• giovedì , 21 Novembre 2024

Aspettando la Conferenza nazionale della scuola

di Fabio Scrimitore

Il 1° luglio 2021 il prof. Patrizio Bianchi, Ministro dell’Istruzione, nel corso di una conferenza stampa, ha dichiarato: “Annuncio, in anteprima, che alla fine di novembre faremo la Conferenza nazionale della scuola. L’ultima venne fatta nel 1990 dall’allora ministro Sergio Mattarella. Dopo trent’anni, tocca a me convocare questo nuovo momento di chiamata generale a una riflessione sulla scuola. Anch’io sono convinto che sia giunto il momento di farlo”.

Continuando poi la conversazione, il Ministro ha esplicitato le ragioni della sua iniziativa affermando: “La scuola italiana deve tornare a essere una scuola nazionale, in grado di offrire su tutto il territorio la stessa qualità dei servizi, la stessa ampiezza dell’offerta formativa. Dev’essere una scuola degli affetti, una scuola in cui si impara a vivere e lavorare insieme, perché tutta la nuova economia è basata sulla capacità di mettere insieme le persone. Dev’essere una scuola in grado di insegnare ai nostri ragazzi la capacità critica dell’uso degli strumenti. I nostri ragazzi sono diventati essi stessi schiavi del loro telefonino e del loro computer. Noi dobbiamo insegnare loro, anche utilizzando tutta la nostra cultura umanistica, che la capacità critica va coltivata per utilizzare al meglio gli strumenti”.

Il Ministro ha così concluso: “Il processo è talmente rapido che il cambiamento tecnologico è più rapido del cambiamento educativo. Sembra un paradosso: per entrare in un’epoca così nuova, bisogna tornare a una scuola antica, in cui il professore sia l’adulto di riferimento, sia il maestro, sia in grado di far sentire ai ragazzi la bellezza di crescere assieme”.

Non vi è dubbio che meriti attenzione, se non proprio plauso, il proposito del Ministro di ascoltare voci qualificate di dirigenti scolastici, insegnanti, personalità istituzionali ed eminenti componenti della società civile che abbiano a cuore il successo della scuola e credano ancora che l’efficienza del sistema nazionale costituisca la prima condizione necessaria per far sì che l’Italia occupi un posto dignitoso fra le Nazioni più progredite. Induce, però, a riflettere l’idea, espressa quasi cautamente dallo stesso Ministro sotto il timido velo del paradosso, che “per entrare in un’epoca così nuova, bisogna tornare a una scuola antica, in cui il professore sia l’’adulto di riferimento, sia il maestro, sia in grado di far sentire ai ragazzi la bellezza di crescere assieme”.

Certo, dal prof. Patrizio Bianchi ci si attende di più che la non molto originale idea di una Conferenza nazionale della scuola. Tanto perché la storia dei due decenni a cavallo fra il secondo ed il terzo millennio, in verità, non fa ritenere che il metodo della convocazione di pletoriche assemblee nazionali sia lo strumento più idoneo per far nascere progetti veramente innovativi per il sistema educativo nazionale. Infatti, l’idea più originale che sia stata generata dai vivaci dibattiti della Conferenza nazionale della scuola, indettta il 30 gennaio 1990 dal Ministro pro-tempore della Pubblica Istruzione, l’attuale Presidente Mattarella, è stata l’intuizione del modulo didattico, che ha consentito di assegnare a due classi della scuola elementare tre insegnanti, evitando in tal modo che la riduzione delle nascite determinasse il soprannumero di una larga messe di maestri. Poi, nonostante l’impegno del buon direttore didattico, il senatore Beniamino Brocca, chiamato a presiedere la commissione per la riforma degli istituti secondari di secondo grado, quell’auspicata riforma ha dovuto attendere quasi tredici anni prima di essere realizzata.

