• giovedì , 21 Novembre 2024

Dal secondo decennio dell’ultimo dopoguerra a oggi: com’è cambiata la scuola in Italia

di Fabio Scrimitore

Abstract
Esperienze attuali raccontano l’idea di concedere agli alunni qualche ora di sonno in più al mattino, spostando in avanti l’ora di inizio delle lezioni, per non continuare a vedere gli studenti con il volto della tristezza. La maggiore ansia sembra che venga percepita dagli insegnanti, quando avvertono i rischi dell’intelligenza artificiale che vola sulle ali del ChatGPT

Sino al 1977 il Ministero si è impegnato a sottoporre nuovi programmi di studio per i diversi gradi di scuola.
Da quell’anno, gli effetti innovativi della ricerca pedagogica indotti nelle aule accademiche hanno portato nelle scuole lo spirito nuovo della programmazione educativo-didattica, aprendo l’auspicata via della personalizzazione del rapporto insegnamento-apprendimento
Premetto una mia prospettiva della scuola. Dal secondo decennio dell’ultimo dopo-guerra il Parlamento si è impegnato,emanando disposizioni legislative
inerenti a quattro tematiche di interesse scolastico, per attualizzare la vivacità e l’efficacia sociale del si-stema scolastico formale italiano.
In un primo approccio nei riguardi della nostra materia, le Camere legislative hanno avviato un processo di riforma della struttura organica della scuola, atteso da tempo, che ha visto attivarsi la scuola materna statale, non obbligatoria di diritto, ma tendenzialmente aperta a tutte le istanze delle famiglie e la nuova scuola media statale unica. La scuola elementare ha mantenuto la sua struttura, come pure non hanno mutato la loro configurazione gli istituti di II grado, che hanno conservato la loro storica partizione in licei, istituti tecnici, professionali e in istituti di istruzione artistica.
La riforma tentata nel 2000 dal Ministro Luigi Berlinguer che avrebbe voluto trasformare tutti gli istituti del secondo ciclo in otto Licei, rimettendo alle sole Regioni, come vuole la Costituzione, l’istruzione Professionale, è stata annullata dalla Moratti nel 2003.
Sino al 1977, poi, il Ministero si è impegnato a sottoporre progressivamente all’attenzione del corpo docente e delle famiglie degli alunni-studenti nuovi programmi di studio per i diversi gradi di scuola.
Da quell’anno, gli effetti innovativi della ricerca pedagogica indotti nelle aule accademiche hanno portato nelle scuole lo spirito nuovo della programmazione educativo-didattica, che ha liberato il collegio dei docenti dall’obbligo di seguire pedissequamente i rigorosi programmi ministeriali, aprendo, in tal guisa, agli insegnanti l’auspicata via della personalizzazione del rapporto insegnamento-apprendimento.
In terzo luogo ma, nella realtà, in ordine cronologico prioritariamente rispetto ai precedenti due punti di intervento, il Ministero si è dedicato a dare stabilità organica al personale insegnante, con massicce stagioni di immissioni in ruolo, disposte soltanto marginalmente attraverso le ordinarie
procedure dei concorsi per titoli ed esami; in via ordinaria, le immissioni in ruolo sono avvenute con il generoso rito dei concorsi per soli titoli.
Infine, il Parlamento ha liberato la struttura centrale del Ministero dell’Istruzione dalle prevalenti funzioni di gestione centralizzata delle scuole, riservando agli austeri Dipartimenti di viale Trastevere esclusive funzioni di erogazione dei finanziamenti ai neo-istituiti Uffici Scolastici Regionali ed elevando le singole scuole a Istituzioni dotate di personalità giuridica e, soprattutto, di autonomia organizzativa, didattica e gestionale.


