• domenica , 22 Dicembre 2024

Aboliamo i voti?

di Rita Bortone

Un processo tormentato

Quando la Gelmini introdusse la valutazione in decimi e il voto al comportamento nella scuola del primo ciclo, in molti gridammo e scrivemmo note molto critiche immaginando quello che sarebbe accaduto: atteggiamenti ipervalutativi, utilizzo del voto come strumento contrattuale, medie aritmetiche e pratiche di ponderazione, prevalenza della valutazione sommativa su quella formativa. La Gelmini poi inventò anche quella bella trovata che consentiva ai Consigli di classe di portare i quattro a sei in sede di valutazione finale, e così si toccò il fondo della insensatezza pedagogica e della falsità valutativa.
Le ragioni che erano alla base di quella scelta (eravamo nel 2008) erano strumentalmente e ideologicamente ricondotte, da Gelmini e Tremonti (che qualcuno diceva ispiratore e coautore della scelta stessa), alla tortuosità ed alla ambiguità dei giudizi (di sinistra) attraverso i quali la scuola del primo ciclo (di sinistra) esprimeva la propria valutazione sugli alunni: tutta colpa del quarantennio (di sinistra) che da don Milani in poi aveva rovinato la scuola pubblica italiana, promuovendo ignoranza diffusa, valutazioni poco trasparenti, “promozioni” immeritate (tutto di sinistra).
Le cose sono andate come sappiamo, e sinistra o destra o centro, si sono messi voti a tutto spiano, si sono calcolate medie aritmetiche e medie ponderate, si sono portati a sei tanti quattro per poter promuovere alunni che si riteneva di dover promuovere nonostante i quattro.
Nel frattempo, riguardo alla valutazione, sono cambiate altre cose.
Invalsi ha consolidato le proprie pratiche valutative nelle scuole e, da soggetto che monitora il sistema, è andato lentamente trasformandosi in soggetto che concorre alla valutazione degli alunni (vedi prova esami di Stato). L’esito delle prove Invalsi è diventato per le scuole una sorta di incubo con cui confrontarsi annualmente e le esercitazioni volte al superamento dei test Invalsi hanno impegnato tempi e risorse degli Istituti dei diversi ordini, tant’è che le Indicazioni per il curricolo nella scuola del primo ciclo hanno dovuto esplicitamente segnalare la necessità di scoraggiare l’addestramento alle prove Invalsi. Tuttavia, il modello nazionale di autovalutazione recentemente introdotto nelle scuole (RAV) segnala che, in moltissimi Istituti d’Italia, uno dei primi punti di criticità è rappresentato dall’insoddisfacente posizionamento della scuola rispetto allo standard dei risultati Invalsi: da ciò coerentemente deriva che uno dei primi obiettivi di miglioramento dei medesimi Istituti (PDM) è rappresentato dal conseguimento di una migliore posizione nelle graduatorie Invalsi.
Intanto nelle scuole di ogni ordine e grado è arrivato il boom delle competenze, e con esso la necessità di introdurre nuove pratiche valutative, oltre a quelle già in uso, per accertare conoscenze e abilità. E’ arrivato il boom delle rubriche valutative, dei compiti di realtà, delle prove di prestazione, con la necessità di accertare e valutare la presenza e il livello di apprendimenti complessi e contestualizzabili. Ed è arrivata anche la consapevolezza che i principi di equità, omogeneità, attendibilità, trasparenza indicati dalla norma (122) e attribuiti alla responsabilità dell’Istituto (anch’essi richiesti dal RAV) impongono somministrazioni di prove per classi parallele e standardizzazione di pratiche e criteri, con la necessità di una formalizzazione di atti e procedure che la vecchia valutazione individuale e soggettiva non richiedeva.
