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Editoriale novembre 2014

Una leadership per l’insegnamento

di Antonio Santoro

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La prospettiva – oggi al centro del dibattito pubblico – della realizzazione di una buona scuola e quella – più specifica, ma fondamentale – del rafforzamento del profilo professionale degli insegnanti, e quindi della valorizzazione della funzione docente, suggeriscono di non abbandonare la riflessione e il discorso sul ruolo e sui compiti del dirigente scolastico: soprattutto di ritornare sulla necessità dell’attivazione, in ambito educativo, di “una leadership centrata sugli insegnamenti in cui (si precisa con un esplicito riferimento alla lezione di Cesare Scurati) <il dirigente stesso appare come un agente di sviluppo formativo>” (1).

L’istanza che sembra opportuno riproporre è insomma quella di un impegno professionale che qualifichi la dirigenza scolastica in virtù della capacità “di articolare una visione di sviluppo della scuola” e della conseguente preoccupazione “di incrementarla, influenzando sul campo il lavoro degli insegnanti, attraverso attività di sorveglianza, coordinamento e valutazione delle pratiche professionali” (2). Per dirla in altro modo, si tratta della richiesta e dell’attesa di un’azione dirigenziale che concretamente e consapevolmente operi “per un rinnovamento profondo della grammatica della scuola che modifichi routine inefficaci e rivisiti le concezioni dell’insegnamento e dell’apprendimento che ispirano le pratiche d’aula” (3).

Aspettativa evidentemente radicata nella considerazione dell’attività del dirigente scolastico come possibile “variabile strategica” per il cambiamento, ma che comunque non arriva certo a individuare nel dirigente medesimo “il nuovo demiurgo cui affidare le sorti della scuola e la correzione delle storture esistenti […]. La rilevanza del dirigente va (infatti) vista all’interno della configurazione complessiva delle diverse fonti di leadership che toccano la scuola, soprattutto la comunità professionale dei docenti, le strutture amministrative e il sistema di policy marking. Occorre (perciò) una visione integrata di come sia possibile muovere una scuola e i suoi operatori […] verso obiettivi di eccellenza” (4).

Il convincimento della inadeguatezza della concezione individualistica della leadership e, quindi, della necessità di considerarla e valutarla, anche nella scuola, all’insegna del <noi> e non più dell’<io>, vale a dire come prerogativa collegiale e non di una sola persona, comporta inevitabilmente per il dirigente scolastico un impegno continuo nelle direzioni dello sviluppo di una cultura della collaborazione, dell’interiorizzazione del valore della collegialità e dunque  dell’affermarsi progressivo di una leadership distribuita: in sintesi, un orientamento di lavoro sostenuto ed alimentato dalla consapevolezza che nell’istituzione scolastica anche gli altri contribuiscono al processo di costruzione di una leadership efficace, con apporti che dipendono dalla mobilitazione e valorizzazione delle risorse umane disponibili, dalla qualità e produttività delle interazioni, dalla significatività dei livelli di condivisione delle attività. E’ infatti il lavorare insieme che porta alla nascita della vera leadership, la quale, secondo l’approccio trasformazionale della nuova psicologia, “Più precisamente […] deriva dalla capacità di trascendere il contratto sociale in forza del quale le persone fanno qualcosa perché pensano di averne l’obbligo. La leadership ha a che fare con quei sentimenti di ordine superiore che ispirano le persone a fare qualcosa perché lo vogliono, e perché pensano che ciò che fanno è giusto(5).

Sono, conseguentemente, del tutto comprensibili le ragioni che, oggi più di ieri, sollecitano la dirigenza scolastica a coinvolgere soprattutto gli insegnanti nei processi decisionali, a promuovere nella realtà istituzionale “le comunità di pratica in quanto ambito di interazione tra pari ma anche spazio di rappresentazione della leadership” (6), a favorire con modalità appropriate aperture al dialogo e all’innovazione. A fare quindi della scuola una realtà capace di utilizzare al meglio la diversità delle competenze ed esperienze professionali; infine, a caratterizzarla come organizzazione che apprende, cioè come organizzazione che “elabora e codifica (le) informazioni sia attraverso l’interazione con il contesto nel quale agisce, sia attraverso lo scambio tra i suoi membri”, e che dunque <processa> e <tratta> continuamente “sistemi di conoscenze e informazioni (che) riguardano sia i comportamenti professionali che le modalità attraverso le quali si raggiungono i risultati previsti dall’organizzazione stessa, rispetto alle richieste provenienti dall’ambiente in cui questa opera” (7).

E’ piuttosto agevole rilevare che si tratta della indicazione di piste di lavoro decisamente orientate a favorire, in maniera specifica, la crescita professionale degli insegnanti e a influenzare indirettamente, ma in termini significativi, i risultati di apprendimento degli alunni. Prospettive di azione peraltro possibili solo a condizione che i dirigenti scolastici sappiano progressivamente conquistare “una padronanza intelligente dei nodi e dei processi amministrativi in modo da non esserne schiavi” (8).

 

Note:

1) Alessandro Catelani e Mario Falanga, Professionalità formativa per dirigere, in AA.VV., Il dirigente scolastico leader per l’apprendimento. Ragioni, esperienze, prospettive, Dirigenti Scuola, Annuario 2013, p. 10;

2) Angelo Paletta, Leadership for learning: opportunità e vincoli allo sviluppo della dirigenza scolastica in Italia, in AA.VV., cit., p. 27;

3) Mario G. Dutto, Leadership per l’apprendimento: un progetto nelle scuole del Trentino, in AA.VV., cit., p. 182;

4) ivi, p. 193;

5) S.A. Haslam – S.D. Reicher – M.J. Platow, Psicologia del leader, il Mulino, Bologna 2013, p. 86;

6) Giuditta Alessandrini, Ripensare la leadership come leadership formativa, in AA.VV., cit., p. 65;

7) ivi, p. 59;

8) Mario G. Dutto, cit., p. 192.

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