• martedì , 16 Luglio 2024

Il sapore del sapere

di Antonio Errico

 

pensiero. conoscenza, sapereSe un acino d’uva s’ingoia in una volta sola, il sapore dell’uva non si può sentire. L’acino lo si deve assaporare, lentamente, lasciare che si sciolga, lentamente, che il succo s’impasti nella bocca, che arrivi fino al sangue.

La stessa cosa vale per la conoscenza; perché sia conoscenza sostanziale, c’è bisogno che le cose penetrino lentamente nel pensiero, che s’infiltrino nel tessuto delle cognizioni, che si trasformino in espressioni di cui si serve l’esistenza, che riescano a farsi esse stesse espressioni di un’esistenza.

La conoscenza ha bisogno di una sapiente lentezza, per poterne sentire il sapore.

Ma noi con la conoscenza abbiamo, ormai da tempo, una relazione costretta alla velocità, alla voracità. Si ingoia tutto senza assaporare, tutto quello che ci capita, senza distinzione, senza metterlo in rapporto con quello che già conosciamo, senza costituirlo come condizione di quello che non sappiamo ancora e che potremo sapere.

Conoscere ed esistere sono diventate due distinte situazioni. Al limite, il conoscere si rivela solo funzionale, anzi strumentale ad una sbrigativa quotidianità, alla soluzione di problemi immediati;  non è un fatto che modifica il nostro modo di pensare, di agire, di essere, di guardare il mondo, di interpretare i suoi fenomeni e le sue storie. Non può, perché il suo succo non ci arriva fino al sangue. Si acquisisce conoscenza con velocità; forse la si disperde con la stessa velocità. Senza sedimentarla e rielaborarla. Senza che ci appartenga.

La velocità con cui ci confrontiamo con le cose da apprendere non ha nulla che riguardi il concetto e la dimensione della rapidità di cui diceva Italo Calvino in una delle sue fantastiche “Lezioni americane”. Calvino fondava il ragionamento in particolar modo sulle caratteristiche della rapidità del pensiero e dello stile, precisando che la velocità mentale vale per sé, per il piacere che provoca in chi è sensibile a questo piacere e non per l’utilità pratica che si possa ricavarne.

La velocità come consumo del conoscere, invece, si presenta con una fisionomia identica a quella con la quale si presenta ogni elemento della contemporaneità. Esiste una coerenza, certamente.

Tra la frenesia, l’ansia, la vertigine incessante con cui si vive e il nostro modo di conoscere esiste una coerenza. Siamo angustiati da urgenze, a volte vere, a volte false, da impegni che consideriamo sempre inderogabili, da scadenze che ipotizziamo senza scampo, per cui attribuiamo al sapere un valore soltanto se in qualche modo ci solleva un poco dall’angustia degli impegni, ci apre un varco nell’assedio delle scadenze, fornisce ad una nostra domanda una risposta quale che sia, non importa se giusta, se sbagliata.

Allora si fa la ricerca su internet. Con uno sguardo veloce alla pagina si individua  quello che  serve in quel luogo preciso,  in quell’ora  precisa.  Bisogna benedire internet.  Però bisogna pure riconoscere che ha avuto e continua ad avere una funzione essenziale nella modalità che abbiamo acquisito di metterci in relazione con la conoscenza. Internet ha costruito un metodo, ha strutturato un processo di apprendimento che si qualifica essenzialmente come risposta pragmatica alle urgenze. Internet non ha colpa, non c’entra niente. Siamo noi che abbiamo applicato indiscriminatamente a tutte le situazioni le stesse modalità, che abbiamo scelto di impigrire il pensiero con la comodità delle operazioni veloci anche quando la velocità non si doveva applicare ad un certo oggetto del sapere perché azzerava o comunque limitava la qualità dell’apprendimento. Per esempio: se si ha necessità di verificare l’orario dei treni, se si vuole trovare una legge, un’ordinanza, un decreto, internet va bene e sia dunque benedetta. Ma non va bene se si vuole scendere nei significati della poetica montaliana. Però si usa internet anche per questo.  In un saggio che si intitola Elogio della lentezza, Lamberto Maffei, direttore dell’Istituto di Neuroscienza  del Cnr, presidente dell’Accademia dei Lincei, sostiene che il desiderio di emulare le macchine rapide create da noi stessi, a differenza del cervello che invece è una macchina lenta, diventa fonte di angoscia e di frustrazione. La netta prevalenza del pensiero rapido, a partire da quello che esprimiamo attraverso l’uso degli strumenti di-gitali, può comportare soluzioni sbagliate, danni all’educazione e perfino al vivere civile.

Il sapere che deve restare e risultare elemento che genera significati nuovi, pretende lentezza; ha bisogno di maturare attraverso il dubbio, l’indugio, la ponderazione. E’ una necessità del pensiero che intende analizzare i concetti, mettere a confronto diversi elementi, attribuire a quello che si apprende la valenza di una condizione della crescita, stabilire una sintonia con le esperienze che ci riguardano,  riflettere, meditare sul senso delle cose, sulla loro importanza, sull’incidenza che hanno nel farsi dei nostri destini.

Ma nei processi di conoscenza, velocità e lentezza possono anche trovare una conciliazione.

Svetonio attribuisce all’imperatore Augusto questa espressione: festina lente. Affrettati lentamente. Italo Calvino la riprende ricordando il delfino che guizza sinuoso intorno ad un’àncora che Aldo Manuzio imprimeva sui frontespizi, e la farfalla con il granchio nella raccolta di emblemi cinquecenteschi di Paolo Giovio.

Cosimo de’ Medici usò il motto come simbolo della sua flotta, associandolo all’immagine di una tartaruga con la vela: la prudenza nell’impresa.

La lentezza è il metodo che consente l’approfondimento, e senza approfondimento non ci può essere conoscenza. Forse ci può essere una immediata e superficiale informazione. Siamo diventati turisti nei territori del sapere. Siamo come quelli che entrano in un museo e nel tempo di un’ora scorrono con velocità tutti gli oggetti che capitano sotto i loro occhi, senza soffermarsi su nessuna figura, su nessun colore, senza nessuno sforzo di comprendere il frammento, i movimenti di una statua, l’origine di un reperto.

Il veloce attraversamento del museo non gli lascia niente, se non immagini sovrapposte, confuse, sfilacciate, disorganiche, disarticolate. Ogni oggetto del museo possiede una storia che non ha potuto raccontare, che non ha potuto lasciare in eredità. Perché coloro che passavano andavano così veloci da non potersi fermare ad ascoltare. Da non potersi concedere il privilegio di conoscerla.

 

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