Cosa accade nelle scuole
Coerentemente con queste trasformazioni, quest’anno molte scuole hanno progettato percorsi di formazione collegiale centrati sulla valutazione delle competenze. Nelle attività di formazione, però, ho dovuto presto constatare la impossibilità di affrontare il tema richiesto senza recuperare i “prerequisiti mancanti”. In molte scuole cioè si affrontava il tema della valutazione delle competenze senza aver affrontato prima sia la natura della competenza, le modalità attraverso cui essa si manifesta, gli “ingredienti” che la compongono, la complessità dei fattori che la determinano, la didattica che può esser funzionale al suo sviluppo, sia la struttura, la funzione e gli strumenti della valutazione stessa. In molte delle scuole che ho frequentato, la valutazione si identificava con pratiche individualmente definite, con prove centrate su conoscenze e suggerite dai libri di testo, con criteri adottati per intuizione o per imitazione e spesso privi di consapevolezza del lessico utilizzato (preso in prestito da pratiche viste o orecchiate), dei sistemi di punteggio, delle caratteristiche cognitive del compito assegnato.
In altre scuole, più volenterose e aggiornate, la lettura (spesso scomposta e affrettata) di autorevoli testi sulla pratica valutativa evidenziava l’assenza di pregresse riflessioni e interpretazioni personali, nonché la sovrapposizione inconsapevole di parole diverse con significati analoghi (indicatori e descrittori sovrapposti ad evidenze e ancore, Vertecchi e Castoldi citati ma sovrapposti e confusi tra loro).La pratica adottata, in questi casi, costruita artigianalmente per assecondare le nuove parole d’ordine e le richieste del RAV (compiti di realtà, prove parallele), mostrava segni di ipertrofia di materiali, di griglie, di discipline intrecciate, di esuberanze e di incoerenze, di abissali distanze semantiche tra letteratura e pratica agita, tra didattica e valutazione, tra obiettivi perseguiti ed esiti attesi.Gli insegnanti comunque vogliono capire, vogliono cimentarsi, vogliono sperimentare. Ascoltano con interesse le comunicazioni teoriche per condividere concettualità e lessico; partecipano con impegno a laboratori mirati alla costruzione di prove di prestazione e di strumenti di osservazione; poiché i tempi in presenza non bastano, chiedono di essere tutorati a distanza; producono materiali, esigono correzioni e integrazioni, chiedono spiegazioni….Poi si sentono appagati e felici dei loro prodotti: ne vedono la complessità e la faticosità, ne sperimentano i punti di forza (Così davvero si valuta tutti allo stesso modo. Così davvero si richiedono abilità diverse e integrate. Così davvero si coinvolge l’alunno nel suo stesso processo. Così si scoprono aspetti diversi e insospettabili degli stessi ragazzi! Quel ragazzino che prendeva 10 nello studio oggi è rimasto indietro, non se l’è saputa cavare! Quel ragazzino svogliatello e impertinente ce l’ha messa tutta, si è divertito, ha fatto benissimo!), ma ne scoprono gli aspetti critici (Dove metteremo il voto della prova? I registri non sono adatti!. Ma la rubrica deve essere concepita in modo da poter ricondurre le diverse informazioni alle diverse discipline! Ma se la competenza va valutata con livelli, anche la prova va valutata con livelli? E come facciamo a “fare media” mettendo insieme i livelli della prova di prestazione e i voti delle conoscenze e delle abilità? E come facciamo a fornire a ciascun alunno i testi che servono per la prova se la scuola non ha i soldi per fare le fotocopie?)
Sperimentano, gli insegnanti, e vogliono chiacchierare su come hanno reagito i ragazzi, sono pronti a costruire un’altra prova.
Li metto in guardia, segnalo che non è possibile costruire e somministrare frequentemente prove così complesse e rigorose, che richiedono tanto tempo ed energia nella costruzione, nella condivisione, nella somministrazione, nella raccolta dei dati. Dico che i compiti di realtà e le prove di prestazione sono una logica, un modo di costruire la propria didattica, non solo la propria valutazione. Dico che la prova da somministrare a classi parallele richiede rigore e condivisione, ma che da soli, in classe, si può inventare ogni giorno un compito di realtà, una piccola prova di prestazione, per svilupparle, le competenze, prima che per valutarle!
