folle, istrionico
a cura di Vincenzo Sardelli
(docente di lettere nella scuola secondaria di II grado)
Albert Camus rivela il lato angoscioso della verità, la problematica dell’assurdo dell’uomo contemporaneo. Alla base della sua arte c’è la ricerca di una giustificazione dell’esistenza, che in genere si rivela vana.
Curiosamente Camus trova in Caligola, imperatore romano vissuto duemila anni fa, l’emblema dell’incapacità dell’uomo contemporaneo di adeguarsi al mondo civile. Di comprendere non solo il senso della storia, ma anche quello del proprio io. Senza certezze religiose, politiche e sociali.
Vent’anni di limature. Fino a riscriverlo tre volte, nel 1938, nel 1941 e nel 1958. A Caligola, Camus ha lavorato quasi una vita.
Una tragedia del desiderio. Un personaggio mostruoso e delirante, eppure fragilissimo, con quel desiderio d’impossibile. Come rivela al servo Elicone: «Adesso lo so. Questo mondo così com’è fatto non è sopportabile. Ho bisogno della luna, o della felicità o dell’immortalità, di qualcosa che sia demente forse, ma che non sia di questo mondo».
Tre belle messinscene propongono con sottolineature e stili diversi questi interrogativi. Sono quella principesca degli aquilani di Teatro Zeta, quella misurata di Pacta dei Teatri, quella istrionica di Corrado d’Elia.
Nel Caligola di Teatro Zeta, regia di Pino Micol, rappresentato l’ultima volta al Teatro Comunale di Atri, c’è la forza devastante del male. C’è soprattutto il bisogno d’amore, sublime e angosciante più della violenza.
Parigi 1941. Tempesta atmosferica e deflagrazione bellica. Luci laceranti, suoni acuti. Lieve contrappunto musicale, di Massimo Bizzarri.
Siamo dentro un teatro diroccato. Una compagnia rappresenta il Caligola. Doppio binario: da una parte la guerra presente, la Francia occupata dalle truppe naziste; dall’altra una storia del passato, che del presente diventa allegoria.
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