• giovedì , 21 Novembre 2024

I colori della cultura

Da Leopardi ai social, tra realtà e rappresentazione

 

di Maria Vittoria Montedoro*

Quando frequentava la scuola dell’infanzia, una bambina non usava i colori, eseguiva i disegni solo in bianco e nero. Sua madre, preoccupata per quelle figure mai colorate, chiese alla maestra i possibili motivi di quel comportamento. Le fu risposto che, se una bambina guarda normalmente la tv a colori, non ritiene necessario usarli per rappresentare il mondo, perché le immagini sono già confezionate e assimilate nella sua mente. Il mondo vero, per lei, è quello televisivo.

Quella bambina ero io. Crescendo, ho pensato e ripensato tante volte a quell’episodio, ogni volta in modo più approfondito. Mi sono chiesta allora quante e quali possano essere le influenze delle quali non sono consapevole, quanti giudizi abbia maturato, quante scelte abbia potuto fare ingannata da un colore, da un’apparenza bugiarda, da un particolare subdolo. Ho cominciato a chiedermi quale possa essere la differenza tra la realtà e la sua rappresentazione. L’influenza dei mezzi di comunicazione sulla nostra cultura è enorme, incalcolabile: la nostra società, in continua crescita e trasformazione, desidera un’informazione immediata, a portata di smartphone. Così anche il modo di veicolare le informazioni muta continuamente. Uno spropositato numero di siti web e social, uniti insieme, costituisce un universo mediatico nel quale è difficile orientarsi: eppure da lì deriva gran parte del nostro patrimonio di informazioni, e le nostre opinioni e le nostre decisioni ne sono fortemente condizionate.

Ogni mezzo di comunicazione ha una sua storia, una sua specificità, una sua struttura, un suo linguaggio. Di per sé, nessuno di essi può essere definito a priori buono o cattivo. Un libro cartaceo non è necessariamente più attendibile di una pagina Facebook, così come un giornale può pubblicare più notizie false di un blog. Certo, la carta stampata è soggetta a maggiori controlli, è più regolamentata, ha una tradizione, è firmata. Sui social, la tendenza è quella di postare video in cui si esprime la propria opinione riguardo a problemi di rilevanza sociale, quali, ad esempio, la questione degli immigrati o i matrimoni omosessuali.

Ma spesso coloro che lanciano in rete i messaggi non si rendono conto dell’impatto reale delle loro parole o immagini.

Di tanto in tanto spuntano video omofobi o razzisti che, se da una parte ricevono un’accoglienza negativa, dall’altra trovano sostenitori convinti. Ma questo non vuol dire che tutti i social siano deleteri. Basta visitare la pagina Facebook di due ragazzi siciliani, I Sansoni, che, oltre a proporre gag recitate da due fratelli svampiti, affrontano temi scottanti, come la recente pubblicazione del libro del figlio di Totò Riina. In un breve filmato, i due giovani denunciano il lato oscuro di una televisione che, pur di aumentare l’audience, è disposta, in nome dell’imparzialità dell’informazione, a regalare pubblicità a uno dei più spietati criminali mafiosi, attraverso l’uso improprio di una biografia.

Di qui la necessità di un uso pedagogico, costruttivo della cultura nei confronti dei mezzi che la veicolano, dei singoli che se ne appropriano, delle istituzioni che con essa si interfacciano. «La lotta alla mafia deve essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire il fresco profumo della libertà», affermava Paolo Borsellino. Insieme a Giovanni Falcone, si era prefissato l’obiettivo di sconfiggere la mafia applicando la legge, e per questo entrambi entrarono nel mirino di chi li riteneva scomodi e pericolosi. Quando i loro attentatori li fecero saltare in aria, l’uno a pochi mesi dall’altro, l’onda d’urto provocata dal tritolo fu poca cosa rispetto all’impatto emotivo suscitato dalle immagini di quelle stragi che documentavano devastazione, morte, smarrimento. I giornali pubblicarono articoli che sembravano solenni necrologi  di eroi caduti, il clima di apparente rassegnazione sfociò nella rabbia, nella volontà di riscatto non solo dei siciliani, ma di un’Italia intera, che ancor oggi si commuove nel guardare la foto dei due magistrati che, sorridenti, si scambiano una battuta che non conosceremo mai. Quella foto, scattata dal fotoreporter Tony Gentile, era stata già proposta al Giornale di Sicilia, che l’aveva scartata e che solo dopo l’attentato a Falcone venne pubblicata su tutti i giornali, diventando così un’icona della lotta alla mafia. Il potere dei media risiede in questo: persino una singola foto può risvegliare le menti dormienti dei cittadini e avere una ricaduta positiva sull’opinione pubblica.

