Compiti a casa sì? Compiti a casa no? Il ministro Marco Bussetti ha preso posizione in una lettera aperta ai docenti che ha sollevato un polverone. Il direttore Scrimitore immagina una surreale scenetta di ordinaria vita familiare
di Fabio Scrimitore
Con la pazienza antica di cui soltanto i vecchi sanno dar prova, al nipotino di prima classe di scuola media il nonno stava parlando della grande civiltà, nata nel tempo della fuga a Medina, la più famosa della storia dell’Islam, non meno famosa di quella dalla quale, secondo Virgilio, avrebbe avuto origine la grande storia di Roma.
Non che il nonno avesse molta dimestichezza con la storia di quell’ammirata civiltà che, con i commentari di Averroè, ha fatto conoscere alla filosofia occidentale il maestro di color che sanno, ed ha aiutato i professori di matematica ed i loro alunni a sostituire nel calcolo i rigidi, inflessibili numeri romani con cifre che, come attori plurimorfi, mutano valore con il cambiar della posizione nelle loro infinite aggregazioni. Egli, in verità, aveva appreso gli eventi più importanti dell’Islam soltanto qualche quarto d’ora prima di indossar le modeste vesti di aio domestico, leggendo in fretta le dieci pagine del voluminoso libro di storia, sulle quali probabilmente il nipotino sarebbe stato interrogato il giorno seguente. E girandosi e rigirandosi sulla sedia, con fra le dita il policromo cubo di Rubik, il ragazzino aveva risposto con dignitosa compunzione alle insistenti domande del nonno su come fosse apparsa nella grande piazza della città santa della Mecca la Pietra Nera, poi sulle cause della rapidissima espansione della civiltà musulmana in Oriente sino all’Indo e, ad Occidente, sino alla Spagna, con infine la sconfitta di Poitiers, inferta da Pipino il Breve alla irruenta onda islamica.
Dopo circa un’ora e mezza di incalzanti domande e di non sempre esaurienti risposte, il libro di storia poté essere riposto nel pesantissimo zainetto, dal quale saltò fuori il testo di grammatica italiana, con i suoi estenuanti esercizi sulla coniugazione dei verbi irregolari.
“Nonno – esordì il nipotino –, sul mio diario leggo che, per domani, devo coniugare il verbo spegnere e riportarne modi e tempi sul quaderno; ma devo farlo scrivendo con la penna nera la radice delle diverse voci verbali e con la penna rossa la corrispondente desinenza”.
Eludendo l’attenzione del nipotino, la mano destra del nonno sfogliò lentamente le pagine della grammatica, sperando di trovarvi la conferma d’una bella regola di scuola elementare degli anni Quaranta. Nella memoria del vecchietto risuonava, lontana, come in un sogno di primo mattino, la voce della sua non proprio dolcissima maestra degli anni Quaranta, che, con in mano la riga di faggio, procedeva lentamente fra i neri banchi biposto con incorporato il calamaio dell’inchiostro, proclamando stentoriamente che la radice è l’altra parte del verbo che non muta mai durante la coniugazione, mentre la desinenza è l’ultima parte della voce verbale, quella che cambia a seconda del tempo, del modo e della persona.
Forte della conferma dell’antica regola grammaticale rinvenuta nelle pagine del libro del nipote, il nonno suggerì al promettente fanciullo di cominciare a svolgere il compito, scrivendo sul quaderno la coniugazione del presente indicativo del verbo spegnere, riportandone con la biro nera l’immutabile radice e con quella rossa la mutevole desinenza. Il ragazzino, fidandosi della presunta sapienza del nonno, scrisse: “Io speng-o; tu spegn–i, egli spegn-e, noi spegn-iamo, voi spegn-ete, essi speng-ono”.
Poi, improvvisamente, un grido interruppe la scrittura della coniugazione: “Ma che mi hai fatto scrivere, nonno! – proruppe il nipote, lanciando, con sacrosanta indignazione, la penna sul delicato piano del tavolino in mogano della cucina – Non vedi che le sei radici che mi hai suggerito non hanno la stessa forma in tutte e sei le voci dell’indicativo presente? Guarda! Per due voci ho scritto, in nero, speng- e per quattro mi hai fatto scrivere la ben diversa radice spegn-? Mi vuoi dire quale è questa benedetta radice di questo maledetto verbo? E’ spegn-, o speng-?”.