L’esperienza di provveditore agli studi, insieme con la mai pretermessa frequentazione appassionata della letteratura accademica inclusa nello spettro compreso fra la psicologia dell’apprendimento, la pedagogia e lo studio delle metodologie didattiche, consente di enucleare alcuni profili di problematicità generati dagli interventi sopra riassunti.
La fiducia che ha accompagnato l’indilazionabile riconoscimento dell’autonomia didattica-organizzativo-gestionale ad ognuna delle migliaia di scuole del sistema scolastico formale italiano, appare oggi affievolita da un vago senso di solitudine progettuale e realizzatrice che sembra avvolgere come un velo grigio le scuole secondarie di primo, ma soprattutto, quelle del secondo ciclo.
E questa sensazione trova un’eco corrispondente nelle perplessità che le istituzioni accademiche e quelle professionali manifestano, quando affidano alla stampa, periodica e non, la denuncia sulla pretesa inadeguatezza degli studenti universitari alla proficua partecipazione ai corsi di laurea, la rilevante disparità fra le competenze in uscita della scuola secondaria e quelle richieste dalle aziende, e, infine, quale corollario delle due precedenti, preoccupanti considerazioni, la necessità, avvertita dalla generalità delle famiglie dei diplomati degli istituti del secondo ciclo che intendono accedere ai corsi universitari a numero chiuso, di far frequentare ai diplomati del secondo ciclo, liberi, quanto onerosi, corsi di preparazione ai test accademici.


Una tale prassi dimostra con chiarezza quale la distanza vi sia fra gli obiettivi generali che possono essere raggiunti oggi dai diplomati diciannovenni e le conoscenze, le abilità e le competenze richieste per frequentare proficuamente i corsi di studio universitari più richiesti dai giovani e dalle loro famiglie.
Siffatta solitudine, avvertita dai protagonisti dell’insegnamento, dirigenti scolastici compresi, potrebbe sembrare sia stato effetto diretto della attribuzione dell’autonomia, riconosciuta al collegio dei docenti. Secondo taluni orientamenti critici, questo senso di isolamento sarebbe conseguenza della connessa concessione della qualifica dirigenziale ai dirigenti scolastici, sui quali la legge ha riversato la pesantissima incombenza-responsabilità della gestione amministrativa delle scuole; tale nuova responsabilità assegnata ai dirigenti avrebbe sottratto loro la delicata e qualificante funzione di stimolo e di coordinamento didattico dei componenti del collegio dei docenti.
La riduzione al minimo dei componenti del corpo ispettivo ha ulteriormente aggravato la denunciata solitudine dell’insegnante, che si è visto così esposto, in solitario, alla vasta problematica delle famiglie, da sempre presente nelle scuole, che si è spesso espressa sotto forme singolari e, qualche volta, anche in modi molto inquietanti.
E’ probabile che il problema potrà volgere verso soluzione quando il Ministro riuscirà a liberare i dirigenti scolastici dalla gravosa responsabilità della gestione contabile della scuola, assegnando al solo direttore dei servizi generali ed amministrativi la responsabilità della gestione contabile del programma triennale dell’offerta formativa della scuola.


Torneranno, forse, soltanto allora, i tempi in cui i dirigenti scolastici potranno compiacersi di rivestire i paludati panni che hanno sempre caratterizzato autorevolmente coloro che operano nelle aule, o nelle loro prossimità, per far gustare agli alunni ed agli studenti il bene della conoscenza. Restituendo, di fatto, oltre che di diritto, al dirigente scolastico le originarie sue funzioni di coordinamento didattico si potrà dare al
collegio dei docenti la funzionalità propria di una comunità educante, sostituendo l’attuale configurazione di aggregazione fisica di professionisti della conoscenza, più che di solidale comunità educante, che, sembra sia divenuto il collegio dei docenti.
La genericità della problematica che si è formulata un po’ troppo sinteticamente può trovare una ricapitolazione in due considerazioni finali: la prima, è riferita al primo dei due tradizionali termini del rapporto didattico: l’insegnante; la seconda concerne l’altro soggetto del citato rapporto: il discente.
Nell’ immaginario collettivo, l’insegnante delle scuole pre-universitarie è sempre stato il libero professionista per eccellenza. Lo si deduce considerando che la libertà di insegnamento è sacralizzata dalla Costituzione e, in via successiva, dalla legge ordinaria.
La definizione del significato concreto di questa libertà di insegnamento è stata tentata ripetutamente dalla giurisdizione amministrativa, ciò nonostante, il suo significato viene rivestito talora da un alone di indefinitività, che lo rende incerto, come appare lo sfumato dei paesaggi
delle opere pittoriche di Leonardo.
Lo dimostrano due fenomeni rituali, di segno opposto. Nelle scuole del primo ciclo, e soprattutto nella scuola dell’infanzia, molti genitori, melius, molte genitrici, non riconoscono alle insegnanti quasi nessuno dei profili professionali che la frequenza dei corsi di laurea per superare i percorsi di accesso si ritiene che siano stati acquisiti. Secondo le giovani mamme, la missione delle insegnanti dei loro figliolettidai tre ai sei anni, non dovrebbe superare i discreti limiti della funzione di mera vigilanza che l’antica prassi assegnava alle pazienti intrattenitrici presso le cui abitazioni le mamme inviavano i figlioletti, perché potessero esprimere liberamente la propria vitalità, secondo gli stili acquisiti in famiglia.


