di Antonio Santoro
La scuola che apprende riesce a farsi strada nella nostra prassi? … la <scuola che apprende> e la nuova cultura che ne deriva vivono se vengono ulteriormente sviluppate e se la scintilla riuscirà a provocare un incendio.
(M. Schratz e U. Steiner-Löffler)
Quando i discorsi riguardano il che fare oggi per creare le condizioni di un futuro migliore, è del tutto comprensibile che attenzioni e riflessioni interessino anche la scuola e, in particolare, la sua azione formativa. Con accenti diversi si richiamano responsabilità, politiche e istituzionali, e si torna a sottolineare la necessità della realizzazione di <una scuola che funzioni> (Corrado Paracone e Aldo A. Mola), di <una scuola di qualità> (Italo Fiorin), di <una scuola dell’inclusione> (Giuseppe Bertagna), di <una scuola bene di tutti> (Lorenzo Caselli), cioè di una scuola ovunque impegnata a <creare reali opportunità di riuscita a tutti> e quindi a garantire <giustizia in educazione> (Milena Santerini).
Necessità, si aggiunge poi da qualche tempo, che con tutta evidenza “indica la strada che porta <dalla scuola che insegna> verso la <scuola che apprende>, cioè verso realtà istituzionali in grado di intraprendere significativi processi di sviluppo (1). “Parlare di <scuola che apprende> – precisava a sua volta Cesare Scurati nella Prefazione all’edizione italiana del volume appena citato (v. nota 1) – vuol dire proporsi e proporre un’immagine della scuola stessa aperta ad una molteplicità continua di processi ed esercizi formativi (…) mirati a consentire una sempre più adeguata risposta alle urgenze di comprensione, di competenza e di produzione realizzativa che inevitabilmente la toccano”(2): una risposta di educazione e di istruzione certamente possibile, però a condizione che nella singola istituzione scolastica vi siano spazi per puntuali espressioni di “un elevato e diffuso grado di responsabilità collettiva”, e che quindi si dispieghi l’impegno costante di “superare la struttura a legame lasco (che Karl Weick illustra in sede di analisi delle organizzazioni scolastiche – ndr) per pervenire ad una connotata dal legame stretto, caratterizzata dalla prestazione responsabile e affidabile di tutti gli attori” (3).
Non è – la precisazione sembra quanto mai opportuna – una prospettiva di facile realizzazione: perché il superamento innanzi accennato comporta “un sostanziale mutamento nella cultura organizzativa delle scuole, in primo luogo quella legata alla tradizione burocratica, ai confini disciplinari e all’autonomia individuale”, e perché concretamente “richiede che ciascuno collabori con gli altri, e ciò significa anche che ciascuno deve rinunciare a rilevanti margini della propria autonomia individuale, in favore di una cultura della cooperazione in vista della realizzazione degli obiettivi dell’istituto. Questo passaggio permette anche lo sviluppo di quella che viene chiamata learning organization […]. Ciascun insegnante, collaborando con gli altri nella prospettiva di creare un progetto educativo di istituto, mette a disposizione le esperienze, le idee, i problemi propri e li confronta con quelli degli altri. In altri termini, si attiva un processo di socializzazione della conoscenza che è alla base dell’apprendimento organizzativo, con cui l’organizzazione è in grado di evolvere e cambiare per far fronte alle nuove domande emergenti dal contesto in cui è inserita” (4).
Dalle riflessioni sul cambiamento auspicato è certamente possibile enucleare specifiche indicazioni – che di seguito si riprendono nei loro tratti essenziali – per orientare il cammino verso la <scuola che apprende> e per la definizione di “una griglia di criteri con cui […] valutare facilmente lo stato di una scuola rispetto alla sua capacità e volontà di apprendimento” (5).
1. Il cambiamento deve riguardare soprattutto i comportamenti, per raggiungere effettivamente l’insegnamento e influenzarlo in modo efficace (6).
2. “La scuola <deve aprirsi totalmente alla società e ai suoi problemi e garantire nel contempo una protezione di fronte alle pressioni della società per poter affrontare questi problemi>” (7).
3. L’ethos della scuola deve esprimere l’adesione a “quei principi morali che vengono considerati ovvi e vincolanti dai docenti nel loro operare pedagogico”, il quale non può mai prescindere dal considerare favorevolmente il principio dell’accettazione degli alunni “a pieno titolo come partner (nel dialogo) all’interno e all’esterno delle lezioni. Questo principio è superiore ai contenuti da trasmettere nell’attività didattica poiché costituisce il riferimento pedagogico della situazione di insegnamento/apprendimento” (8).
4. “Nella <scuola che apprende> la capacità di attingere dal proprio potenziale di sviluppo è tanto maggiore quanto più consapevolmente si passa dal campo dei problemi al campo delle soluzioni” (9). Passaggio che richiede disponibilità a “trovare insieme soluzioni da adottare nelle evenienze future” e, ai fini dello sviluppo della realtà scolastica, utilizzo e dunque valorizzazione dei punti di forza istituzionali “per cercare nuove soluzioni”.
5. Nella unità scolastica che apprende la comunicazione e i comportamenti del dirigente promuovono e favoriscono la crescita dell’autostima dei docenti, con effetti positivi anche sull’autostima degli alunni (10).
6. “La qualità della <scuola che apprende> dipende dalla qualità della collaborazione dei propri membri e questa dipende, a sua volta, dalla qualità dei processi di comunicazione al loro interno” (11).
7. La <scuola che apprende> si caratterizza come organizzazione soggettivamente complessa che privilegia le relazioni tra le sue componenti e come sistema aperto che interagisce con l’ambiente esterno per costruire risposte in grado di soddisfare le domande sociali e individuali di formazione.
Le indicazioni/caratteristiche innanzi elencate costituiscono, tutte, principi e segnali di qualità, i quali – tornerebbe probabilmente a scrivere Cesare Scurati – servono “a richiamare che, quando si fa scuola, le relazioni e le comunicazioni hanno la stessa importanza dei contenuti e non sono un sovrappiù, un ornamento, un ricciolo, una ridondanza che si può mettere come un soprammobile di cui si può anche fare a meno. Sotto un primo profilo, emerge allora l’idea che la scuola è un luogo di significatività relazionale non soltanto per gli alunni, ma anche per gli insegnanti, per cui va tenuta presente la qualità dello stare a scuola in quanto forma dell’educazione permanente […]. Da un altro punto di vista, si profila l’importanza di riflettere maggiormente sulla scuola come comunità giovanile, come <mondo di pari>, nel quale va riportata alla luce la bellezza di una convivenza di reciprocità formativa.
Anche nella scuola, allora, ci deve essere posto per l’incanto dell’incontro, dell’amicizia, dell’aiuto, della collaborazione, della convivenza, del ritrovarsi nella medesima avventura, dell’accoglienza, della vicinanza” (12).
Note:
1. cfr. Michael Schratz / Ulrike Steiner-Löffler, La scuola che apprende, Ed. La Scuola, Brescia 2001, p. 23;
2. ivi, p. 9;
3. Lorenzo Fischer, Sociologia della scuola, il Mulino, Bologna 2003, p. 253;
4. ibid.;
5. Michael Schratz / Ulrike Steiner-Löffler, La scuola che apprende, cit., p. 42;
6. cfr. ivi, p. 43;
7. ivi, p. 60;
8. ivi, p. 61;
9. ivi, p. 65;
10. cfr. ivi, p. 81;
11. ivi, p. 86;
12. C. Scurati (a cura di), Qualità allo specchio, Ed. La Scuola, Brescia 1998, pp. 13-14.