L’articolo di Rita Bortone, che proponiamo in “ribattuta”, uscì sulle pagine di “Scuola e Amministrazione” nel marzo 2011. Dopo dieci anni rimane attuale. E non è una buona notizia
di Rita Bortone
Il libro, il quadro
“La scuola funziona ancora così: l’insegnante fa lezione, gli allievi ascoltano, prendono appunti; a casa studiano sugli appunti e sul libro; la volta dopo l’insegnante interroga per vedere cosa hanno studiato. Semplice. Si chiama scuola. Si è chiamata scuola, fino a oggi (da domani non so)….
… Ho spiegato l’Iliade, tutti i passi in antologia. E’ così. E’ il mio mestiere. Mi può venire bene o male, a volte viene meglio e a volte peggio, è come recitare: non è uguale tutte le sere, lo spettacolo cambia. Dipende anche molto dal pubblico. Comunque è il mio mestiere, è una cosa che so fare e mi piace. I ragazzi mi guardano. Attenti, partecipi. L’Iliade li affascina. Mi seguono. Per un’ora, due. Sono ragazzi buoni, pazienti. Non è vero che non sono interessati a niente. D’altronde, con Omero, come si fa a non venir travolti? Gli dei, gli eroi, la poesia, il mito…Sono contenta: Soddisfatta. Mi sembra che il mondo funzioni, e che io abbia una mia utilità. Io spiego, loro ascoltano. Bene.
Solo che poi li interrogo.
Che ci posso fare? La scuola, lo ridico, è questo: l’insegnante spiega, l’allievo studia, l’insegnante interroga e l’allievo ripete. C’è anche dell’altro, naturalmente, non temete: si discute, si scherza, si parla di tante cose. Ma il nucleo-base resta questo qua. E’ la scuola fondata sullo studio. Tutto normale. Il mondo (scolastico) va (ancora) così”.
Questo alle pagine 22 e 23 di “ Scusate il disturbo- Saggio sulla libertà di non studiare” di Paola Mastrocola, professoressa e scrittrice.
Ancora, a pagina 33, leggiamo:
“… Non studia, dice la madre, non ha voglia.
Lo so, rispondo, mi è evidente.
Ma perché?
Lo chiede la madre a me, lo chiedo io alla madre.
Nessuna delle due sa rispondere all’altra.
Eppure è questo il problema della scuola oggi. Inutile pensare a riforme strabilianti, investimenti generosi che ricoprano di denaro le scuole. Il denaro non è il punto, purtroppo. Inutile anche pensare a rivoluzioni copernicane dei saperi e dei metodi d’insegnamento, a miracolosi corsi di formazione per insegnanti, a futuri maestri superman, eroi di super-motivazione, novelli Orfei capaci di motivare allo studio anche le pietre e le bestie feroci e le foglie degli alberi che si muovono al vento. Il vero problema è che i nostri giovani, almeno quelli che vanno al liceo, non hanno nessuna voglia di studiare”.
Dal libro si potrebbe trarre un ampio e gustoso florilegio, ma non renderebbe comunque l’idea della efficace e potente ironia descrittiva dell’autrice. L’ho letto tutto d’un fiato, divertendomi, arrabbiandomi e soffrendo. Terribilmente fedele alla realtà. O almeno ad una parte della realtà, quella di un liceo scientifico di una grossa città con utenza medio-alta, papà e mamma professionisti impegnati e palestrati, agi economici e doppia o tripla casa.
In primo piano i ragazzi: moda, consumo, linguaggio, motorini discoteca cellulari, ottundimento da internet, da iPod e iPad; e la stanchezza inerte e muta all’interrogazione, il pensiero sconnesso, la lingua sconnessa, e la totale estraneità allo studio, elemento di disturbo in una vita globalmente interessata ad altro.
Un po’ sfocate ma ben riconoscibili le famiglie: le aspirazioni borghesi e il liceo d’obbligo per il titolo e per l’immagine, il rapporto formale con la scuola, il distaccato interesse per l’esito scolastico dei figli e la comprensiva accondiscendenza al “non studio”, lo strutturale ricorso alle lezioni private, il weekend in vacanza.
Sullo sfondo la società dei consumi e della comunicazione: i centri commerciali e gli outlet, i computer aperti anche al ristorante per giocarci mentre mamma e papà parlano con gli amici, il mito del successo, il trionfo dell’incompetenza, i percorsi facili, l’apologia diffusa del “non studio”.
