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Editoriale gennaio 2016

L’Italia ha bisogno del lavoro dei giovani

di Antonio Errico

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Nel suo discorso di fine anno, il Presidente della Repubblica ha detto che il lavoro manca ancora a troppi dei nostri giovani. Sono giovani che si sono preparati, ha detto Mattarella, hanno studiato, posseggono talenti e capacità e vorrebbero contribuire alla crescita del nostro Paese, ma non possono programmare il proprio futuro con la necessaria serenità.
Qualche giorno prima Papa Francesco aveva detto che il lavoro significa dignità, che non si può perdere di vista l’urgenza di riaffermare questa dignità, che ogni lavoratore ha diritto di vederla tutelata e che i giovani, in particolare, devono poter coltivare la fiducia che i loro sforzi, il loro entusiasmo, l’investimento delle loro energie e delle loro risorse non saranno inutili.
Sergio Mattarella e Papa Francesco hanno detto quello che qualsiasi cittadino pensa e dice ogni giorno: che c’è una gioventù alla quale si nega la possibilità di fare progetti, che deve navigare sottocosta perché paralizzata dall’incertezza, dal ristagno, dalla paura di quello che sarà e che verrà domani. Hanno espresso il disagio e la prospettiva; hanno individuato la relazione strutturale che c’è tra il lavoro, lo sviluppo della persona e lo sviluppo di questo Paese. Hanno detto che un Paese non può dissipare energie, ignorare o sottovalutare le competenze. Non ci può essere crescita, progresso, sviluppo se non attraverso un progetto fondato su visioni nuove, e le visioni nuove, le riformulazioni del sapere, i nuovi linguaggi, sono portate dai giovani. Una civiltà ha costante bisogno di innesti culturali, di uno sguardo che oltrepassi l’orizzonte conosciuto, di prospettive lunghe, di processi che integrano tradizione e innovazione, di nuove storie, di significati nuovi o rinnovati, di creatività in ogni contesto: in quelli della formazione, del lavoro, delle relazioni sociali, degli stili di vita, della politica, delle istituzioni, della ricerca, dell’economia, nella qualità dei servizi, nelle scelte che riguardano il patrimonio culturale, in quelle che interessano l’ambiente, nel modo di essere e di fare. In tutto quello che serve a stabilire un’armonia fra la vita di un Paese e il tempo storico che quel Paese vive.
Forse poco o niente di questo si può realizzare se non si creano le condizioni perché ciascuno possa mettere a disposizione quello che ha studiato, che ha imparato. La civiltà di un Paese non può fare a meno di conoscenze e competenze che siano in grado di garantire un passo adeguato a quello che portano i tempi che vengono.
L’alternativa è costituita dalla stagnazione, dalla crisi perenne, o comunque da una estenuante lentezza dei processi di sviluppo, da un perpetuarsi stanco e improduttivo di forme e modelli culturali, sociali, economici, che, ammesso (e non sempre concesso) che abbiano prodotto qualche risultato nel tempo passato, in quello presente si rivelano superati o comunque ripiegati sul contingente, finalizzati al temporaneo e tamponante confronto con le emergenze, assolutamente inutilizzabili nella dimensione di futuro. Ma poi, a parte ogni altra considerazione, la mancata valorizzazione dei giovani è una condizione che contrasta con qualsiasi fenomeno naturale, con qualsiasi logica sociale.




Si semina il grano oggi per poterne fare pane domani. Se questo Paese ha pensato – com’era sacrosanto – di seminare attraverso l’istruzione per tutti, attraverso la formazione universitaria e post universitaria, attraverso la specializzazione delle competenze, risulta quantomeno incoerente che poi non trovi le maniere per raccogliere quello che ha seminato. Se questo Paese ritiene che per la crescita sia fondamentale l’eccellenza della formazione, non può permettersi di perdere le intelligenze che sono costrette a cercare all’estero i luoghi e le occasioni per mettere a frutto quello che sanno e sanno fare. Ancora: non può permettersi l’umiliazione sociale della disoccupazione, della sottoccupazione, del precariato.
Si tratta di peccati che una società paga ogni giorno, a prezzo caro.
Lavoro, crescita della persona e crescita del Paese sono legati a stretto nodo: un Paese non si sviluppa se non si sviluppano le persone che lo abitano, e le persone non possono crescere senza un lavoro che glielo consenta.
Questa Italia ha molte urgenze. Forse non di meno e non di più di quelle che ha ogni altro Paese. Forse non di meno e non di più di quelle che ha avuto in altri tempi. L’urgenza del lavoro dei giovani è quella che da decenni prevale su ogni altra, perché da quella dipendono tutte o quasi tutte le altre. Allora si devono creare le condizioni che permettano di affrontare il problema in modo sistematico e costante, fino a sottrarlo alla categoria dell’urgenza. Se si risolvesse questo problema, probabilmente molte altre urgenze si risolverebbero per naturale conseguenza.
Questo pensa e dice qualsiasi cittadino, ogni giorno: qualsiasi cittadino che abbia a cuore le sorti della nazione; questo era il significato stratificato nelle parole di Mattarella e di Francesco. Questo è, dunque, il compito che deve assumere chiunque abbia la possibilità di svolgerlo, chiunque abbia la possibilità di creare anche soltanto una occasione di lavoro. Se si vogliono realizzare movimenti virtuosi di crescita e di sviluppo, se si vuole determinare un benessere sostanziale e diffuso, se nei confronti di questo Paese si prova un sentimento di affetto, bisogna semplicemente restituire tutta la profondità di senso a quell’incipit straordinario che dice così: l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Basta questo.

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In copertina immagine di:
Gigliola Tamara 1 C
Scuola Secondaria 1 grado “G.Pascoli”
del 1° Istituto Comprensivo di Ceglie Messapica (BR)
Dirigente scolastico Dott. Giulio Simoni

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