamo di considerare che le nostre identità culturali costituiscono l’esito, continuamente cangiante, di un persistente rimaneggiamento, di una costante riprofilatura provocata dalle trasformazioni. Non ci si accorge o si fa finta di non accorgersi di tutto questo e di molto altro perché pensiamo ancora – ci fa comodo pensare ancora – che il nostro Paese, la nostra economia, le nostre culture, le nostre organizzazioni sociali, i nostri riti, i nostri miti,  le categorie entro le quali sistemiamo il mondo si ritrovano indiscutibilmente al centro, che è tutto il resto dell’universo a ruotare intorno a noi; la Terra non gira.

La sola cosa che conta è il nostro punto di vista, dunque. Quello che non rientra in esso non esiste oppure è falso. Così la Terra gira e gira. Ma noi non ce ne accorgiamo o comunque facciamo finta di non saperlo

Ma la Terra ha sempre girato, dice don Eligio Pellegrinotto nel romanzo di Pirandello.

Mattia Pascal risponde che non è vero.

“L’uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse. Per tanti, anche adesso non gira. L’ho detto l’altro giorno a un vecchio contadino, e sapete come m’ha risposto? Ch’era una buona scusa per gli ubriachi”.

La sola cosa che conta è il nostro punto di vista, dunque. Quello che non rientra in esso non esiste oppure è falso.

Così la Terra gira e gira. Ma noi non ce ne accorgiamo o comunque facciamo finta di non saperlo, per cui è sempre immobile e piatta, e noi ci facciamo sempre una bella figura al centro della grande piazza  il giorno della festa, con il vestito buono e la cravatta.

 

 

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