E questo, infatti, è ciò che mi turba: guardo con gioia gli insegnanti che scoprono, interpretano, variano, si cimentano, riprovano, conquistano, crescono. Ma guardo con preoccupazione gli insegnanti che burocratizzano, applicano, si adeguano, ripetono, copiano, deformano, svuotano di senso, smarriscono il vecchio senza trovare il nuovo. Non è colpa loro, lo so, o non è solo colpa loro, ma costituiscono un pericolo perché riducono le istanze di rinnovamento a quell’applicazione, a quell’obbedienza, a quell’adeguamento.
Quest’anno molte scuole hanno anche progettato percorsi di formazione centrati sulla certificazione delle competenze. Gli insegnanti hanno analizzato il modello nazionale nella sua logica complessiva e nei singoli nuclei da certificare; hanno rilevato punti di forza e di criticità del modello (peraltro già oggetto di sperimentazione in molte scuole d’Italia), hanno avuto modo di acquisire logiche, tecniche e strumenti per accertare e documentare la presenza e il livello delle competenze indicate. Insomma, intorno alle pratiche valutative e certificative si è lavorato molto, nelle scuole.
Cambiare di nuovo: via i voti!
Oggi nell’aria c’è un nuovo cambiamento. Un cambiamento che intende correggere e migliorare l’esistente, certamente, ma che imporrà alle scuole, ancora una volta, di rivedere i propri strumenti, di aggiornare il proprio documento valutativo, di adeguare il proprio lessico, di costruire nuove procedure. Ricominciamo dunque a parlare di valutazione, ma proviamo a riflettere sui problemi sottesi e irrisolti, prima ancora che sulle pratiche che dovremo adottare.
Cito due documenti che mi sono sembrati importanti in tempi più o meno recenti.
Il primo risale ad alcuni mesi fa: la Rete “Scuole Senza Zaino per una scuola comunità” lanciava la campagna “Togliere il voto per aggiungere”, rivolgeva un appello al Governo per l’abolizione del voto numerico nel primo ciclo d’istruzione e invitava dirigenti, docenti e genitori a condividere e sostenere la campagna sottoscrivendo la petizione (www.senzazaino.it).
Condivido diverse affermazioni di quel documento: Quando introduciamo competizione, tensione verso il risultato, disuguaglianze per gradi di prestazione, classificazioni, divisioni, neghiamo in pratica il diritto delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi al piacere di apprendere, di star bene con gli altri, di imparare ognuno con i propri tempi facendo quel che può. (…). Se utilizziamo la valutazione per costringere, intimidire, giudicare, confrontare (gli alunni), produciamo e distribuiamo feedback valutativi che sostanzialmente si traducono in giudizi su se stessi e sul loro valore come persone (…). Togliere il voto significa sostenere invece la motivazione intrinseca degli studenti attivando le condizioni per il loro senso di controllo e di scelta, per incontrare compiti sfidanti ma non minacciosi, per divenire autonomi nello studio, nei compiti, nella responsabilità scolastica e nell’autovalutazione fin dalle prime classi della scuola primaria. (…).
Condivido cioè tutte le affermazioni che partono da principi pedagogici e mirano a promuovere una concezione formativa della valutazione (peraltro sottolineata dalle Indicazioni per il curricolo).
Nonostante io ami Mario Lodi, non mi sento invece in sintonia col pensiero di Mario Lodi espresso nel documento: La scuola la vorrei senza pagelle e con tante cordiali chiacchiere con i genitori, perché, alla fine, invece di una bella pagella, si abbia un bel ragazzo, cioè un ragazzo libero, sincero, migliore comunque. Non mi sento in sintonia perché il pensiero citato evoca una scuola ed una comunità educativa forse vagheggiabili allora, ma che ora sono impensabili (quali chiacchiere cordiali con i genitori? Quali sintonie educative e valutative?); non mi sento in sintonia perché sembra contrapporre la bella pagella e il bel ragazzo, quasi che le due cose fossero antitetiche, e infine perché sembra bypassare il problema dell’aspetto sociale della valutazione e del confronto dell’esito individuale con uno standard socialmente condiviso.
Il secondo documento è un interessante articolo di Giancarlo Cerini, Valutazione formativa: solo restyling?, pubblicato il 28 giugno da edscuola.it, in cui si propone una riflessione sui possibili cambiamenti ipotizzati dal cantiere ministeriale anche in merito alla eliminazione del voto in decimi.