All’opposto, nelle scuole secondarie, e particolarmente, nelle istituzioni del secondo ciclo, l’esperienza fa dire che non mancano docenti secondo i quali la libertà di insegnamento garantisce loro ogni sorta di autonomia didattica personale. Lo conferma il senso di pudore che pervade molti dirigenti scolastici ogni qualvolta genitori di studenti esprimono riserve verso lo stile didattico dell’insegnante di classe. Forse non è molto ampia la percentuale dei dirigenti scolastici che oggi deciderebbe molto serenamente di chiedere all’insegnante di valutare la possibilità di rivedere il proprio modus agendi in aula per quel che concerne la valutazione del merito e del comportamento dello studente.
Quando proprio non può sottrarsi a una pur doverosa funzione di verifica della compatibilità con l’ordinamento della didattica del docente, il dirigente preferisce chiedere al Direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale l’invio di un ispettore, il quale, di fatto, dovrà assumere in sé la funzione di verifica didattica che la legge assegna, in primo grado, al dirigente scolastico. E’ una prospettiva, questa, che non si armonizza con il principio generale che impone ad ogni persona che eserciti una funzione sociale di render conto se l’incarico professionale che gli sia stato affidato, sia stato poi espletato secondo quanto è stabilito dalla necessaria norma deontologica.
La bontà della difesa in giudizio, esplicata dall’avvocato, è verificata dal giudice, in primis, e poi dal cittadino che ha delegato l’avvocato a rappresentarlo in giudizio; allo stesso modo la professionalità del medico di famiglia è valutata dai componenti della famiglie che hanno scelto il medico di fiducia. Molti insegnanti non accettano di buon grado di veder valutata la propria professionalità, né dal collega di dipartimento, né dal suo dirigente scolastico, né dal genitore dello studente.


In definitiva, è avvertita la necessità che l’ordinamento disponga di linee di orientamento professionale che suggeriscano all’insegnante e al dirigente un modello didattico, elastico per quanto si voglia, magari assunto con il concorso dell’Università, il quale indichi una sorta di deontologia professionale. Sarebbe un utile mezzo di tutela dello stesso insegnante, di fronte a spesso pretestuosi rilievi del genitore insoddisfatto dei criteri che informino la didattica personalizzata del docente.
Ho riservato allo studente l’ultimo quadretto del mio modesto flash sula scuola non perché, il profilo che oggi ha lo studente sia il meno rilevante nel complesso contesto della scuola, ma soltanto perché si possa applicare con la tranquillità con cui si può dedicare all’impresa colui che vede ormai prossimo il sospirato striscione del traguardo finale dell’articolato percorso che si è proposto di completare.
Dall’origine dei tempi in cui l’umanità ha avuto la felice intuizione illuministica di riunire in un’aula 20, 30 alunni, affidandoli ad un insegnante
perché si formassero culturalmente alla vita, il discente ha occupato il posto di minor riguardo sociale rispetto all’insegnante, come è stato reso evidente dalla componente più importante dell’arredo scolastico, rappresentata, almeno sino a pochi decenni or sono, dalla cattedra in legno, sulla quale sedeva l’insegnante. Aveva raccomandato questa struttura d’aula, in primis, l’antica sapienza latina, nel momento in cui ha fatto assegnare al titolare della cattedra il nome, traendolo dall’avverbio che introduce il comparativo di maggioranza: magis, sottolineando, così, che davanti a venti, trenta persone che chiedono di essere istruite, può sedere soltanto chi possegga un quid pluris, quel qualcosa di più rispetto a quanto può essere posseduto dalla maggioranza dei cittadini; ne nacque il magister, titolare della sapienza trasmissibile alle generazioni future. E’ maturato, poi, il tempo in cui la riflessione accademica ha liberato le aule scolastiche dalla cattedra, sicché a questa parola è rimasta la modestissima accezione utilizzata per individuare la disciplina, o le discipline, il cui insegnamento è affidato ad un unico docente.