Se fossero state le 8.40 di domenica mattina – pensò l’imbarazzato nonno –, il più che giustificato dubbio dello scrupoloso nipote sarebbe stato risolto facilmente con una telefonata al professor Francesco Sabatini, l’illustre linguista che su RAI 1 dialoga affabilmente con gli studenti di turno, prima degli incerti esperimenti di fisica del meteorologo, colonnello Laurenzi. Purtroppo, quello era il giorno della settimana che i Romani dedicavano all’alato dio Mercurio, invocato protettore del commercio, più che della scuola. Facendo appello alla sua non ancora affievolita abilità intuitiva, più che a quella mnemonica, il nonno si rivolse al buon Devoto-Oli, che contribuì a fargli ricordare un’altra delle belle regole grammaticali insegnategli dalla maestra elementare dell’immediato secondo dopoguerra.
“Che bella scuola era quella degli anni Quaranta! – sospirò – Altro che compiti di realtà di oggi! Già in quegli anni i maestri adottavano metodi empirici di soluzione dei problemi della quotidianità, con formulette facilmente memorizzabili, come quella che fa ricordare la successione dei non proprio comuni, oggi, nomi delle Alpi: ma- con- gran- pe- na- le- re- ca-giù”.
La regoletta, che salvò la faccia al nonno davanti all’inquieto nipotino, assicura che, per estrarre la radice del verbo, basta riferirsi al suo infinito presente e toglierne la desinenza, tenendo presente le semplicissime desinenze delle tre coniugazioni dei verbi italiani: are, ere, ire.
Con la riconquistata autorevolezza in grammatica, il nonno assicurò il nipotino che sarebbe stato sufficiente sottrarre all’infinito del verbo spegnere la desinenza della seconda coniugazione, ere, per scoprire finalmente che la radice di quel verbo è spegn.
“Allora hai sbagliato quando mi hai dettato le voci verbali della prima persona singolare e della terza plurale dell’indicativo presente!”, esclamò vendicativo il fanciullo, per poi infierire ancora, inclemente, con una domanda imbarazzante ( per il nonno, s’intende ): “Da dove te la sei inventata la radice “speng”, che mi hai fatto scrivere, dettandomi io speng-o, essi speng-ono?”.
La naturale tendenza al rigoroso rispetto della logica proposizionale, che caratterizza le persone che percorrono i rosei viali dell’infanzia e della fanciullezza, aveva esposto il povero nonnino ad una figuraccia, per evitar la quale egli ricordò un’altra regola, questa di fonte liceale, la quale vuole che, nei momenti di dissonanza cognitiva in materia linguistica, bisogna chiedere aiuto alla storia. Ricercando, così, fra gli antichi insegnamenti ricevuti in quarta ginnasiale, ricordò che il suo professore di storia era solito affermare che la lingua è come il corso di un fiume che, scendendo lentamente lungo le falde del monte, lascia sugli argini le foglie ed i tronchetti che il fluire delle onde rende molto leggeri, e accoglie fra i suoi flutti le foglie che, a valle, gli alberi cedono dai rami pendenti. Accade così che, quando il fiume sta per riversarsi in mare, diventa piuttosto difficile riconoscere le tante immagini che le sue acque offrono, quando scendono dal monte.
Così si formano le lingue: nel corso del tempo perdono parole non più necessarie per dialogare ed acquisiscono nuovi termini, suggeriti da circostanze sopravvenienti. Basterà leggere un classico – per esempio, Il Principe – per verificare quanto la lingua degli italiani sia cambiata dai tempi del Machiavelli ad oggi.
Grato al suo bravo professore di ginnasio, l’improvvisato insegnante domestico pregò il nipotino di liberarsi delle cuffie, che nel frattempo veva indossato per rilassarsi, colloquiando con amici, e gli raccontò che la sua professoressa di quinta ginnasiale, alla fine dell’ultima ora di lezione, pregava sempre uno studente di spegnere la luce elettrica dell’aula, non dicendogli “Spegni!” – come avrebbe detto quella stessa insegnante se si fosse trovata in un’aula della scuola di oggi –, ma “Spengi!”.
“Forse – aggiunse il nonno – la mia insegnante di lettere del ginnasio avrà soggiornato per qualche tempo in una città della Toscana, dove si usa ancora dire spengere, invece che spegnere, come diciamo noi e, con noi, la maggior parte dei parlanti italiani.
