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Editoriale Aprile 2015

Il capitale umano che serve al Paese

di Antonio Errico

Capitale umano significa creature, esistenze, intelligenze, conoscenze, competenze, personalità che possono portare pensieri nuovi, storie nuove, che possono rinvigorire, rigenerare la cultura, l’economia, i significati di una società. Il capitale umano è la condizione – l’unica condizione – che può garantire la crescita, lo sviluppo, il progresso. Se manca il capitale umano, non ce ne può essere nessun altro; se manca il capitale umano, non ci possono essere prospettive, progetti, orizzonti. Senza la messa a frutto del capitale umano, c’è solo la stagnazione, la crisi perenne.
L’Italia ha un capitale umano inutilizzato, dissipato, dice il Censis nell’ultimo rapporto. Ecco: dissipato. Senza dubbio ognuno di noi giudica male chiunque dissipi un capitale. Lo giudica quantomeno sprovveduto, incosciente. Ma noi non giudichiamo questo Paese. Semplicemente perché è il nostro. Semplicemente perché per questo Paese proviamo un sentimento di affetto, di amore, e per affetto, per amore vorremmo che cambiasse la sua condizione che a volte ci turba, altre volte ci preoccupa, altre ancora ci angoscia; per affetto e per amore vorremmo che non si trovasse nella situazione rappresentata dal rapporto Censis. Quasi 8 milioni di persone non utilizzate, dice; 3 milioni di disoccupati; 1,8 milioni di inattivi; 3 milioni di persone che, pur non cercando attivamente un impiego, sarebbero disponibili a lavorare. I giovani hanno una “fragilità patrimoniale e di reddito” che trasforma le spese per l’affitto, il condominio, le bollette, l’imprevisto in una sorta di incubo: risparmiano su tutto, finanche sull’essenziale; dipendono dalle famiglie, si mantengono con la pensione dei nonni. Dice il Censis che su 4,7 milioni di giovani che vivono autonomamente, più di un milione non riesce ad arrivare alla fine del mese. Un mese dura quindici giorni; certe volte anche di meno. Un Paese che non consente ai giovani la possibilità di un progetto, di un investimento a breve, medio o lungo termine si impoverisce, inevitabilmente, si oscura, declina. Nessuno di noi vuole questo. Non ci può essere nessuno che da questo possa trarre un qualche vantaggio. Allora ci si chiede che cos’è che non ha funzionato; ma, dopo aver formulato la domanda, si intuisce che è troppo tardi, che probabilmente è anche inutile cercare di darsi una risposta. Gli errori sono stati sicuramente tanti, si sono ripetuti nel tempo, e con il tempo si sono aggrovigliati a tal punto che adesso è troppo difficile, forse impossibile sbrogliare la matassa. Conviene non pensarci più e ricominciare. Con una visione nuova, con processi nuovi, con una nuova considerazione del capitale umano. Che forse significa, prima di tutto, recuperare il significato profondo del termine umano, caricarlo di un valore assoluto, interpretarlo con i criteri della possibilità soggettiva come risorsa strategica, dell’entusiasmo, della potenzialità creativa, della prospettiva di innovazione, della qualità delle relazioni. Però, perché questi significati possano trasformarsi in esiti concreti, occorre che si dia a tutti ed a ciascuno la possibilità di farne esperienza, di praticarli. Dunque, perché si possa fare esperienza, si possano praticare molti di questi significati, c’è bisogno di farli agire in situazioni significative dell’esistenza. Il lavoro costituisce una delle più significative situazioni dell’esistenza. Probabilmente è soltanto attraverso il lavoro che si evita la dissipazione del capitale umano. Allora quei numeri riferiti dal Censis devono necessariamente cambiare; i termini inutilizzato, disoccupato, inattivo devono essere cancellati dal vocabolario reale, si devono trasformare in arcaismi, in spiacevole memoria di un tempo scuro. I contesti della politica, dell’economia, dell’impresa, della cultura, della formazione non possono che assumere come impegno prioritario quello di attribuire un valore autentico al capitale umano. Certo, ognuno per le funzioni e le competenze e le responsabilità che ha, per quanto può, per come può, ma con un progetto comune e condiviso, con una convergenza di intenzioni e di azioni. Possibilmente senza dispersione di energie. Possibilmente senza improvvisazioni. Questo è un tempo di emergenza, lo sappiamo. Che dura da tanto, anche. Si sta procedendo rattoppando, per quanto è possibile, un tessuto lacerato. Però poi si dovrà pensare e costruire un sistema strutturato con canali di accesso al mondo del lavoro liberi da ingombri, con agevoli processi di inserimento, di qualificazione, di riqualificazione, di costante motivazione, di riconversione e di mobilità virtuosa fra i diversi settori, di promozione delle personalità, delle conoscenze, delle competenze. Senza lasciare indietro nessuno, senza lasciare nessuno fuori.
Ogni abitante di questo Paese farebbe capriole di felicità se fra qualche anno si accorgesse che parole come dissipazione, inutilizzazione, inattività, precarietà, disoccupazione non appartengono più a nessun rapporto, a nessuna realtà.

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Immagine di copertina di
Giulia Manco – 5 B
IISS “Pietro Colonna” – Galatina (LE)
Liceo Artistico – Indirizzo Audiovisivo e Multimediale

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