Gli spiriti sapienti hanno visto in quella piccola modifica dell’arredo dell’aula il segno premonitore dell’attesa fase di transizione dalla didattica dei soli contenuti della conoscenza alla didattica che si propone di riqualificare la funzione dell’insegnante, orientandola metodologicamente verso la finalità di fare acquisire agli alunni le conoscenze di dati, di teorie e di schemi paradigmatici potenzialmente idonei a generare nelle menti le competenze utilizzabili nella vita sociale ed in quella produttiva.
Negli anni ’70 del secolo scorso gli studenti universitari del vecchio corso di magistero sono stati avviati allo studio dei vari stadi della programmazione educativo-didattica e a entusiasmarsi al fascino delle tassonomie dei diversi stadi delle funzioni di apprendimento percorsi dallo studente. Gli stessi studenti hanno avuto modo di conoscere le ardite interpretazioni che hanno dato gli psicologi dell’apprendimento alle funzioni di apprendimento proprie dei sistemi neuronali degli alunni; a queste funzioni gli psicologi hanno applicato la teoria delle intelligenze multiple, che supera l’assunto della tradizione didattica, paladina dell’unicità della funzione intellettiva della mente. Da quegli anni, ai laureati in pedagogia, ai loro omologhi in scienze della formazione primaria e ai frequentanti delle diverse scuole universitarie che hanno concesso le abilitazione agli insegnamenti nelle scuole secondarie, si è proposto di tener conto, nel corso della loro futura vita di insegnanti, che il flusso del sapere può scorrere con gradualità nella mente dell’alunno, percorrendo in successione gli stadi della conoscenza di base di uno strumento, d’un fenomeno o di un evento; quello della comprensione funzioni cui è destinato lo strumento, o delle cause che hanno originato quel fenomeno o quell’evento. Poi gli stadi dell’analisi, della sintesi e infine, quello della valutazione dell’utilizzabilità dello strumento per fini diversi da quelli cui la società lo ha destinato.

Questi progressi nella ricerca scientifica intorno ai modi dell’apprendere nelle età evolutive non hanno prodotto effetti del tutto soddisfacenti nelle indagini proposte dall’OCSE-PISA, né in quelle effettuate annualmente a cura dell’INVALSI, la cui valutazione continua a suggerire agli esponenti della libera opinione pubblica e, per riflesso, ai programmatori istituzionali della scuola nazionale, interventi che possano consentire
ai diciannovenni italiani di raggiungere i livelli di competenza sociale e professionale almeno vicini a quelli di cui sono accreditati i loro coetanei
dell’Unione Europea. Fra le voci che compongono l’opinione pubblica si segnalano constatazioni di pubblicisti che non giustificano del tutto la tendenza al pessimismo che viene espressa da coloro i quali tendono ad imputare alla struttura stessa della scuola pubblica italiana lo svantaggio che viene segnalato dalle rilevazioni internazionali e dagli esiti dei questionari nazionali proposti agli alunni delle scuole pubbliche.
Il filosofo Umberto Galimberti ripete continuamente che gli svantaggi predetti sarebbero conseguenza diretta dell’accesso alla co-gestione della scuola pubblica, originato dal decreto legislativo del 31 maggio 1974, che ha aperto le porte del consiglio di classe e quelle, non meno importanti, del consiglio di istituto alle rappresentanze delle famiglia degli alunni, legittimando una pretesa legittimazione della famiglia dello studente a valutare acriticamente il livello degli apprendimenti ai genitori, e, conseguenza molto più infausta, surrettiziamente, un diritto di controllo sulla didattica dell’insegnante.