Poi, le vicende della nostra storia, facilitando lo scambio delle relazioni di lavoro, di svago e di studio fra le diverse regioni italiane, hanno generato delle commistioni anche nei diversi modi di esprimerci. Sono derivate così varianti di sostantivi, aggettivi, verbi ed avverbi. Il verbo spengere dei toscani ha lasciato il posto al suo sinonimo spegnere nelle altre regioni, almeno nelle forme della prima e della terza persona dell’indicativo presente, mentre la voce spegnere è rimasta egemone nelle forme riferite alle altre persone dello stesso tempo verbale”.
“Ma chi ha vinto, infine – chiese sorridente il nipotino –, la forma “spegnere” o quella “spengere”?
“Lo potremo verificare soltanto dopo che tu avrai completato il compito – rispose il nonno –, scrivendo sul quaderno tutti i tempi ed i modi del verbo”.
“Ma quello che mi stai dicendo tu – obiettò il nipotino, desideroso di passare subito ai più agevoli (per lui) esercizi di matematica, con numeri compresi fra parentesi graffe, quadre e tonde – può significare che il verbo spegnere ha due radici: “speng” e “spegn”?.
“No di certo – assicurò il nonno –, perché la radice del verbo, come abbiamo già detto, deve essere invariabile in ogni voce di persona, tempo e modo. E l’unica parte invariabile della coniugazione del nostro verbo irregolare è composta da tre sole lettere: spe.
Sembrava che la soluzione avesse acquietato gli animi, consentendo al ragazzino di riporre, felice, nello zaino il libro di grammatica italiana, per estrarvi finalmente quello degli amati esercizi di aritmetica.
Senonché al ragazzino venne il sospetto che, scrivendo sul quaderno con la biro nera le sole lettere spe, come radice di tutte le voci dei tempi e dei modi del verbo spegnere, sarebbe stato accusato di mancanza di rispetto verso la grammatica, la quale vuole che la radice d’un verbo debba essere ricavata dal suo infinito presente, sottraendone la sola desinenza –ere. Invece, egli aveva tolto dall’infinito di spegnere non soltanto le lettere ere, ma anche le consonanti g e n.
L’ultimo dubbio del cartesiano nipotino venne risolto pilatescamente dal nonno, che sentenziò: la grammatica non è geometria. E, non contento, aggiunse che soltanto le discipline logico-formali, come la geometria e le altre scienze che compongono la matematica, hanno regole rigide ed invariabili, che non ammettono eccezioni. Sicché, se si deve esser certi che non si potrà mai comporre un triangolo rettangolo, in cui il quadrato costruito sull’ipotenusa non risulterà equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti, diversamente, non si potrà mai esser certi che, per trovare la radice di un verbo irregolare, basterà sottrarre al suo infinito presente la desinenza are, ere o ire. Anche se, ogni tanto, qualche letterina potrà trovare posto tra la radice e la desinenza. In tal caso, i grammatici risolvono il problema con la loro fervida immaginazione: dicono che, quando fra la parte invariabile del verbo e la desinenza ci sono altre lettere, l’insieme di tali lettere può formare una sorta di accidente, al quale hanno poi dato il nome quasi impronunciabile di epentesi; e così il problema è bell’e risolto.
“Quindi – concluse l’ormai defatigato nipotino, rimettendosi le cuffie del computer per riprendere l’interrotto colloquio on line con l’amico –, sarebbe stato meglio se, nello scrivere le diverse forme del verbo spegnere, avessi usato tre colori di penna: il nero per la radice, il rosso per la desinenza ed il verde per la tua epentesi!”.
Si era fatto ormai tardi. Dal televisore del vicino tinello giungeva la voce del ministro Bussetti, il quale prometteva che avrebbe inviato una circolare alle scuole, per pregare gli insegnanti di non assegnare agli alunni, almeno durante le vacanze di fine d’anno, compiti per casa che li impegnassero sino a notte insieme ai genitori e ai nonni, consentendo loro di ritemprarsi e svagarsi, di curare le proprie passioni, di leggere, ascoltare musica, visitare una mostra, praticare uno sport.
L’annunciata circolare ha assunto quasi le forme della mitica araba fenice, perché sembra che sia giunta a destinazione, nelle più informali vesti di una lettera di auguri alle scuole, soltanto venerdì, 21 dicembre 2018, ultimo giorno di lezione nella quasi totalità delle scuole italiane. Se fosse stata recapitata qualche giorno prima, quasi sicuramente l’insofferente nipotino avrebbe potuto fare a meno di sorbirsi la barbosa lezioncina del nonno pedante.