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Capaci, 27 anni dopo: il ricordo nel lavoro di Maria Grazia Mazzola

La giornalista, all’epoca inviata per Samarcanda (Rai 3) ha seguito le ore e i giorni successivi all’attentato, ascoltando le voci, la rabbia degli agenti e della società civile su una strage ancora oggi oscura

Di Francesca Rizzo

 

“È importante ricordare che vent’anni fa furono per primi i giovani, i ragazzi delle scuole di Palermo, a scendere in piazza, a gridare «Assassini, ci faremo ammazzare tutti ma voi non passerete»”: lo ha ricordato Maria Grazia Mazzola, giornalista Rai, nello Speciale TG1 realizzato sette anni fa per il ventennale della strage in cui morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo.

Il programma è andato in onda il 21 maggio 2012, due giorni dopo l’attentato alla scuola “Morvillo-Falcone” di Brindisi, che uccise la studentessa Melissa Bassi e ferì alcuni suoi compagni.

 

I coniugi Falcone e Morvillo, i tre giovani, tutti tra i 27 e i 30 anni, che con loro persero la vita, e i colleghi feriti, facevano parte del convoglio di tre auto che, il 23 maggio 1992, dall’aeroporto “Punta Raisi” di Palermo raggiungevano la località segreta stabilita per il magistrato simbolo dell’antimafia e per sua moglie, anche lei giudice.

“Ventisette anni fa c’ero. A Capaci fui inviata per Samarcanda e arrivai la stessa sera, l’attentato avvenne alle 17,56”, scrive oggi Maria Grazia Mazzola, giornalista investigativa (vittima lei stessa dell’aggressione di Monica Laera, esponente del clan Strisciuglio-Laera-Mercadante, nel quartiere Libertà di Bari), ricordando tutti gli interrogativi ancora aperti, tutti i punti oscuri sui quali si è puntato il dito sin dall’inizio, eppure ad oggi irrisolti.

La rabbia degli agenti di scorta feriti, dei parenti delle vittime, della società civile: Maria Grazia Mazzola ha vissuto in prima persona tutto questo, radunando le testimonianze nello Speciale TG1 realizzato vent’anni dopo.

 

E quello che appare particolarmente significativo, agli occhi di oggi, è una contrapposizione, forte, tra la politica e la società, tra le dichiarazioni formali e la rabbia vera delle persone: “Chi ci può essere – chiede Oscar Luigi Scalfaro – dietro un atto di guerra così spietato, così clamoroso? E perché ciò avviene proprio mentre il mondo politico appare debole, sconcertato, quasi ferito nella fiducia, non subito capace di raccogliere la voce del popolo che si è espressa nel voto, non subito capace di liberarsi dalle miserie di una politica più idonea ai no imbelli e orgogliosi, che ai sì fatti di sacrificio per la gente, per la patria?”.

 

Uno Stato incapace di ascoltare le esigenze delle persone, e la naturale identificazione di queste in un uomo, un magistrato, che rappresenta la faccia pulita delle istituzioni, che sente avvicinarsi il pericolo eppure non indietreggia: tutto questo si percepisce ascoltando le testimonianze dell’epoca, lo sconforto simboleggiato dagli agenti di scorta sopravvissuti e dai loro colleghi; “Siamo diventati carne da macello”, urla un poliziotto durante i funerali di Stato, il 25 maggio a Palermo

 

Gli uomini delle forze dell’ordine, sostiene Maria Grazia Mazzola, rappresentano “lo Stato con i sandali, che vuole la giustizia, la legalità”, contrapposto alle “scarpe chiodate” dei mafiosi. Paolo CapuzzaAngelo Corbo, Gaspare Cervello, e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza, sono i colleghi dei caduti Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo: tra le corsie dell’ospedale di Palermo, riporta ancora la giornalista, “è Paolo Borsellino l’unico che fa visita agli agenti dimenticati della scorta sopravvissuta, è lui che va ad abbracciare i ragazzi sotto choc in ospedale”.

