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Editoriale Febbraio 2014

Insegnanti

di Antonio Errico

Quelli lì. Quelli che quando si alzano, fuori è buio ancora,
che mentre preparano il caffè si rigirano in testa la lezione,
danno un altro sguardo ai compiti corretti, quelli che
hanno quasi tutti ormai più di cinquant’anni, che a volte
sono stanchi, che sono ancora entusiasti, che non pensano
al mestiere come a un’occupazione, che fanno quello
che fanno solo e ancora per passione.
Quelli lì. Che prendono l’auto o l’autobus o il treno, che
viaggiano anche in quattro, in cinque, dividendo le spese,
che fanno anche cinquanta chilometri all’andata e
poi cinquanta al ritorno, che quando c’è il rientro li fanno
due volte, oppure mangiano un panino e bevono una
coca cola.
Quelli lì. Che sono stati precari e poi passati in ruolo, che
sono stati precari e rimasti così, che a volte lavorano in
due e anche tre scuole, che cambiano scuola ogni anno e
pure nell’anno in corso, che prendono uno stipendio che
per non piangere ridono, e con quello pagano l’affitto, il
mutuo, le rate, le bollette, le tasse, e fanno fronte all’imprevisto,
sempre con quella cifra che per non piangere
ridono.
Quelli lì. Che non si sentono più considerati, che vengono
accusati di lavorare poche ore, e di avere troppe vacanze
a Natale, a Pasqua, in estate, che non si possono permettere
nemmeno il lusso d’invecchiare perché devono capire
cosa e come pensano i bambini di tre anni, i ragazzi di
dodici, quelli più grandi.
Quelli che a volte fanno da padre e da madre, che sanno
comprendere, che sanno ascoltare, quelli che ogni giorno
è una scommessa con se stessi per far crescere persone,
per far maturare esistenze.
Quelli lì. Che al cambio d’ora si lamentano un minuto,
attraversando il corridoio, salendo le scale, che poi entrano
in classe e riprendono a sgolarsi, che ogni tanto
scioperano ma non ci credono più, che l’unica cosa che li
conforta è capire che sono essenziali. Ancora essenziali.
Quelli lì. Quelli senza i quali questo Paese sarebbe più
povero di quello che è. Quelli senza i quali questo Paese
sarebbe più superficiale di quello che è, e avrebbe meno
speranze di quelle che ha, e più paure di quelle che ha,
perché sono quelli lì, forse quelli soltanto, che continua
no a credere che si possa cambiare, che continuano a
insegnare come fare a cambiare, che dicono che soltanto
il sapere può riuscire a cambiare le storie che ci girano
intorno e che non ci piace ascoltare.
Quelli lì. Che non hanno carriera, che escono dal lavoro
nel modo in cui sono entrati, che vedono i vecchi compagni
di scuola che fanno altri mestieri passargli davanti
agli occhi con il fuoristrada.
Quelli lì. Che comunque non hanno rimpianti, che pensano
che il loro lavoro sia il più entusiasmante, perché
fabbricano pensieri, cattedrali di idee, perché hanno potere,
il potere più grande di formare menti, di formare
coscienze, di educare ad essere, a vivere, a fare.
Quelli lì. Quelli che pensano che ne vale sempre la pena,
che non vogliono e non sanno mai rinunciare, che continuano
dal punto in cui hanno lasciato o che ogni giorno
ricominciano tutto daccapo, che tornano a casa pensando
già all’indomani, che non si avviliscono quando va
male, che pensano al meglio quando va bene.
Quelli lì. Quegli eroi silenziosi, senza medaglie e senza
orazioni, quelli che chiunque si mette a giudicare, quelli
che chiunque è capace di umiliare, quelli che hanno storie
normali ma che raccontano storie grandiose, quelli
che sanno indicare le strade, quelli che sanno insegnare
a sognare.
Quelli lì. Gli insegnanti.

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