La scuola siamo noi: ma noi come siamo?
di Rita Bortone
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Stamattina, affacciata su Facebook, non trovo solo i previsti commenti sui risultati elettorali. Trovo di nuovo alcune mie amicizie (persone di scuola) divise e rabbiose: tornano ad offendersi come tifoserie da stadio. Eppure sono persone che hanno condiviso percorsi e battaglie culturali, valori e principi: oggi quasi si odiano, si rimproverano l’un l’altra di non aver votato o di aver votato male, esultano perché il governo “ha avuto una stoppata” o si dolgono perché il governo “non ha avuto una stoppata abbastanza grave”, si fanno i dispetti “e adesso tenetevi il ddl!” oppure “ora vediamo se il ddl reggerà ancora!”, come se il problema fosse quello dell’aver vinto o perso la partita e del doverne trovare i colpevoli; si insultano come se essere a favore o contro la buona scuola rappresentasse il discrimine tra l’essere un autoritario o un democratico, tra il volere o non volere la scuola pubblica, tra il promuovere lo sviluppo del Paese o il suo definitivo tracollo. Una radicalità enfatica e priva di analisi, priva di misura.
Il Paese, lo sappiamo, non sta vivendo belle stagioni, e la scuola tanto meno. Né sappiamo cosa accadrà nell’immediato futuro, se e come la buona scuola sarà approvata in senato, se i principi di fondo saranno conservati o se saranno ulteriormente modificate le intenzionalità originarie del documento, se i sindacati intenderanno continuare la lotta e con quali strumenti. E non sappiamo neanche quanto durerà l’attuale governo né possiamo ipotizzare le forze che governeranno il Paese nel dopo Renzi, le loro posizioni in merito alla scuola, le loro culture.
Ma, tra tante cose che non sappiamo, ce ne sono alcune che a me sembra siano emerse con chiarezza dalla profondità e dall’asprezza dei recenti scontri, e che non c’entrano direttamente con questa buona scuola, ma che su ogni buona scuola incidono profondamente.
La prima è che dentro alla scuola ci sono anime e culture profondamente diverse, e che un’idea di scuola e di professionalità docente in realtà non è condivisa neanche dalla stessa categoria. E’ emersa non solo la distanza profonda (e legittima) tra le posizioni assunte relativamente alle scelte politiche del governo, ma anche la distanza profonda (meno legittima, a me sembra) tra le culture che hanno animato il dibattito, e che si sono manifestate attraverso le diverse modalità e i diversi strumenti con cui si è partecipato allo scontro.
Sulle pagine di giornali (di carta e on line) abbiamo visto insegnanti e associazioni di categoria utilizzare, a sostegno della propria posizione, argomenti inaccettabili anche al bar o allo stadio: battute denigratorie su persone che con l’oggetto dello scontro non c’entravano niente, diffusione di manifesti fascisti decontestualizzati e utilizzati per promuovere improprie analogie con le decisioni del governo, barzellette sessiste per segnalare i presunti rischi del maggior potere dirigenziale, insomma abbiamo visto molto livore, molta visceralità, a volte molta volgarità, in una categoria che dovrebbe esser portatrice di educazione alla cittadinanza e alla convivenza civile, di metodi scientifici nell’utilizzo di dati e documenti, di razionalità nell’argomentazione e nel dibattito, di rispetto della persona in ogni contesto e in ogni situazione.
Quando apparve il documento sulla buona scuola, questa rivista pubblicò un mio scritto dal titolo “Non c’è buona scuola senza professionalità docente”. Oggi aggiungerei senza professionalità e senza cultura del docente.
Sulle strategie valutative si può essere in disaccordo, sulle carriere ci si può scontrare, sulle modalità di formazione in servizio si può discutere, sulla distribuzione dei poteri si può mediare: ma se la scuola pubblica non viene dotata di insegnanti colti (oltre che competenti!), capaci di dare dignità alla propria immagine e di interpretare con coerenza un modello pedagogico, una buona scuola non l’avremo mai.