E al centro una Scuola pubblica che non ha più ragion d’essere perché della cultura non gliene importa niente a nessuno, e che precipita essa stessa verso il vuoto culturale per le colpe congiunte di Italia ed Europa, di ministri e genitori, di intellettuali e imprenditori, di studenti non studianti e di pervasive tecnologie destrutturanti.
Infine le colpe della Storia: il quarantennio dei donmilanismi e dei rodarismi, dei principi presuntamente democratici, dei dilaganti progressismi di destra e di sinistra; il quarantennio che ha distrutto progressivamente lingua e pensiero, spianando la strada alla barbarie tecnologica, danneggiando masse ed élite, costruendo il vuoto culturale.
Quindi l’auspicio: che i giovani, “in un mondo che li vezzeggia, li compatisce e ne alimenta ogni giorno il vittimismo, con un gesto coraggioso e rivoluzionario si riprendano la libertà di scegliere se studiare o no, sovvertendo tutti gli insopportabili luoghi comuni che da almeno quarant’anni ci governano e ci opprimono” (risvolto di copertina).
Mea culpa
La mia vita professionale è stata (ed è tuttora) il condensato di tutte le colpe. Laureata con soddisfazione in lettere classiche, rifiutai la proposta di restare all’Università perché volevo insegnare. Le circostanze mi portarono nella Media (anni ‘70) e ne rimasi coinvolta fino a rinunciare all’incarico nelle Superiori, per cui pure avevo conseguito le abilitazioni. Da insegnante, ho creduto che una scuola per tutti potesse servire al Paese e alle persone, ho amato don Milani e Rodari ed altri soggetti altrettanto pericolosi per la cultura del Paese; ho ritenuto mio dovere, ed è stato mio grande piacere, imparare a insegnare; ho ritenuto mio dovere conoscere le diverse scuole metodologiche per poterne utilizzare consapevolmente e criticamente gli indirizzi; mi sono costruito le strategie adatte a coinvolgere i miei alunni e a far cogliere il senso possibile dei diversi contenuti disciplinari anche a chi, per provenienza sociale o per caratteristiche personali, non aveva dimestichezza col pensiero astratto né facilità di accesso ai saperi formali; ho cercato la verifica di quel che facevo nei grandi nomi delle scienze cognitive, cercando di capire almeno un po’ come funzionano i processi di apprendimento che ritenevo mio compito e mia responsabilità guidare; ho ri-studiato le mie discipline d’insegnamento per smontarle e rimontarle a fini didattici.
Quando decisi di fare la preside, lo decisi con l’idea di poter “insegnare agli insegnanti ad insegnare”. E così ho vissuto tutti gli anni della mia dirigenza. Sono stata attenta ad ogni riforma e ne ho sempre sostenuto e praticato, indirizzando il lavoro degli insegnanti, un’attuazione non ideologica, convinta che anche una legge non buona possa creare occasioni di studio e promuovere nuovi significati se si ha un’idea di scuola chiara e supportata da chiari principi pedagogici e sociali. Per questo sono stata attaccata da destra (quando ho sperimentato Berlinguer) e da sinistra (quando ho sperimentato Moratti), ma non me ne sono crucciata più di tanto. Con gli insegnanti abbiamo lavorato molto, ma abbiamo avuto molte gioie: la nostra “utenza”, originariamente quella di un quartiere medio-basso della città, si è arricchita via via di alunni provenienti dalle classi “colte”, figli di docenti universitari, di professionisti illuminati, di genitori attenti alla cultura dei propri figli. Di destra o di sinistra, si sentivano garantiti dal mio modo di dirigere la scuola e dal modo in cui i “miei” insegnanti formavano i loro ragazzi.
Nelle scuole superiori, i nostri alunni più bravi prendevano voti molto alti, anche nei licei più severi e nelle materie più difficili; i meno bravi, che noi avevamo licenziato con sufficienze risicate e che avevano scelto professionali o tecnici, spesso venivano gratificati, in quegli istituti, con voti che mai avevano meritato nella nostra poco generosa scuola media.
Oggi, in pensione da quattro anni, nella mia attività di formatrice provo ancora ad “insegnare agli insegnanti ad insegnare”: ci provo, anche se so bene che molte forze sono ostili alla loro qualificazione professionale.
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