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Febbraio 2015

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Il dovere dell’inclusione
di Antonio Santoro

Leggevo – in questo periodo di iscrizioni alle scuole per il prossimo anno – le ultime riflessioni di Stefano Rodotà sulla solidarietà come un’utopia necessaria nella società globale di oggi, e ripetutamente il pensiero indugiava sulle responsabilità della scuola a proposito della prospettiva, doverosa, di inclusione degli alunni appartenenti a etnie e culture altre. Riaffioravano insomma alla mente le gravosità dei compiti attribuiti all’istituzione scolastica nell’ambito dei processi di accoglienza e di integrazione dei minori stranieri, che notoriamente tendono, come obiettivo finale, al traguardo di cittadinanza, al raggiungimento cioè di quella condizione con la quale “si vuole indicare – secondo le specifiche Linee guida ministeriali del febbraio 2014 – non solo lo status formale di cittadini, ma anche la capacità di sentirsi cittadini attivi, in grado di esercitare i diritti e di rispettare i doveri della società di cui si fa parte e di partecipare a pieno titolo al suo sviluppo”.
Le aspettative nei riguardi del contributo della scuola indicano la particolare rilevanza dei risultati formativi attesi, invero di problematica realizzazione soprattutto nei periodi di crisi economica, “in un tempo contrassegnato da una accentuata scarsità delle risorse finanziarie, (che) crea condizioni propizie per un ritorno a criteri violentemente identitari, alla nazionalità o addirittura all’etnicità della cittadinanza, con un rifiuto dell’altro che si tinge di razzismo e xenofobia, dando spazio all’argomento che sottolinea la necessità di riservare le risorse disponibili ai soli cittadini dello Stato” (1).

Appare, dunque, piuttosto impegnativo, e non solo in tempi di ristrettezze, il dovere di praticare la solidarietà in ambito scolastico senza esclusione alcuna, nella versione specifica del riconoscimento del diritto fondamentale all’istruzione e all’educazione. Penso, ad esempio, alle difficoltà dell’insegnamento dell’italiano come lingua seconda in una classe frequentata da alunni “diversi” per provenienza e appartenenza. Compito non facile, evidentemente, ma essenziale perché “L’apprendimento della nuova lingua costituisce per gli immigrati l’indispensabile risorsa per poter far fronte con successo a molteplici esigenze e aspirazioni”; perché “Con l’acquisizione della lingua del Paese ospitante (si apre) all’individuo […] la possibilità di manifestare in modo compiutamente e consapevolmente elaborato i propri bisogni, le aspettative, le speranze”; e perché infine “La condivisione della lingua permette al volto dell’altro di acquistare tratti più familiari, attenua i pregiudizi e la reciproca diffidenza grazie alla scoperta di un comune spazio simbolico e di un’identica ricerca di significato e di senso” (2).
E, più in generale, penso alla necessità di sviluppare nell’istituzione-scuola “un’accurata riflessione educativa capace di sostanziare l’intervento volto a favorire una convivenza effettivamente fondata sui valori del rispetto, dell’accoglienza, della solidarietà”, e quindi di orientare sempre più l’agire didattico e organizzativo entro la speranza del possibile “passaggio dalla realtà multiculturale, caratterizzata dalla presenza simultanea di più culture su un medesimo territorio, tra le quali non necessariamente si stabiliscono contatti e scambi profondi e vivificanti, alla società interculturale, che prevede la costruzione di un dialogo e di un confronto produttivi e generativi tra coloro che appartengono alle varie culture” (3).
Sì, un passaggio possibile, ma solo a condizione che impegni professionali consapevoli sappiano davvero creare le condizioni per il suo verificarsi: a condizione cioè che la realtà formativa, nelle sue diverse espressioni, si senta e si mostri “sempre più coinvolta nel problema dell’inserimento scolastico e sociale di alunni provenienti da tradizioni e stili di vita anche molto lontani fra loro”, e che dunque la scuola tutta riesca a qualificarsi, non solo “in quanto istituzione deputata a svolgere una fondamentale azione educativa e preposta alla trasmissione del patrimonio culturale e del sapere formale alle nuove generazioni”, ma perché effettivamente sa costituire e rappresentare “anche un ambito privilegiato nel quale promuovere, diffondere e concretizzare gli obiettivi del superamento dei pregiudizi e degli stereotipi, dell’integrazione, del dialogo interculturale, della collaborazione tra soggetti diversi, dell’educazione aperta” (4).
Evidenzia opportunamente A. Perotti: <E’ la relazione che sta al cuore dell’interculturale ed è il sistema relazionale dei bambini e dei giovani che la pedagogia interculturale mette al centro. Il suo scopo non è quello di conoscere una cultura. Si può essere esperti di una cultura nutrendo una antipatia più o meno acuta verso gli individui e i gruppi che vi appartengono> (5). E chiosa, pure opportunamente, Milena Santerini: “I fenomeni di rigetto e di razzismo, il pregiudizio e la xenofobia mostrano d’altronde chiaramente come la conoscenza non sia sufficiente a sviluppare un atteggiamento di dialogo. Per accettare non basta conoscere: occorre sviluppare simpatia e partecipazione”. Solo così “L’educazione interculturale diviene […] un’attitudine alla relazione con l’altro nella sua complessità umana, culturale, storica e nella convinzione, come afferma R. Bastide, che non sono le culture ad entrare in contatto, ma gli uomini” (6).

