Compitare e studiare
di Mario Melino
(già dirigente tecnico dell’USR per la Puglia)
«Volli, e volli sempre, fortissimamente volli»
Vittorio Alfieri (1749-1803), ripercorrendo la storia della sua vita, racconta gli anni giovanili trascorsi nello studio e si sofferma a descrivere quali effetti gli procurasse, in particolare, la lettura delle Vite parallele di Plutarco: il “bollore” che gli tendeva i muscoli, il “forte sentire” che gli scuoteva l’animo, l’entusiasmo per qualcosa di grande che gli eccitava la fantasia … e lo scorrere vorace di quelle pagine «con un tale trasporto di grida, di pianti, e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato. All’udire certi gran tratti di quei sommi uomini, spessissimo io balzava in piedi agitatissimo, e fuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia scaturivano» (1). Così Alfieri, «giovanilmente plutarchizzando», immerso nello studio dei grandi che lo modella nel profondo, avverte il forte impulso e la chiara coscienza che non si sarebbe mai concesso ad una Musa «venduta all’autorità dispotica» che aborrisce «caldamente»(2).
Sicuramente Alfieri avrà messo più di una punta di esagerazione letteraria nella descrizione della sua immersione cognitiva e affettiva nello studio; ed è altrettanto sicuro che qualunque madre odierna, sentendo il figlio studiare nella stanza accanto con lo stesso “trasporto” del grande astigiano, chiamerebbe sotto casa l’ambulanza. Anzi, molti padri e madri – premurosi e preoccupati per la “felicità” dei propri frugoletti – starebbero molto attenti ad allontanare da quelle tenere creaturine ogni remota causa di possibile fatica, frustrazione e turbamento.
Il problema è reale: compitare, studiare, impegnarsi a casa dopo la scuola ha senso o è uno spreco inutile? Anzi, dannoso?
Le proteste non sono mai mancate: periodicamente genitori, insegnanti innovatori, esperti, opinionisti, giornalisti, scrittori … prendevano posizione ieri e continuano a schierarsi oggi sul web con un esercito di follower, associazioni, coordinamenti, gruppi professionali … elencano pareri autorevoli e contro-argomentazioni inoppugnabili per avanzare petizioni al Ministero e protestare per un sistema che perpetua l’aberrazione culturale e pedagogica del compito a casa, un fossile da libro Cuore, un residuo autoritario ottocentesco, uno strumento di tortura e reclusione domestica anacronisticamente sopravvissuto nella patria di Cesare Beccaria. Insomma, una mostruosità che il cinismo istituzionale non teme di portare al culmine, continuando ad imporre pratiche sadiche e maniacali, come i compiti per i weekend e le vacanze.
Le argomentazioni sono efficaci come aforismi scolpiti sul marmo (3); i compiti a casa sono: inutili perché le nozioni ingurgitate attraverso lo studio domestico per essere rigettate a comando (interrogazioni, verifiche …) hanno durata brevissima … non lasciano il “segno”, solo labili tracce; dannosi perché procurano disagi e sofferenza agli studenti già in difficoltà, ne accrescono l’odio per la scuola e la repulsione per la cultura; discriminanti perché avvantaggiano chi avvantaggiato già lo è e svantaggiano i deprivati, peggiorandone anche la situazione di ingiustizia; prevaricanti perché ledono il diritto al “riposo” e allo “svago” sancito dalla Dichiarazione Internazionale dei Diritti dell’Infanzia (art. 24); impropri perché impegnano a casa i genitori in un ruolo docente che non compete loro, per non parlare poi della perversa ipocrisia di sostituirsi al figlio; limitanti perché ostacolano tutto ciò che costituisce un’alternativa migliore (musica, sport …); stressanti perché la gran parte dei “litigi” tra genitori e figli concerne proprio lo svolgimento dei compiti, che altresì sottrae quel tempo libero prezioso che potrebbe essere trascorso insieme «serenamente»; malsani perché impongono zaini pesantissimi per la salute dei piccoli.
Impostata così la natura del problema, diventa difficile dissentire: è la descrizione di tutto quello che i compiti non dovrebbero essere. Il compito a casa ha costruito un mondo intorno a sé semplicemente orribile, fatto di frustrazioni, ingiustizie, rinunce, minacce alla pace familiare e alla salute dei piccoli … Il cavallo di Troia è penetrato nelle mura di casa e ha devastato tutto. Basterebbe allora cacciarlo fuori per restituire un apprendimento efficace e duraturo (che lasci “il segno”), perché gli studenti in difficoltà non siano più inutilmente oppressi e trovino la compensazione di cui hanno bisogno per tornare ad amare lo studio e la cultura, perché finalmente ci sia uguaglianza nelle opportunità tra avvantaggiato e svantaggiato, perché i genitori siano genitori e gli insegnanti siano insegnanti senza sovrapposizioni indebite di ruoli, perché nelle famiglie torni la pace tra genitori e figli, felicemente insieme in un tempo libero vissuto con “serenità”. Basterebbe abolire i compiti a casa per risanare la scuola di tutti i suoi malanni e la famiglia delle sue crisi? Perché una soluzione così semplice viene ignorata da decenni? Possibile che la questione si riduca tutta a compiti a casa “sì o no”?
Chiediamoci con semplicità: fare i compiti significa studiare o si tratta di un’altra cosa? Stando all’etimologia, compitare (“computare”, ovvero calcolare, sillabare) significa leggere lentamente, pronunciare separatamente i suoni di cui sono formate le parole. Il compitare del bambino alle prese con il faticoso esercizio dell’imparare a leggere e a scrivere è il primo vero ingresso nel mondo dello studio, ossia in un sistema organico fatto di acquisizione di abilità sociali, comportamenti di lavoro e abilità di “studio” che gli consentono di progredire negli apprendimenti e organizzare un proprio, stabile sistema di conoscenze. Fare i compiti è funzionale a tutto questo o non serve a niente?
Il problema, nella nostra prospettiva, è se lo studio sia ancora un’attività cognitiva e affettiva indispensabile agli studenti per crescere e formarsi.
Dalla Net Generation all’App Generation
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