di Antonio Errico
Un gioco delle sedie. Il progresso è diventato una sorta di “gioco delle sedie” senza fine e senza sosta, “in cui un momento di distrazione si traduce in sconfitta irreversibile ed esclusione irrevocabile. Invece di grandi aspettative di sogni d’oro, il ‘progresso’ evoca un’insonnia piena di incubi di ‘essere lasciati indietro’, di perdere il treno, o di cadere dal finestrino di un veicolo che accelera in fretta”. Così scriveva Zygmunt Bauman nelle prime pagine del suo Modus vivendi.
Zigmunt Bauman, classe 1925, è morto a Leeds, il 9 gennaio scorso.
Un gioco delle sedie. Così il progresso, da promessa di felicità universalmente condivisa, si è trasformato in minaccia di un cambiamento inesorabile e ineludibile che, invece di promettere pace e sviluppo, non preannuncia altro che crisi e contrasti continui.
Nessuno può avere dubbi sul fatto che il progresso della scienza, della tecnica, della tecnologia, della medicina, della fisica consenta un benessere e una qualità della vita che sono davvero imparagonabili anche solo con quella di cinquant’anni fa. Nessuno può fare a meno di ringraziare chi ha costruito questo progresso.
Ma il problema è determinato dal fatto che il progresso ha lasciato indietro intere zone del mondo e la loro gente, mentre in altre zone dilaga il superfluo. Non solo: anche nella parte di mondo in cui la condizione di progresso sconfina nell’eccedente esiste una differenza fra chi ha e chi non ha la possibilità culturale ed economica di avvalersi delle situazioni e degli strumenti che il progresso mette a disposizione.
Se può sembrare ingenuo, semplicistico, naÏf, pensare che qualsiasi tipo di progresso dovrebbe innanzitutto promuovere e agevolare un’uguaglianza sociale, non abbiamo nessun timore di sembrare ingenui, semplicistici, naÏf. Anzi, è un’ingenuità che consideriamo come un onore. Vogliamo essere ingenui e pensare e dire che se il progresso mette a disposizione un medicamento o uno strumento per curare, da quel farmaco, da quello strumento, deve poter trarre un beneficio chiunque: in qualsiasi parte del mondo, in qualsiasi angolo di un qualsiasi borgo.
Se, invece di creare uguaglianza, apre baratri di differenze, provoca o aggrava le forme di emarginazione, lascia indietro qualcuno, allora a nessuno può essere impedito di pensare che quel progresso tecnicamente perfetto è umanamente uno schifo.
Ingenuamente, semplicisticamente, uno si chiede: com’è che il progresso ci ha portati sulla Luna, ci induce a tentare di arrivare a Marte, ma non riesce a portare l’acqua dove l’acqua non c’è, a costruire gli ospedali dove ospedali non ce ne sono, le scuole dove ci vogliono le scuole? Si chiede se sia più complicato di un viaggio sulla Luna, se costi tanto di più da essere costretti a rinunciare.
La globalizzazione ha raggiunto il punto di non ritorno, diceva Bauman. Ciascuno di noi dipende dall’altro, ciascun altro dipende da noi. Per la prima volta nella storia dell’uomo “l’interesse personale e i principi etici di rispetto e aiuto reciproco puntano nella stessa direzione e richiedono la stessa strategia”.
Senza una comune direzione, una comune strategia, la globalizzazione può fare paura.
Non c’è bisogno di sfogliare il catalogo delle paure postmoderne che Bauman ha compilato ne La società dell’incertezza per rendersi conto delle condizioni di insicurezza con cui ci si ritrova a convivere ininterrottamente. Poi, forse conviene anche ricordare la sua affermazione secondo la quale la versione postmoderna dell’incertezza non si presenta come un semplice fastidio temporaneo che può essere mitigato o risolto; “il mondo postmoderno si sta preparando a vivere una condizione di incertezza permanente e irresolubile”. Sono passati quindici anni da quando Bauman scriveva queste cose. Ci siamo, dunque.
Però, alla fine, Bauman confessa, con soddisfazione, il proprio ottimismo. A conclusione di un’intervista apparsa sul Messaggero il giorno dopo la sua morte, diceva: “ Ma io, a dispetto di tutto, sono ottimista. Per un motivo molto semplice: neppure i paesi più ricchi e sviluppati possono davvero credere di sopravvivere a un conflitto mondiale che li veda opposti alla maggioranza povera e disperata degli abitanti del pianeta”.
Noi si spera che quel ragazzo con i capelli bianchi e spettinati di novantuno anni avesse ragione. Si spera con tutta la ragione e con tutto il cuore.