Relativamente al bonus premiale, una recente sentenza del TAR del Lazio conferma il diritto di accesso agli atti dei docenti legittimanti ad avere informazioni relativamente alle attività retribuite, ai destinatari del beneficio e anche agli importi attribuiti.
di Agata Scarafilo
Se ancora ci fossero dubbi sul “diritto di accesso agli atti” dei docenti che ravvisano un legittimo interesse, determinato anche dalla non attribuzione del bonus, ora, a fare chiarezza, è arrivata anche una sentenza del TAR del Lazio (n. 02611/2017 REG.RIC). Una sentenza che accoglie il ricorso di un docente che aveva chiesto alla scuola di servizio l’accesso e l’acquisizione degli atti afferenti la comparazione dei destinatari del bonus con le relative attività valutate e le somme riconosciute.
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Il Tar, in buona sostanza, ha ritenuto illegittimo il “silenzio–dissenso” del Dirigente Scolastico, che ha inteso così negare l’accesso. La stessa sentenza ha rigettato, invece, il ricorso solo nella parte in cui il ricorrente chiedeva, altresì, copia dei criteri, posti in essere dal Comitato di Valutazione, in quanto erano stai pubblicati sul sito Web della Scuola. In buona sostanza, su quest’ultimo aspetto il giudice ha ritenuto che il Dirigente Scolastico abbia già ottemperato alla trasparenza dovuta ad una Pubblica Amministrazione.
La sentenza, come pure il parere, del 13 luglio scorso, della “Commissione per l’accesso ai documenti amministrativi” della Presidenza del Consiglio dei Ministri, non fanno altro che rafforzare quanto la scrivente continua da mesi a sostenere attraverso i contributi professionali, in risposta ad una situazione davvero paradossale che purtroppo si sta registrando in alcune scuole d’Italia.
Così, come più volte si è avuto modo di sottolineare, anche il citato TAR (sez. terza Bis) evidenza la fondamentale importanza dell’art. 97 della Costituzione che esige che la Pubblica Amministrazione agisca secondo il principio del “buon andamento e dell’imparzialità”.
Nella sentenza si legge che “giova premettere, preliminarmente, che la normativa sull’accesso ai documenti amministrativi (L. n. 241/1990) ha il medesimo ambito di applicazione dell’art. 97 della Costituzione e riguarda tutti gli atti riferibili all’amministrazione, non rilevando la loro disciplina sostanziale pubblicistica o privatistica”.
Aspetto questo rilevante, in quanto ha consentito al giudice amministrativo di accogliere il ricorso non solo relativamente alla documentazione relativa al procedimento di concessione del bonus, ma anche relativamente ai destinatari e agli importi, dichiarando illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione e concedendo, di contro, il diritto all’accesso agli atti.
Probabilmente, la confusione in merito da parte di alcuni Dirigenti Scolastici, che continuano a pensare di avere una “discrezionalità assoluta”, deriva dal fatto che il bonus non è contrattabile in quanto prerogativa dirigenziale.
Ma la non derogabilità del bonus per via pattizia non significa assolutamente che la sua assegnazione o non assegnazione da parte del Dirigente Scolastico debba essere sottratta a tutte quelle norme, compreso le stesse prescrizioni della L. 107/2015 (criteri, comitato di valutazione, motivazione, trasparenza, ecc) che l’ordinamento italiano prescrive attraverso la Carta Costituzionale, le leggi e i regolamenti.
Anzi, i Dirigenti Scolastici che, senza alcuna motivazione valida, negano l’accesso agli atti, dimenticano forse che, nella fattispecie, le scelte illegittime potrebbero addirittura configurarsi come “abuso d’ufficio”, un reato previsto dall’art. 323 del codice penale italiano.
Insomma, se prima della riforma su “La Buona Scuola”, la materia era regolata unicamente da quanto contenuto nelle norme contrattuali, la L. 107/2015 ha cambiato completamente la posizione del Dirigente Scolastico che, per violazione di norme di legge o di regolamento, ha una responsabilità diretta nello “svolgimento delle proprie funzioni” o del “proprio servizio”.
Preme a chi scrive ricordare che, tra l’atro, sarebbe forse opportuno non abusare della prassi del “silenzio-dissenso” che, pur essendo previsto dalla norma, va calato nei diversi casi e nei diversi contesti. Ciò perché si potrebbe corre il rischio di mettere in atto il caso di “omissione d’atto d’ufficio” che si configura a fronte di una mancata risposta. Questo reato è imputabile se, una volta trascorsi 30 giorni da una richiesta, non si abbia ancora ottenuto alcuna risposta, né delle giustificazioni per il ritardo. In sostanza, il silenzio potrebbe anche trasformarsi in “omissione” se la richiesta viene formulata sotto forma di diffida formale ed ignorata.