Maggior fortuna ha avuto la Conferenza nazionale della scuola che la Ministra della P.I. del tempo, Letizia Moratti, su suggerimento del pedagogista prof. Giuseppe Bertagna, ha voluto che fosse tenuta a Foligno tra il 19 ed il 20 dicembre 2001 e alla quale venne attribuito un titolo che evocava la storica esperienza pre-rivoluzionaria parigina della primavera del 1789. Il risultato  più rilevante di quella grande assise scolastica fu l’adozione della Legge-delega 28 marzo 2003, n. 53, che  abrogò d’un sol colpo la Legge-quadro 10 febbraio 2999, n. 30, con la quale il predecessore della Moratti, Luigi  Berlinguer, aveva faticosamente ridisegnato l’intero sistema della scuola pre-universitaria, riducendone la durata di un anno scolastico, licealizzando gli otto ordini esistenti e consentendo alle Regioni di legiferare in autonomia sull’istruzione professionale, così come vuole la Costituzione.

In un momento storico come quello che la scuola, insieme all’intera società, sta vivendo sin dagli inizi del 2020 e che, per la persistente virulenza della SARS-CoV-2 e per l’ostinata resistenza alla vaccinazione opposta con motivazioni diverse quinci e quindi, continua a colorare di incertezza e di preoccupazione l’orizzonte vicino e  futuro dell’intera società, ci si sarebbe attesi che il Ministro dell’Istruzione, dal ricchissimo curriculum vitae accademico e professionale, avesse fatto precedere, o almeno accompagnare, l’annuncio della Conferenza nazionale della scuola da una qualche intuizione organizzativa originale, da qualche nuova idea d’indole didattica, utili ad  orientare il dibattito che verosimilmente  la  animerà a novembre, evitando, così, il pericolo che una simile occasione si traduca nel solito, poco consonante coro di esponenti della società accademica o politica, che i cronisti del telegiornali diffondono ritualmente ogni giorno dai teleschermi fra i rassegnati telespettatori.   

 Il pensiero va anche allo staff del Ministro – cioè agli accreditati spin doctor del Gabinetto del prof. Bianchi -, al quale raccomandiamo di essere professionalmente attento ai dati sugli apprendimenti scolastici, pubblicati dall’Invalsi qualche settimana fa. Qualcuno di quegli autorevoli professionisti potrebbe suggerire sommessamente al Ministro di indicare, quale tema-guida dell’annunciata Conferenza nazionale, la ricerca di un nuovo modello di valutazione dell’efficienza delle diverse prassi didattiche delle scuole secondarie di primo e di secondo grado, che consentisse alle istituzioni educative di quegli ordini scolastici di superare il preoccupante, netto divario esistente fra i dati rilevati dall’Invalsi, ridando alla scuola italiana quel carattere di “scuola nazionale” auspicato dallo stesso Ministro, e risolvendo così la grave dissonanza mentale che si avverte quando, a conclusione degli esami di Stato conclusivi dei corsi del secondo ciclo di istruzione, si apprende che il maggior numero di 100 e  lode viene assegnato sistematicamente negli istituti delle Regioni che gli stessi dati Invalsi danno per svantaggiate.

Una delle proposizioni pronunciate dal Ministro Patrizio Bianchi probabilmente sarà piaciuta molto ai soliti laudatores temporis acti. Ci si riferisce alla frase: “Per entrare in un’epoca così nuova, bisogna tornare a una scuola antica”. Ma sarà lecito ipotizzare che la maggior parte delle famiglie che segue da anni le rilevazioni della qualità degli apprendimenti dei propri figli probabilmente si sarà chiesta sulla base di quali dati oggettivi si possa oggi sostenere che le prassi didattiche della scuola antica  siano ritenute tanto apprezzabili da giustificare l’auspicio che i modelli di organizzazione didattica di quella scuola rivivano nelle aule di oggi e, soprattutto, in quelle di domani. Non concorderebbero certamente con quest’idea gli estimatori dell’Autore della “Lettera ad una professoressa”.

Più rispondente alle necessità della scuola che sta per riaprire  cautamente le porte e le finestre appare l’intuizione ministeriale che raccomanda ai docenti, quale via privilegiata per potenziare la  storica funzione di promotrice di progresso economico e sociale di questa istituzione, l’adozione di metodi   che abituino i nostri ragazzi ad impegnarsi criticamente nell’uso degli strumenti che la moderna tecnologia offre loro, anche utilizzando –  aggiunge il Ministro, con un cenno di solidarietà agli ultimi estimatori della formazione liceale classica  – tutta la nostra cultura umanistica.  