Nel primo ciclo un criterio di riferimento per la valutazione in itinere (suggerito anche dalle Indicazioni vigenti, DM 254/2012) dovrebbe essere la “progressione degli apprendimenti verso traguardi attesi e definiti”, in cui coniugare l’attenzione ai percorsi personali degli allievi con l’obiettivo di stimolare il raggiungimento di standard di apprendimento fondamentali, nel corso degli otto anni di scolarità di base. Un protocollo operativo nazionale dovrebbe descrivere gli standard progressivamente attesi, con livelli crescenti, che solo a maglie larghe corrispondono giuridicamente alla classe scolastica frequentata.
Questo fa propendere per il superamento del voto in decimi, in favore di una scala più semplice (es: 5 livelli – magari sintetizzati dalle lettere A-B-C-D-E – cui far corrispondere descrizioni di livelli di progressione), e del superamento della “bocciatura”, cui preferire misure di differenziazione/compensazione durante l’intero anno/ciclo scolastico. E’ evidente che la sostituzione dei voti in decimi con le lettere alfabetiche (o aggettivi sintetici) di per sé non cambia la natura della valutazione, tuttavia impedisce di trattare i “voti” come oggetti matematici, su cui operare medie aritmetiche. L’espressione di un giudizio (valutazione) diventerebbe così il frutto di un apprezzamento più ampio (della semplice media aritmetica), basato su dati, informazioni, tendenze (misurazione), da interpretare con riferimento al percorso del singolo allievo ed ai risultati attesi per tutti.
Invece, il valore sommativo/certificativo della valutazione, nel doppio momento dell’esame di stato e della certificazione delle competenze, dovrebbe essere riferito al termine del primo ciclo (terza media, ma secondo alcuni esperti, al termine del biennio superiore), facendo invece risaltare il valore formativo/conoscitivo della valutazione lungo l’intero percorso dell’obbligo scolastico.
Il discorso mi sembra di estrema importanza, non tanto per i vantaggi immediati che deriverebbero dalla eliminazione del voto e dalla sua sostituzione con giudizi o lettere alfabetiche (superamento della concezione aritmetica della valutazione, ampliamento degli sguardi valutativi all’interezza ed alla peculiarità della persona, maggiore rilevanza della funzione formativa della valutazione rispetto a quella sommativa), quanto per la opportunità, offerta da un simile cambiamento, di riflettere su problemi mai risolti e su ambiguità persistenti, e di inquadrare i ragionamenti all’interno di visioni che, se non possono trovare concreta attuazione in tempi brevi, possono tuttavia indicare direzioni di scelta per un futuro non troppo lontano.
Un problema irrisolto: valutazione formativa o sommativa, processi o esiti
Il primo problema sul quale credo che vada fatta chiarezza, al di là dei numeri o delle lettere, è la modalità con cui coniugare la valutazione del processo di apprendimento (ottica formativa) con la valutazione dell’esito dell’apprendimento (ottica sommativa).
La valutazione formativa, lo sappiamo tutti, ha il doppio scopo di sostenere e orientare l’alunno nel suo processo globale di apprendimento e sviluppo, e di aiutarlo a costruire gli strumenti di realizzazione del traguardo atteso. Per perseguire efficacemente questi scopi, si ispira a principi psicopedagogici, promuove immagini positive del sé e vissuti di autostima e di autoefficacia, riconosce e rispetta tempi e stili di apprendimento, gratifica i successi più che rilevare gli insuccessi. Pone il ragazzo in rapporto col sé di prima e col possibile sé futuro. E’ una valutazione “buona” anche quando rimprovera, quando esige.
La valutazione sommativa invece ha interesse per il traguardo raggiunto e per il livello al quale è stato raggiunto, più che per il processo del suo raggiungimento; ha interesse a collocare l’esito individuale in scale socialmente riconosciute, a codificare livelli oggettivamente riconoscibili. E’ una valutazione “cattiva”, che si interessa del quanto e non del come, dimenticando le ragioni della persona.