È forse per questo che gli articoli sulla mafia, da allora, hanno adottato uno stile più pungente, e il tema, trattato da tutti i media, viene rielaborato in forme diverse, tutte accomunate dallo spirito di testimonianza civile, di denuncia, di solidarietà verso le vittime, di protesta contro lo Stato inerme. Il cinema socialmente ‘impegnato’ degli anni Sessanta (ad es., i film di Francesco Rosi o di Lina Wertmüller) ha trovato nuovi alfieri in una nuova generazione di registi, che affronta l’argomento con inedite sfide narrative. Pensiamo alla novità introdotta dalla serie tv La mafia uccide solo d’estate.

Luca Ribuoli è il primo ad aver raccontato la realtà mafiosa con gli occhi di un bambino, con un linguaggio ingenuo, curioso e a volte involontariamente ironico, come può esserlo a quell’età, che irride alla mafia.

Dietro questa scelta si cela, ovviamente, un messaggio chiaro, intenzionato a mettere in crisi una mentalità purtroppo ancora viva: la rappresentazione ‘eroica’ del mafioso, un modello da ammirare e emulare.

La scuola è il luogo dove bambini e ragazzi vivono una realtà parallela a quella ipermediatica dell’extra-scuola. Certo, la scuola usa i media, accanto agli strumenti didattici più tradizionali, anche per sensibilizzare le giovanissime generazioni sulle grandi emergenze sociali del nostro tempo (educazione interculturale, prevenzione delle dipendenze, lotta all’illegalità). Intenzione apprezzabile, certo ma, se ci poniamo in un’ottica critica, queste pratiche potrebbero essere interpretate come un segno di debolezza e di ipocrisia dell’intero sistema, che affida all’educazione scolastica la coltivazione dei valori morali più elevati, mentre non combatte a fondo l’illegalità diffusa nel  Paese. La scuola dovrebbe insegnare – e in parte lo fa già – a decodificare, se non a smascherare, le finzioni cui fanno ricorso i media per persuadere ad un acquisto, ad aderire ad un’opinione, ad esprimere un voto. Certo, bisogna vedere quando e come si affontano certi argomenti, e come vengono filtrati da milioni di  studenti. Di un autore si possono conoscere vita, morte e miracoli, ma se non riusciamo ad avvicinarlo alla nostra vita, non  riusciamo a fare vera cultura. Un esempio? Il Sabato del villaggio di Giacomo Leopardi, che può essere letto sia come un quadretto di vita paesana alla vigilia festiva che come una delle più angosciose denunce dell’infelicità umana. Nei ricordi degli studenti, il poeta di Recanati sarà destinato a sopravvivere come un isolato, che dalle finestre del suo palazzo si rattrista davanti alle vicende esistenziali. Ma Leopardi ha scritto un’opera che di solito a scuola non si studia, il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, di straordinaria attualità. Se sostituiamo al termine ‘costumi’ la parola ‘cultura’, ancora oggi non possiamo non condividere molte delle osservazioni leopardiane.

Lettore di giornali e di riviste, Leopardi constata come l’opinione pubblica abbia rimpiazzato l’etica, come il comune sentire abbia sostituito la morale.

Ma, affinchè  una società sia ben strutturata, cioè coesa, occorre che i cittadini sentano propria la legge, in altre parole la assumano come cultura ‘propria’. In Italia – afferma Leopardi – è venuto meno ciò che rende le leggi idonee ad essere intese come condivise regole di comportamento nei rapporti quotidiani. Mentre le abitudini possono tramandarsi meccanicamente, i costumi esigono un’assunzione di responsabilità. Leopardi individua i motivi della perdita dei vecchi e dell’acquisizione dei nuovi valori della società del suo tempo. Ma oggi, quali sono i valori ai quali si ispira attualmente l’opinione pubblica in un mondo sommerso dalle voci più discordanti, dalle immagini più contraddittorie, dai suoni più frastornanti?