Le prospettive di inclusione degli alunni stranieri e di educazione interculturale postulano, evidentemente, sui piani della didattica e della organizzazione, il ricorso a criteri, modalità e procedure in grado di valorizzare gli apporti originali delle diversità presenti, ma anche di favorire l’incontro, il dialogo, gli scambi produttivi: in breve, di generare un clima nel quale cooperazione e responsabilità trovino occasioni e stimoli per crescere e manifestarsi. Orizzonti che perciò ci sollecitano – per usare le parole di Paul Ricoeur – a non rinunciare mai, in campo educativo, alla “scommessa che il meglio di tutte le differenze converga” (7).
L’istanza per un’educazione aperta che perviene alla scuola esprime, fondamentalmente, la necessità di un impegno che promuova il riconoscimento pieno dell’altro e la collaborazione interculturale, ma indica al tempo stesso l’urgenza di non perdere di vista, e quindi di non trascurare, il più ampio tema dell’educazione alla pace in un tempo continuamente flagellato da fondamentalismi e settarismi vari.
Si tratta, a ben considerare, della richiesta di un orientamento formativo che “si fonda sull’effettiva fiducia nel potere dell’educazione di trasformare la società mentre ne preserva i principi costitutivi essenziali” (8); e che perciò ripropone alla scuola la prospettiva scuratiana di istituzione responsabilmente impegnata a qualificarsi, sempre, come esperienza “biograficamente costruttiva e socialmente innovativa”.

Note

(1) Stefano Rodotà, Solidarietà un’utopia necessaria, Laterza, Bari 2014, pp. 36-37;
(2) Caterina Foppa Pedretti, Società complessa, dialogo interculturale e educazione aperta, Orientamenti Pedagogici, n. 2/2013, p. 288;
(3) ivi, p. 285;
(4) ivi, p. 290;
(5) Antonio Perotti, L’éducation interculturelle: enjeux et stratégies, cit. da Milena Santerini, La scuola nella società multiculturale: orientamenti per l’Italia e L’Europa, in AA.VV., La scuola nella società multietnica, La Scuola, Brescia 1994, p. 64;
(6) M. Santerini, cit., pp. 64-65;
(7) cfr. Paul Ricoeur, La persona, Morcelliana, Brescia 2002;
(8) C. Foppa Pedretti, cit., p. 290.

 

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