 

“Non so se la fedeltà paga qualcosa, oggigiorno – afferma ai microfoni di Samarcanda uno degli agenti  –: si è morti per lo Stato, può bastare? Altri tre nomi su una lapide bianca, uno di loro aveva un bambino di quattro mesi: domani, tra vent’anni, questo bambino dirà grazie allo Stato, perché gli hanno ucciso il padre, e va bene così”.

“Spero  – dichiara un collega – che le immagini che ho visto da due, tre ore a questa parte in tv, la strada tutta rovinata, le auto distrutte, facciano riflettere qualcuno che sta ai vertici, per poterci dare veramente la forza di combattere la criminalità: questa è l’ennesima sfida allo Stato, ora vedremo le risposte”.

 

Non deve chiudersi in archivio questa storia, noi vogliamo giustizia”, afferma Rosaria Costa, vedova di Vito Schifani: il più giovane, con i suoi 27 anni, del convoglio. “A nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato – dice ancora Rosaria nella chiesa palermitana di San Domenico, dove il 25 maggio 1992 si sono svolti i funerali delle cinque vittime – rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (…), sappiate che anche per voi c’è il perdono (…). Tornate ad essere cristiani, ve lo chiediamo per la nostra città di Palermo, che avete reso città di sangue”.

All’interno e all’esterno della chiesa, la contestazione della folla ai politici: le urla, i fischi, i cori di “buffoni”, “vergogna” e “giustizia”: “Non la vinceranno, ci dovranno ammazzare tutti”, “Siamo coi magistrati onesti, moriremo con loro”, gridano i palermitani. E ancora, le accuse: “Questa è la mafia politica”, “I politici giocano”, “Non li vogliono proteggere”

 

“Ci si domanda: ma è solo mafia, questa?”: le parole di Scalfaro riportano ad oggi, a ventisette anni dopo, alle tante domande sulla trattativa Stato-mafia. “Vogliamo i mandanti che camminano, non gli assassini”: parole di un’Italia intera, stanca di dichiarazioni vuote, di commemorazioni rinnovate anno dopo anno. Perché la memoria è importante, ma “un Paese che non accerta tutta la verità sulle stragi di mafia, non può essere un Paese del tutto libero e democratico”, ricorda ancora Mazzola, che elenca le tante questioni irrisolte: “Chi sono le ‘menti raffinatissime’ delle quali parla Giovanni Falcone all’indomani del fallito attentato all’Addaura, dove abitava Falcone il 21 giugno 1989? Perché i mafiosi che erano già partiti in squadra per Roma per assassinare Falcone nel 1991, poi non portarono a compimento l’omicidio, senz’ altro più facilmente? Perché è scomparsa l’agenda rossa di Borsellino? Chi sono le ‘persone importanti’ che incontrava Riina e delle quali riferisce il pentito Cancemi? Perché Falcone portava con sé a Roma – pur avendo cambiato ruolo – gli appunti su Gladio sulla quale aveva raccolto dichiarazioni in passato come inquirente?”; interrogativi che il pm Nino di Matteo continua a ripetere, “come un karma”, scrive la giornalista.

“Ricordiamoci tutti – afferma oggi Mazzola – che Giovanni Falcone fu delegittimato prima di essere assassinato. Il ‘sistema’ trasversale non poteva permettere che un magistrato indipendente e intelligente, non appartenente a lobby, potesse governare un ufficio giudiziario o un ministero di governo: Falcone poteva diventare ministro e fu ritenuto pericoloso soprattutto a Roma. Lo disse Paolo Borsellino in una intervista del giugno 1992.

Una persona indipendente e intelligente in un ruolo incisivo, fa paura ai poteri forti e viene scientificamente estromessa. A Giovanni Falcone fu impedito di incidere nel Paese per il cambiamento. Gli fu impedito di esprimersi in qualunque ruolo si trovasse. A Giovanni Falcone fu impedita l’esistenza”.

 

 

Per saperne di più:

A 27 anni da capaci cerchiamo ancora la verità

Speciale TG1 20 maggio 2012

Di Matteo, 10 misteri sulla fine di Falcone

 

 

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