Il prof. Ernesto Galli Della Loggia ha denunciato lo stravolgimento che i responsabili della redazione delle linee-guida della programmazione educativo-didattica hanno determinato nell’interpretazione del messaggio gridato da don Milani nella “Lettera ad una professoressa”. Nelle aule, secondo l’autorevole firma del noto editorialista, per offrire pari opportunità di formazione culturale e professionale agli “ultimi”, agli alunni “svantaggiati socialmente”, sarebbe stato affievolito il tradizionale rigore nell’accertamento della qualità degli apprendimenti, quando, invece, sarebbe stato utile cercare di rivalutare il merito, attraverso una didattica più personalizzata, che tenesse conto delle diverse condizioni iniziali di coloro che accedono nelle aule. Altre voci, non meno autorevoli di quelle appena citate, hanno sostenuto che la scuola pubblica formale italiana, cioè la scuola statale e
la paritaria, dagli ultimi decenni del secolo scorso, opera come aveva operato Penelope, la quale, aveva dichiarato ai Proci che avrebbe accettato una proposta di matrimonio soltanto dopo aver completato la tela che aveva iniziato a tessere sul suo telaio. Tesseva di giorno, la povera Penelope, ma di notte non dormiva: disfaceva la parte di tela composta il giorno precedente.
Allo stesso modo, secondo i teorici di questa ipotesi, la scuola formale – rappresentata dagli istituti di formazione e di istruzione che hanno come finalità esplicite e diretta l’apprendimento di coloro che li frequentano ( Scuole Istituti dei due cicli del sistema di istruzione) – opera più che efficacemente a beneficio dei suoi alunni, grazie all’impegno dei suoi impegnati insegnanti e dei suoi dirigenti. Ma gli effetti positivi, conseguiti in termini di apprendimento dagli alunni nelle aule della scuola pubblica, rischiano spesso d’essere affievoliti, se non proprio velati, dall’influenza che sulla formazione delle generazioni adolescenti ha la scuola informale, costituita dai luoghi sociali nei quali si svolge l’attività della vita quotidiana, sia quella lavorativa, che quella in famiglia e nel tempo libero. Luoghi, questi, che non includono esplicitamente fra le attività sociali l’apprendimento di coloro che frequentano tali luoghi, ma vi si svolgono attività ed iniziative che lasciano sempre nella mente di coloro che li frequentano modelli e stili comportamentali, se non altro per il naturale processo di apprendimento che ha luogo per mimesi.


Allo stesso modo, incidono sull’underground culturale acquisito formalmente dagli adolescenti i luoghi non formali, rappresentati dall’associazionismo, e dalle pubblicazioni che orientano deliberatamente il cittadino, influenzandolo nel processo di valutazione dei fenomeni sociali percepiti nella quotidianità. Del complesso delle ore del giorno riservate alle attività sociali, le ore in cui gli alunni sono in classe sono molto più limitate di quanto non lo siano quelle riservate alla scuola non formale ed alla scuola informale. Ne consegue che non sembra proprio irreale l’analogia con Penelope: quel che viene costruito in aula può subire un notevole ripensamento nel tempo in cui la vita conduce gli alunni nei luoghi diversi dagli ambienti scolastici. Non sarebbe giusto, perciò, imputare alle istituzioni della sola scuola formale l’insufficienza degli apprendimenti dei suoi alunni.
Intanto, sulla stampa periodica continua a leggersi che il Ministro pro-tempore introdurrà nel triennio delle istituzioni scolastiche del secondo grado il Tutor e il professore consulente per l’orientamento. Riappaiono a scadenze abbastanza vicine gli interventi di pedagogisti che si pronunciano alternativamente contro ed a favore dell’utilità dei compiti a casa. Altre voci richiamano l’attenzione del disagio che gli studenti avvertono sempre più marcatamente in conseguenza dell’attuale sistema di valutazione in classe con i voti; alcune scuole del Veneto sperimentano valutazioni formative senza il voto, riservando la tradizionale valutazione in decimi al tempo degli scrutini intermedi e di quello finale.
Come le rondini in primavera, un tempo, apparivano sulle coste meridionali italiane, allo stesso modo ritorna sulle pagine interne dei giornali la FlippedClassroom, che vorrebbe far divenire la lezione compito a casa mentre il tempo in classe sarebbe utilizzato per attività collaborative, esperienze.


Né si rinuncia, in taluni, limitati ambiti, all’idea di concedere agli alunni qualche ora di sonno in più al mattino, spostando in avanti l’ora di inizio delle lezioni, per non continuare a vedere gli studenti con il volto della tristezza. Ma la maggiore ansia sembra che venga percepita dagli insegnanti, quando avvertono i rischi dell’I.A. l’intelligenza artificiale che vola sulle ali del ChatGPT quasi per ricomporre gli stili che la tradizione secolare ha assegnato agli alunni, agli insegnanti ed alle aule.

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