• martedì , 16 Luglio 2024

I furbetti del cartellino

di Francesco G. Nuzzaci

1.Dopo l’intervento interlocutorio – perché basato unicamente su frammentarie notizie di stampa – nel numero di dicembre u.s. (cfr. Sanzioni disciplinari: ritorno alle origini?), disponiamo ora di uno schema di decreto legislativo approntato dal Governo, recante modifiche all’articolo 55-quater del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi dell’articolo 1, comma 17, lettera s), della legge 7 agosto 2015, n. 124, sul licenziamento disciplinare.
Trattasi di un’anticipazione della più ampia delega di riordino dell’intera disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, includente l’apparato sanzionatorio già normato dal D. Lgs. 150/09 e confluito negli artt. 55, 55-bis, 55-ter, 55-quater, 55-quinquies, 55-sexies del citato decreto legislativo 165/01: che vengono tutti fatti salvi.
E’ un testo snello, composto di due articoli, il secondo dei quali contiene la sola clausola di invarianza finanziaria, nel senso che dalla sua attuazione non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Al momento, è oggetto di audizioni delle associazioni sindacali e dei diversi soggetti istituzionali. Dopodiché occorrerà acquisire i pareri del Consiglio di Stato, della Conferenza unificata Stato-Regioni-Autonomie locali e delle competenti Commissioni parlamentari. Poi, all’incirca tra un paio di mesi, ci sarà la definitiva deliberazione del Consiglio dei ministri e pubblicazione in gazzetta ufficiale.
2. E’ un testo snello – dicevamo – che, tramite interpolazioni nel sopramenzionato articolo 55-quater, rivisita la fattispecie del licenziamento disciplinare per la falsa attestazione della presenza in servizio mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, aggiungendo il sintagma anche avvalendosi di terzi per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente presta servizio circa il rispetto dell’orario di lavoro dello stesso; in più chiamandosi a risponderne chi abbia agevolato, con propri comportamenti sia attivi che omissivi, la condotta fraudolenta.
2.1. E’ poi imposta l’immediata sospensione cautelare senza stipendio del dipendente e senza obbligo di preventiva audizione in caso di falsa attestazione della propria presenza al lavoro, sia per accertata flagranza che per alterazione o manomissione dei relativi strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi.
La sospensione è di competenza del responsabile della struttura – che, quindi, non necessariamente deve rivestire una qualifica dirigenziale: come nelle istituzioni scolastiche ancora rette dai residuali c.d. presidi incaricati – in cui il dipendente (non)lavora, o dal competente Ufficio per il procedimento disciplinare, se per primo sia venuto a conoscenza della fattispecie verificatasi. In entrambi i casi, il termine per provvedere è di quarantott’ ore dalla conoscenza del fatto.
2.2. Materializzatasi la fattispecie di cui si discorre, il responsabile della struttura (id est, nel nostro caso, il dirigente scolastico), contestualmente e unitamente al provvedimento sospensivo cautelare, deve limitarsi a rimettere gli atti all’Ufficio per i procedimenti disciplinari, senza contestare alcunché al proprio dipendente fedifrago, perché la sanzione edittale eccede la sua competenza, che prevede ancora, come misura massima, la sospensione dal servizio e dallo stipendio per non oltre dieci giorni.