L’idea del Ministro sembra corrispondere alla preoccupazione dell’insegnante di fisica d’un Istituto tecnico industriale, il quale ha cercato insistentemente di convincere la generalità degli studenti d’una classe  che un oggetto, il quale sia stato spinto in un tubo curvilineo,  non continuerà a muoversi secondo una traiettoria curvilinea, una volta che sia stato espulso dal tubo stesso. Per la gran parte dei suoi studenti, l’oggetto che venga spinto  in un tubo curvilineo acquista una forza che continuerebbe a farlo muovere  secondo una traiettoria curvilinea e soltanto dopo qualche tempo questa forza si disperderebbe e la traiettoria diventerebbe rettilinea. Mediante ripetute dimostrazioni, elaborate creativamente sulla LIM dell’aula, il professore è riuscito finalmente a far comprendere plasticamente alla totalità degli studenti quel che la fisica insegna al riguardo, cioè che gli oggetti si muovono in linea retta finché non intervenga una forza esterna che ne modifichi la traiettoria.

La risorsa del computer d’aula, funzionale alla LIM, ha consentito al professore di stimolare l’interesse dei suoi studenti per la metodologia  che un tempo veniva chiamata apprendimento per scoperta, e che ora viene associata alla propensione dello studente a non considerare acriticamente vera ogni definizione, ogni concetto che gli vengano proposti, sottoponendoli prudentemente ad una valutazione critica, condotta in base a criteri di chiara razionalità. Da tempo immemorabile si sostiene che il fine primario della scuola sia quello di fare acquisire allo studente criteri oggettivi che gli consentano di distinguere il vero dal falso, il bene dal male, il bello dal brutto. Soltanto il raggiungimento di queste preziose finalità potrà garantire il pieno esercizio dei diritti di cittadinanza attiva, resistendo al sempre ingannevole fascino delle fake-news che minano la vita sociale.

Restando in tema di didattica e, soprattutto, in relazione all’insistenza con la quale i dirigenti scolastici e gli insegnanti sono stati autorizzati  dalle vigenti innovazioni normative a ricorrere alla didattica a distanza soltanto nei casi eccezionali, specificamente  previsti dal Decreto-legge n. 111 del 2021, non mancano voci preoccupate di persone le quali temono che il rientro fra i banchi, dopo tanti mesi di lezioni e di interrogazioni da remoto, possa tradursi in un ritorno puro e semplice alla tradizionale didattica in presenza, recuperando integralmente gli stili di vita sociale d’aula precedenti all’era digitale ed i benefici, in termini di apprendimento, che lo star bene fra compagni e  professori comportano.

E’ necessario evitare un tal genere di radicale ritorno al passato perché, se è vero che la generalizzazione della didattica a distanza, imposta per contenere la tremenda rapidità della diffusione del contagio da SARD-CoV-2, ha fatto registrare all’Invalsi una preoccupante flessione degli apprendimenti scolastici, è altrettanto vero che tale modalità ha indotto tanti insegnanti, ed altri ne ha obbligati, a superare progressivamente il disagio psicologico che la tecnologia digitale ha generato nelle generazioni che si sono formate prima dell’avvento del computer. Ora che il primo passo è stato compiuto e che tanto i componenti dei collegi dei docenti quanto la quasi generalità delle famiglie dialogano, per le ordinarie attività quotidiane, con la tastiera dei computer e  degli smartphone con sufficiente destrezza, appare doveroso non già svalutare la didattica in presenza, bensì integrarla  con il contestuale ricorso alla consorella digitale.

La prossima Conferenza nazionale della scuola potrà offrire spunti preziosi per individuare quali metodologie e quali sussidi didattici potranno rivelarsi utili agli insegnanti che intendano utilizzare le straordinarie risorse che la tecnologia digitale mette a loro disposizione.

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