La prima è uno strumento pedagogico, la seconda è uno strumento sociale. La prima pone l’alunno in rapporto col sé, la seconda pone l’alunno in rapporto con standard ampi, locali o nazionali. La prima cura l’integrità dello sviluppo e l’equilibrio dei processi. La seconda cura la trasparenza, l’attendibilità, la funzionalità sociale. La prima può essere sfumata e mediata dalla morbidezza di discorsi pedagogici. La seconda deve esser mediata da linguaggi chiari, inequivocabili, funzionali.
Quando la valutazione formativa e la valutazione sommativa si scontrano, quando cioè un processo positivo non riesce ad evitare un esito negativo (insufficiente in rapporto ad uno standard di riferimento), la tentazione frequente è quella di edulcorare la realtà (amara) dell’esito in nome di una pedagogica tutela dell’equilibrio del processo. Ne nascono valutazioni distorte e socialmente inaccettabili.
Penso che il problema richieda d’essere affrontato con chiarezza, ma penso anche che non possa esser risolto praticando una valutazione formativa nel corso del curricolo ed una valutazione sommativa al termine dei segmenti curricolari. Penso che non si eviterebbero i rischi di valutazioni sommative distorte in nome di principi pedagogici, e che non sarebbe comunque positivo per l’allievo ignorare a lungo il proprio posizionamento in rapporto agli standard richiesti.
Se la valutazione in itinere risponde ad una funzione formativa e orientativa insieme, e se l’orientamento e l’autorientamento implicano la conoscenza, da parte del soggetto, della meta da raggiungere, e delle mappe che guidano il cammino, ma anche del proprio posizionamento rispetto alla meta, allora la valutazione in itinere non potrà fare a meno di indicare all’allievo la meta e di fornirgli le bussole, ma non potrà neanche fare a meno di segnalargli via via il suo posizionamento rispetto alla meta, attraverso la valutazione/autovalutazione del proprio esito individuale in rapporto agli standard.
Mi sembra cioè che certamente alla perentorietà ed alla crudezza del voto sono preferibili la discrezione e la mitezza delle lettere, ma penso anche che non sarà la scelta della scala e dei simboli a dare risposta alle domande pericolosamente aperte e prive di risposte univoche sul territorio nazionale: se finora è rimasto aperto e privo di risposta univoca l’interrogativo “cosa ci mettiamo dentro al voto?”, sarà poca cosa vederlo trasformare nell’eventuale nuovo interrogativo: “cosa ci mettiamo nella lettera?”. Una risposta valida sul territorio nazionale sarebbe molto utile.
Proviamo dunque a formulare delle ipotesi.
Prima ipotesi di risposta: con la lettera indichiamo, nei momenti valutativi istituzionalmente codificati, l’esito via via raggiunto dall’allievo in rapporto ad uno standard definito a livello nazionale (funzione sommativa delle lettere). Nel corso delle attività e per la valutazione formativa non usiamo le lettere, ma libere aggettivazioni.
Seconda ipotesi di risposta: con la lettera indichiamo, nei momenti valutativi istituzionalmente codificati e nel corso delle attività curricolari, il processo dell’allievo e la qualità prestazionale ottenuta in rapporto a se stesso, al suo livello di partenza, alle sue risorse (funzione formativa delle lettere).
Terza ipotesi di risposta: con la lettera indichiamo, nei momenti valutativi istituzionalmente codificati e nel corso delle attività curricolari, un po’ di esito e un po’ di processo, ovvero lo stato della competenza (e della qualità prestazionale) posseduto dall’allievo in un determinato momento in rapporto ad uno standard, ma valutato anche alla luce del percorso compiuto dall’allievo e delle risorse da lui impegnate (funzione sommativa/formativa delle lettere).
Quarta ipotesi di risposta: nel corso delle attività curricolari, con la lettera indichiamo il processo dell’allievo e la qualità prestazionale ottenuta in rapporto a se stesso, al suo livello di partenza, alle sue risorse (funzione formativa delle lettere). Al termine dei micro e macrosegmenti (quadrimestrali, annuali), indichiamo con due lettere distinte il processo (qualità prestazionale ottenuta in rapporto al proprio percorso) e l’esito (stato della competenza posseduto in rapporto allo standard).