L’illegalità, in Italia, non è prerogativa solo di una minoranza ben organizzata, ma si avvale di una rete di complicità, di omertà e di disimpegno civile. I nodi e le maglie che costituiscono questa rete sono costituiti, per esempio, da coloro che scendono in campo contro un gasdotto, ma che non hanno mai mosso un dito contro l’abusivismo edilizio nelle stesse zone; dai ‘furbetti’ del cartellino, da quelli che  lucrano sulle necessità primarie delle persone, da quelli che costruiscono edifici senza rispettare le norme, che sfruttano il lavoro esponendolo anche ai rischi della mancanza di sicurezza. Insomma, da quanti non posseggono una ‘cultura’ della convivenza civile.

La cultura produce e, nello stesso tempo, esprime una mentalità. Prendiamo un altro problema che si presenta periodicamente: la produttività del sistema scolastico, sotto accusa non solo per i carenti risultati nella comprensione, ma anche per gli esiti nella produzione linguistica. Lo ha fatto di recente un folto gruppo di docenti universitari, rche negli scritti degli studenti ha riscontrato svarioni ortografici, grammaticali e sintattici allarmanti (“da terza elementare”). Non lo metto in dubbio. Ma quello che forse sfugge ai cattedratici è che non si tratta di errori semplicemente tecnici, ma di modi di rappresentazione della realtà. La confusione tra passato e presente denuncia lo smarrimento del senso storico, la mancanza della percezione dei passaggi graduali nel tempo. L’abolizione strisciante del congiuntivo sembra testimoniare la scomparsa della possibilità, del desiderio, della fantasia. Le frasi brevi, in parallelo, senza congiunzioni, scorrono come immagini, una dopo l’altra, senza un nesso logico, come accade spesso nei video. La povertà del linguaggio usato corrisponde ad una nuova forma di povertà, che rinuncia a fare della lingua uno strumento di piena espressione di sé. I termini più ‘astratti’, quelli più ricchi di significato, lasciano il posto a parole ed espressioni banali, legate al quotidiano concreto. Responsabilità dei nuovi media? Della scuola? Della società nel suo complesso?

Certo, la tv, i social, i media più sofisticati stanno uccidendo la fantasia delle persone, confinandole in un mondo in cui credono di essere a contatto con tutti, ma nel quale si riducono i rapporti e l’empatia con l’altro, con il prossimo.

I mezzi di comunicazione sono una perfetta fonte di distrazione dalle angosce esistenziali. Noi ne traiamo conforto come un credente dalla sua fede, o un tossico dalla droga; sfuggendo alle problematiche di noi stessi, diventiamo vulnerabili a quelle sociali. Per questo molti giovani sono completamente estranei alle vicende politiche del nostro Paese, ma più in generale soffrono di un distacco dalla società che li circonda, considerata troppo problematica per essere affrontata. Molto meglio restare chiusi nelle proprie case con uno schermo riflettente attaccato agli occhi, mentre fuori il mondo scorre con le sue storture e le sue ingiustizie.

La bambina cresciuta ora vuole usare i colori. Non quelli chiassosi, quasi psichedelici, indotti dalle sensazioni multimodali e artificiali. Vuole servirsi dei colori della cultura.

 

*Maria Vittoria Montedoro

mavimontedoro99@gmail.com

Classe 4ª AL – Liceo Scientifico-Linguistico “G.C. Vanini” Casarano (LE)

Docente referente: Maria Rosaria Palumbo

maria.rosaria.palumbo@alice.it

 

Bibliografia, sitografia e filmografia

E. Raimondi, La società “società stretta”. La letteratura e i costumi degli italiani, in L’avventura dell’Italia. Risorgimento e unità nazionale, Milano-Torino, 2011, pp. 64-73.

G. Solimine, Senza sapere. I costi dell’ignoranza in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2013.

La mafia uccide solo d’estate, regia di Luca Ribuoli, 2016

Fabrizio e Federico Sansone (fb: I Sansoni )

 

 

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