2.3. Da questo punto in poi la scena è interamente occupata dall’Ufficio per i procedimenti disciplinari. Da quando ha ricevuto gli atti o ha avuto conoscenza del fatto, esso dovrà, non oltre quindici giorni, inviare denuncia al pubblico ministero (deputato ad esercitare l’autonoma azione penale) e segnalazione alla competente procura regionale della Corte dei conti (per l’avvio dell’azione di responsabilità o risarcitoria per il danno d’immagine, anche in relazione alla rilevanza del fatto per i mezzi di informazione). E, sempre da quando si sono ricevuti gli atti o si è avuta conoscenza del fatto, la conclusione dell’intero procedimento dovrà avvenire in non più di trenta giorni: con la comminazione della sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso, se il fatto si riterrà accertato, oppure con l’archiviazione.
3. Fin qui i contenuti dello schema di decreto poc’anzi compendiato, scritto con inopportuna fretta, presumibilmente dovuta alla pressione mediatica che avrà ostacolato una più meditata rilettura della normativa introdotta dal D. Lgs. 150/09, c.d. Riforma Brunetta.
Certo è che, se dovesse tradursi, senza modifiche, nel testo normativo finale, sarebbe giustificato più di un dubbio in ordine sia alla sua efficacia che alla sua conformità ai principi sanciti in Costituzione.
3.1. A non persuadere è, innanzitutto, il perentorio termine dei trenta giorni per concludere il procedimento disciplinare, incongruo e controproducente, se non fosse già inutile.
E’ incongruo perché una consimile, oggettiva, compressione dei tempi non consente all’incolpato di attrezzare compiutamente il suo legittimo diritto di difesa per contrastare una sanzione espulsiva.
E’ controproducente perché – non modificandosi i termini figuranti nella generale disciplina di cui ai commi 2 e 4 dell’art. 55- bis del D. Lgs. 165/01 per controdedurre (venti giorni dalla notifica di contestazione degli addebiti) – è di facile evenienza il rischio della decadenza dell’azione disciplinare, con impossibilità di riproporla (ne bis in idem).
Ed è inutile, in quanto non imposto da reali esigenze di sistema, perché l’obbligata sospensione cautelare ha già assicurato l’allontanamento dall’ufficio/luogo di lavoro del soggetto inciso, con privazione della retribuzione, sino all’esito del procedimento disciplinare: che pertanto può ben concludersi entro gli attuali centoventi giorni. Senza che i mass media gridino allo scandalo.
3.2. Quanto alla predetta sospensione cautelare, sono possibili almeno due obiezioni.
La prima, lieve, concerne lo stretto lasso temporale – quarant’otto ore – entro cui obbligatoriamente adottarla. Esso è ragionevole, purché si specifichi che la richiesta motivazione dev’essere succinta e riferita al mero accadimento fattuale, non implicando l’esercizio di qualsivoglia discrezionalità.
La seconda è più seria. Atteso che la sospensione obbligatoria disposta oltre i termini non determina né l’inefficacia della medesima né la decadenza della conseguente azione disciplinare, è bensì legittimo chiamare a rispondere del ritardo il dirigente della struttura, ma appare spropositata l’irrogazione, nei suoi confronti, della sanzione disciplinare, secca, del licenziamento, senza nessuna previa valutazione né delle circostanze oggettive né della personalità del soggetto, con in più l’obbligo di denuncia alla Procura della repubblica per omissione di atti d’ufficio, anche nel caso in cui – colpevolmente – il predetto soggetto abbia fatto trascorrere soltanto tre giorni o poco più. Necessita perciò una più attenta formulazione della fattispecie onde emendarla dagli evidenti profili di irragionevolezza, che sicuramente sarebbero sottoposti al vaglio della Corte costituzionale.
3.3. Mantenuto il termine generale di centoventi giorni anche per i furbetti del cartellino, restiamo nel convincimento che, in sede di stesura finale del decreto legislativo, si può e si deve prevedere che tutte le sanzioni disciplinari siano irrogate dal dirigente della struttura in cui il dipendente presta servizio, sia quelle qualificate meno gravi (sospensione sino a dieci giorni) che quelle gravi (dalla sospensione per più di dieci giorni al licenziamento), confermandosi gli attuali differenziati termini infraprocedimentali. Di conseguenza, andrebbero abrogati gli uffici competenti per i procedimenti disciplinari.
Le statistiche testimoniano che l’obiettivo di colpire i dipendenti infedeli non si consegue mantenendo l’inerente potere disciplinare in capo a soggetti lontani/estranei dai/ai luoghi in cui in concreto si verificano i deprecati misfatti. Soggetti lontani ed estranei che, nel parametrare obbligatoriamente la sanzione sulla scorta di una molteplicità di elementi soggettivi e oggettivi riferibili all’incolpato, hanno davanti essenzialmente solo carte e perciò, in buona sostanza, decidono de relato: con l’inevitabile cautela, può dirsi, eccessiva e non minore di quella che si vorrebbe imputare al dirigente, che – per contro – meglio conosce la persona e il contesto in cui è stata consumata l’infrazione; dirigente che, a tacer d’altro, sarebbe sicuramente rinforzato nelle sua autorevolezza, idonea a dispiegare effetti dissuasivi nei confronti di coloro che siano inclini a deviare dalle linee di corretti comportamenti.
3.4. Sarebbe facile però controbattere che i dirigenti potrebbero essere restii ad adottare decisioni così pesanti e sicuramente suscettibili di innescare un contenzioso che, in caso di soccombenza, li esporrebbe a conseguenze risarcitorie di non poco conto, ovvero a denunce penali.
Può esser vero. Ma non è men vero che, sotto il profilo civilistico-risarcitorio, l’annullamento della sanzione da parte del giudice del lavoro adito è pronunciato nei confronti dell’Amministrazione, che – sulla scorta di una consolidata giurisprudenza – deve surrogarsi al dirigente se comunque chiamato personalmente in causa: beninteso, se non ci sia stata la cesura del rapporto di immedesimazione organica per avere egli palesemente agito per esclusivi fini personali o egoistici o per ripicca. Ed occorre ricordare che l’ art. 55-sexies, citato, al comma 4, replicando quanto sancito dall’art. 1 della legge 20/94 (in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti), statuisce de plano che La responsabilità civile eventualmente configurabile a carico del dirigente in relazione ai profili di illiceità nelle determinazioni concernenti lo svolgimento del procedimento disciplinare è limitata, in conformità ai principi generali, ai casi di dolo o colpa grave.
Circa l’eventuale denuncia penale, la questione è un po’ più articolata.
Si deve innanzitutto evidenziare che l’articolo 28 della Costituzione impone pur sempre all’Amministrazione la responsabilità solidale per i reati commessi dal proprio dipendente, nel caso di specie il dirigente scolastico, sia pure limitatamente alle conseguenze risarcitorie e salva l’azione di rivalsa in esito a sua condanna definitiva.
Certo, resta il fatto che il dirigente – chiamato a rispondere, poniamo, per abuso d’ufficio o per mobbing – dovrà comunque e per intanto difendersi.
Se l’Amministrazione non può surrogarlo nella predetta difesa, stante il principio che la responsabilità penale è personale (art. 27, comma 1, della nostra Carta fondamentale), si potrebbe introdurre ex lege una disposizione che le prescriva di farsi carico delle spese di giudizio, restando sempre impregiudicata la propria azione di rivalsa nel caso in cui ne ricorrano i presupposti (condanna penale definitiva che abbia accertato il dolo del dirigente). Nel frattempo e fino a quando non intervenga il Legislatore, può provvedere lo stesso interessato, stipulando una personale polizza assicurativa di tutela legale – che poi non è così onerosa – che lo tenga indenne dai costi sopportati per difendersi qualora evocato in giudizio in sede civile, amministrativa e penale.
Tutto ciò dovrebbe bastare a rendere risoluti i dirigenti inerti o troppo timorosi, altrimenti soggetti al fondatissimo rischio di essere incisi da costi comparativamente spropositati.

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