L’ipotesi di risposta che più mi piace è la quarta: la prima è selettiva e non riconosce la rilevanza del processo personale; la seconda valorizza il processo personale, ma dimentica il bisogno sociale di trasparenza, di uniformità e di attendibilità del giudizio; la terza (peraltro già sperimentata dalla scuola italiana in vecchie schede) mi sembra che produca una comunicazione ambigua ed un’attribuzione soggettiva del giudizio. La quarta mi sembra che risponda ai bisogni dell’alunno (e della famiglia) di conoscere e apprezzare il cammino che va percorrendo, ma anche d’esser consapevole del proprio progressivo posizionamento rispetto alla meta (rispetto agli standard di riferimento); mi sembra inoltre che risponda ai bisogni sociali di trasparenza e di chiarezza comunicativa.
Questioni di descrizione dei livelli e di bocciature nella scuola dell’obbligo
Gelmini e Tremonti, come abbiamo già detto, vollero i voti in decimi contro i giudizi con cui si identificava la pratica valutativa di allora e, per sostenere la loro scelta politica, fecero ricorso ad argomenti generalmente inaccettabili (marcatamente ideologici e privi di qualsiasi consapevolezza pedagogica e storica).
Tuttavia, occorre riconoscere che quei giudizi, prodotto di tutta una serie di balletti valutativi e di costruzione/rivisitazione di diversi tipi di schede, rispondevano certamente al lessico ed alla intenzionalità di una valutazione formativa e proattiva, ma certamente non brillavano per trasparenza, per attendibilità, per omogeneità di criteri sottesi, per efficacia comunicativa, neanche quando furono ingabbiati in format precostruiti da completare con aggettivazioni anch’esse precostruite sulla base di attente gradazioni semantiche.
Per i ragazzi brillanti, la descrizione veniva giù facilmente. Il problema nasceva per i ragazzi che non brillavano affatto, i cui giudizi dovevano esser concepiti in modo da dire e non dire, descrivere la realtà sul loro stato di preparazione ma non descriverla troppo, segnalare le carenze ma legittimare la “promozione”.
Ciò accadeva per due motivi: un approccio privilegiatamente pedagogico alla pratica valutativa, centrata sull’osservazione del processo e non sull’esito dell’apprendimento (per evitare il rischio di massicce operazioni selettive); lo stretto legame tra valutazione e ammissione/non ammissione dell’allievo alla classe successiva e/o agli esami di Stato.
Penso che se lo Stato ti obbliga ad istruirti e a venire a scuola, è perché per tua volontà non lo faresti. Quindi significa che è lo Stato (la scuola) che deve farti piacere l’istruzione. E’ chiaro che deve anche far maturare la tua consapevolezza e la tua responsabilità relativamente all’istruzione, ma importi di venire a scuola perché tu, per tua volontà, non vuoi istruirti e poi bocciarti perché appunto dimostri che non vuoi istruirti sembra un controsenso. In parole povere, penso che la bocciatura nella scuola dell’obbligo sia una contraddizione in termini. Nella nostra scuola dell’obbligo, pur sorretta teoricamente da grande cultura pedagogica, la bocciatura ha rappresentato per lunghi anni (la Scuola Media diventò obbligatoria nel ‘62) lo strumento sostanziale, se non unico, per relazionarsi (spaventare, minacciare, punire) con chi non aveva voglia di studiare o non assumeva i modelli comportamentali richiesti. Per lunghi anni la nostra fu una scuola obbligatoria ma selettiva. Quando la dispersione e l’abbandono diventarono fenomeni socialmente gravi, fu necessario intervenire, anche per allinearsi con le politiche europee. Per arginare gli insuccessi formativi e le dispersioni di vario tipo, in verità sarebbe stato necessario riqualificare la professionalità degli insegnanti e costruire diverse modalità del fare scuola: insegnare a ragazzi che dalle 4 di mattina fino alle 8 di sera avevano seguito le pecore al pascolo era cosa ben diversa dall’insegnare ai Pierini figli del dottore (don Lorenzo Milani, da Gelmini e Tremonti visto come nemico della cultura nazionale, con l’esperienza di Barbiana aveva appunto segnalato le pericolose contraddizioni di una scuola che diventava obbligatoria, ma che conservava i contenuti e i metodi della scuola selettiva rivolta ai figli di papà!).
