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Gennaio 2015

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Benessere vuol dire lavoro
L’editoriale di Antonio Errico

Il lavoro porta onore. Ogni lavoro. Per cui porta onore che il laureato in ingegneria faccia il netturbino, quello in scienze politiche la guida turistica, che il laureato in informatica faccia il posteggiatore, quello in architettura il muratore, quello in filosofia il vigilante, che il laureato in giurisprudenza faccia il portinaio, e quello in medicina l’aiuto infermiere, quello in veterinaria l’acconciatore per cani, che il laureato in sociologia faccia il bidello, quello in lettere il custode di un museo, che il laureato in economia faccia l’ambulante. Questi sono i fortunati. Poi ci sono quegli altri, i meno fortunati. Lavori a scadenza. Lavori un giorno sì e domani non si sa, come i giornalieri di una volta, che la sera aspettavano in piazza il fattore per sapere se il giorno dopo dovevano andare a lavorare nella terra del padrone. Poi ci sono i maratoneti dei call center. Ogni lavoro porta onore a chi lo fa. Ma non ha onore un Paese che non mette a frutto conoscenze e competenze, che dissipa le energie, che deprime le intelligenze, che non consente a se stesso uno sviluppo attraverso il pensiero nuovo, che non riesce a rinnovarsi culturalmente attraverso l’integrazione dell’ esperienza e dell’entusiasmo che compensa ogni inesperienza. Si parla e si riparla di un turnover che non si realizza mai, per cui l’accesso dei giovani al mondo del lavoro rimane bloccato.
Eppure un Paese ha bisogno di una cultura nuova, di un nuovo pensiero, come del pane e dell’acqua. La cultura nuova, il pensiero nuovo producono significati nuovi nei contesti della formazione, dell’istruzione, del lavoro, delle relazioni sociali, degli stili di vita, nella politica e nelle istituzioni, nella ricerca e nell’economia, nella qualità dei servizi, nelle scelte che riguardano il patrimonio culturale, in quelle che interessano l’ambiente, nel modo di essere e di fare. In tutto quello che serve a stabilire un’armonia fra la vita di un Paese e il tempo storico che quel Paese vive.
Forse poco o niente di questo si può fare se non si creano le condizioni perché ciascuno possa mettere a disposizione quello che ha studiato, che ha imparato.
In fondo si studia per essere utili agli altri più che a se stessi. Allora un Paese deve coordinare le conoscenze, indirizzarle tanto verso i settori che più ne hanno necessità, in modo da poter ridurre la necessità, quanto verso i settori che non ne hanno, in modo da poterli sviluppare.
In questo Paese ci sono molti settori che devono ridurre lo svantaggio e qualche settore che può potenziare la qualità. Ma né una cosa né l’altra si possono realizzare senza un’adeguata valorizzazione di quelle che si chiamano risorse umane, che poi significa semplicemente persone. Alle persone, quindi, si deve dare la possibilità di esprimersi nelle situazioni per le quali hanno acquisito più forti e specifiche capacità, quelle in cui possono essere veramente risorse umane.
Invece noi perdiamo le risorse migliori. Scrive Giovanni Solimine nel suo saggio che s’intitola Senza sapere. Il costo dell’ignoranza in Italia (Laterza, 2014) che i giovani dottori che abbandonano l’Italia sono più che raddoppiati nell’arco di un decennio. Nel 2002 erano l’11,9%; nel 2011 il 27,6%. La mobilità è quasi a senso unico: “i ricercatori italiani che vanno all’estero sono quasi quattro volte di più degli stranieri che vengono in Italia”. Per cui, l’Italia si priva di queste risorse e un altro Paese se ne avvantaggia. Se volessimo ragionare in termini di competizione, si potrebbe dire che perdiamo due volte. Anzi, che perdiamo innumerevoli volte.
Se si continua a mantenere questo passo, non si va molto lontano. Forse non si va da nessuna parte. Oppure si va rapidamente indietro.
Se porta onore senza dubbio che il laureato in economia faccia l’ambulante anziché niente, non si può comunque negare che potrebbe offrire un contributo più qualificato in un ambito del lavoro che richiede la sua formazione in economia.
La relazione fra competenza personale e contesto di lavoro è la condizione che consente lo sviluppo di una comunità e, di conseguenza, il suo benessere.
Il concetto di benessere, si sa, è sempre relativo alle situazioni storiche, culturali, economiche.
Cinquant’anni fa si pensava ad un benessere individuale e collettivo in modo diverso da come oggi lo si pensa. C’era un Paese che riprendeva fiato. Tutto quello che veniva era una grazia di Dio. Ma tornare indietro provoca dolore: è doloroso accettare la decrescita dopo la crescita, dover rinunciare alla “società del benessere” o comunque accettare realisticamente di ridefinirla. Ma quello sviluppo, quella crescita, quella società del benessere sono stati creati dalle generazioni figlie dei contadini, degli emigranti, degli impiegati, degli operai, dei braccianti: generazioni che hanno studiato ed alle quali è stato permesso di mettere al servizio del Paese quello che avevano imparato. Se il sistema ha funzionato, è quello stesso sistema che occorre riprendere, adeguato e potenziato. Invece, ora, chi ha studiato e sa e può fare e può dare una spinta forte alla ripresa si ritrova nella mortificazione di un precariato lungo, interminabile, nella marginalità della sottoccupazione, nell’angoscia della disoccupazione. Senza poter assolvere “il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Così dice, come si sa, l’art. 4 della Costituzione.

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