La seconda cosa che mi sembra sia emersa con chiarezza è che gli insegnanti non hanno una buona opinione dei dirigenti. Sappiamo che il dibattito sul ruolo dirigenziale e sui suoi poteri è vecchio di decenni, e che l’avversione ai maggiori poteri del dirigente, alimentata da politiche sindacali dai sapori talvolta corporativi, è legata a motivi di principio, a scelte ideologiche, a concezioni diverse della gestione dell’Istituzione scolastica. Ma è risultato evidente, nella battaglia sulla buona scuola, che anche insegnanti per nulla ostili ai principi della valutazione e del merito rifiutano d’esser chiamati, valutati, premiati, da dirigenti che non stimano e che non ritengono capaci di scelte competenti ed eque. Il discorso, come quello fatto poco fa sulla cultura e sui comportamenti degli insegnanti, non è ovviamente generalizzabile, ma segnala tuttavia un problema che a me sembra di notevole gravità ed un elemento di pesante criticità nella categoria dei dirigenti. Non è solo questione di chiamate dirette o di premi al merito: quale che sia il futuro del discusso ddl, e quale che sia il potere che al dirigente si vorrà attribuire, resta il fatto che la qualità della leadership esercitata dal dirigente e la credibilità dei suoi indirizzi e delle sue scelte di governo dell’Istituzione scolastica sono condizioni essenziali: ai fini della realizzazione di climi di lavoro motivati e cooperativi, di offerte formative di qualità, di politiche premianti efficaci ed eque, di ambienti di apprendimento produttivi, di corretti processi di implementazione delle professionalità. La riflessione sul tema non è di poco conto per il futuro della scuola.
Oggi da Fb arriva la notizia che l’annuale meeting dell’Andis ha affrontato a Camaldoli il complesso e problematico tema della leadership educativa, e un post di Giancarlo Cerini ci informa che il convegno delinea il profilo di un dirigente di elevato spessore culturale e pedagogico, capace di costruire motivazioni e relazioni collaborative, di guidare la comunità professionale verso il miglioramento, di affrontare anche questioni delicate come la valutazione/valorizzazione del merito, il profilo di un dirigente che per poter valutare dovrà egli stesso essere oggetto di valutazione.
Questa dunque è la seconda richiesta da rivolgere a chi governa il Paese: garanzia di dirigenti competenti e colti, rigorosamente soggetti a rendicontazione e valutazione. Se la scuola pubblica non viene dotata di dirigenti di alto profilo culturale e professionale, una buona scuola non l’avremo mai.
Infine è emersa una terza cosa: che il cambiamento nella scuola lo si può realizzare solo se si cambia insieme. Se gli insegnanti non si sentono coinvolti, partecipi, cogestori, codecisori, remano contro. Ma se gli insegnanti remano contro, se non aderiscono emotivamente, se non hanno fiducia e speranza, non c’è merito o incentivo che possa esser sufficiente, non c’è trasformazione che possa essere promossa, non c’è buona scuola che possa essere realizzata.
Questa è la terza richiesta da rivolgere a chi governa il Paese: ci piace che si decidano dei cambiamenti, ci piace che si cominci ad investire sulla scuola, ci piace che la scuola torni ad essere oggetto di attenzione da parte della politica e della società civile: ma forse una più profonda pratica dell’ascolto, una più serena e chiara esplicitazione delle intenzioni, una mediazione più saggiamente costruita possono evitare i conflitti e giovare al cambiamento desiderato.
Nella consapevolezza che il cambiamento oggi desiderato è solo un primo, insufficiente passo, rispetto ai cambiamenti da desiderare e da costruire.
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Immagine di copertina
Giulia Manco – V B
IISS “Pietro Colonna” – Galatina (LE)
Liceo Artistico – Indirizzo Audiovisivo e Multimediale