Ma, mentre la 517 e la pratica della individualizzazione didattica rimanevano principi enunciati, si intervenne invece, e a più riprese, sulla pratica valutativa: e cominciò la stagione delle schede che, tra processi ed esiti e riquadri e lettere, tendevano a promuovere pratiche valutative non selettive.
Ne nacquero valutazioni e giudizi che erano il frutto delle profonde contraddizioni interne al sistema: la scuola di base era obbligatoria ma conservava strumenti didattici (contenuti e metodi) e valutativi (la ripetenza) tipici delle scuole selettive. Conservava l’istituto della ripetenza, ma non voleva bocciare per non promuovere i fenomeni della dispersione e dell’abbandono. Non voleva bocciare e non voleva la dispersione e l’abbandono, ma non costruiva condizioni e strumenti (organizzativi, professionali, finanziari) per interventi compensativi o per didattiche differenziate.
L’unico sistema per salvare capra e cavoli senza grossi impegni politici e finanziari era mascherare gli insuccessi e garantire la ammissibilità di tutti all’anno scolastico successivo: non attraverso percorsi di reale promozione culturale, ma attraverso apposite modalità e forme valutative.
Anche oggi, forse, discutiamo di numeri e di lettere perché non vogliamo, o non possiamo, o non sappiamo, aggredire i problemi di sostanza.
Mandiamo dunque a casa i voti, e mi va bene. Reintroduciamo le lettere, e mi va bene. Ma per evitare le ambiguità che già abbiamo vissuto, affrontiamo almeno due questioni:
a) definiamo a livello nazionale il contenuto delle lettere e il senso dei livelli che esse indicano: se la descrizione delle lettere dovrà riferirsi al processo dell’alunno e se dovrà rispondere a criteri autonomamente definiti dai singoli Istituti, staremo punto e a capo, grotteschi déjà vu. Se invece le lettere corrisponderanno a standard di livello definiti e descritti a livello nazionale, forse le scuole si sentiranno più responsabili della attendibilità delle proprie pratiche valutative;
b) eliminiamo la ripetenza e sleghiamo la valutazione dall’ammissione/non ammissione: penso che migliorerebbe il comportamento del docente sul piano sia valutativo che didattico. I giudizi non avrebbero più ragione d’essere falsati, la motivazione ad apprendere dovrebbe esser cercata nei modi di fare scuola e non nella pratica del ricatto (se non studi ti boccio); ma penso che cambierebbe anche l’atteggiamento dell’alunno nei confronti del suo stesso percorso: sarebbe molto più formativo, per lui, sapere che il suo impegno non inciderà sui tempi del percorso, ma sulla sua formazione reale, e che questa sarà certificata ineluttabilmente al termine del percorso; sarebbe molto più formativo, per lui, sapere che non ripeterà l’anno perché non ne esiste la possibilità istituzionale, non perché i professori alla fine portano avanti chiunque.
Una ricerca aperta
Cambiare i numeri in lettere migliora qualcosa, ma non basta né a garantire percorsi valutativi psicologicamente e pedagogicamente corretti, né ad arginare carenze ed insuccessi.
Nell’articolo già citato Giancarlo Cerini osserva che i livelli standardizzati a livello nazionale non necessariamente dovrebbero corrispondere a definite classi. E la cosa mi sembra molto interessante.
Ridurrebbe comunque – così mi sembra – le ragioni della ripetenza, ma renderebbe necessari interventi politici forti su aspetti di sistema complessi e spinosi: la flessibilità del modello organizzativo, la professionalità docente, le condizioni di una efficace differenziazione dell’offerta, la pratica autovalutativa del sistema, la disponibilità di risorse interne ed esterne…
In assenza di tali interventi, l’idea rischierebbe ancora una volta – così mi sembra – di incidere sulla pratica valutativa senza migliorare la pratica didattica e la formazione degli alunni.
Ma intanto proiettiamoci su ciò che è fattibile nell’immediato. Poi cercheremo ancora…

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