Le ultime scoperte delle neuroscienze e la necessità di ripensare la didattica delle lingue
di Antonio Giuseppe Lupo
Abstract
Secondo le attuali teorie neuroscientifiche, nei primi anni di vita, grazie ai meccanismi della memoria procedurale e implicita, si accede in modo naturale e non consapevole all’acquisizione della lingua materna e di una seconda lingua, fino al termine del cosiddetto periodo critico (6 anni), dopo il quale comincia a indebolirsi la ricettività e la sensibilità all’apprendimento simultaneo delle lingue. Di fondamentale importanza risulta perciò il ruolo dell’età, come si può evincere dalla letteratura specifica sull’argomento.
Da 0 a 3 anni
Due significanti per lo stesso significato, due codici linguistici concomitanti, sotto la cui superficie opera lo stesso sistema centrale. Le ricerche svolte in ambito neuroscientifico e neuropsicologico sulle modalità di apprendimento hanno portato alla comprensione dei meccanismi che regolano e sostengono l’acquisizione delle lingue nei primi anni di vita, un processo che avviene in modo inconsapevole e implicito grazie alla memoria di tipo procedurale. Tale risorsa intellettiva è dovuta alla duttilità cerebrale e ai processi di mielinizzazione e di sinaptogenesi.
Più lento e più debole risulta invece l’apprendimento delle lingue, quando segue un percorso consapevole e formale, come quello che si realizza spesso in ambito scolastico; è il periodo in cui si utilizzano schemi modulati sulla lingua nativa anche nella seconda, motivo per cui “più precoce è l’esposizione alle due lingue, tanto più facile e completa sarà l’appropriazione”.[1] La metodologia didattica da adottare poggia su alcuni presupposti basilari, di carattere ludico e interattivo. Occorre innanzitutto tener presente che i bambini imparano più lingue se hanno necessità di utilizzarle in situazione, se le vivono nell’interazione comunicativa ed emotiva (metodo dell’immersione); ci si avvarrà perciò dell’attenzione congiunta allo sguardo e della loro capacità di associazione, in modo che riescano ad abbinare con facilità parole ed espressioni a suoni e ad immagini, così come personaggi e storie a descrizioni mimate. L’ approccio ludico sarà associato a strumenti audiovisivi al fine di creare e stimolare adeguate inter-azioni, a partire dagli asili nido, secondo una tempistica che preveda preferibilmente una cadenza giornaliera di almeno trenta minuti nelle attività didattiche della seconda lingua.
L’età ottimale, a causa dell’elevato grado di plasticità cerebrale, è perciò quella che va da 0 a 3 anni, anche prima di cominciare a parlare. In tale periodo, l’acquisizione della lingua materna – secondo gli studi specifici – è regolata, in modo non consapevole, dai sistemi della cosiddetta memoria implicita per ciò che attiene alla fonologia, alla morfologia e al lessico, e a quella esplicita per quanto riguarda l’aspetto semantico e il significato delle parole. Successivamente si svilupperanno altri tipi di memoria, come quella relativa alle conoscenze che possono essere descritte verbalmente (dichiarativa), o quella del ricordo di esperienze del passato (episodica). Prima dei 6 anni è infatti difficile appropriarsi efficacemente di informazioni esplicite.
Dai tre anni al periodo critico
Dopo gli anni dell’asilo nido e quelli della scuola dell’infanzia, le risorse cognitive del bilinguismo simultaneo e precoce diventano più lente e più deboli, in quanto l’agilità e la ricettività linguistica dei bambini tende a ridursi nel tempo; tra sei e otto anni termina infatti il cosiddetto periodo critico e minore risulta la rappresentazione della seconda lingua nei sistemi della memoria procedurale .
E’ ciò che hanno potuto recentemente verificare gli esperti attraverso un confronto diacronico in ambedue le lingue tra parole di classe chiusa (gli elementi grammaticali) e parole di classe aperta ( gli elementi semantici), utilizzando una tecnica derivata dall’ elettroencelografia (ERPS).
Gli studi e le ricerche hanno quindi messo in evidenza i vantaggi di carattere neurobiologico e neurolinguistico nell’apprendimento della seconda lingua entro i sei-otto anni, e non dopo gli undici. Un’età, quest’ultima, per lungo tempo ritenuta didatticamente più opportuna, secondo una tradizionale concezione che privilegiava l’insegnamento della seconda lingua dopo lo sviluppo completo della prima.
È ormai assodato che l’insegnamento scolastico formale, soprattutto dopo la pubertà , e dall’adolescenza in poi, procede secondo ritmi di apprendimento meno incisivi e produttivi rispetto a quelli dell’ infanzia, proprio il contrario di quanto si pensava nel secolo scorso, quando radicati erano i pregiudizi sul bilinguismo precoce e infantile.
Contro l’educazione bilingue precoce (uno sguardo al passato)
Nei primi decenni del Novecento, l’apprendimento precoce di una seconda lingua era considerato, da parte di alcuni insegnanti e pedagogisti , con preoccupazione e riserva, a causa della confusione mentale e dei conflitti interiori che ne potevano derivare; proseguendo su questa linea pedagogica, si è giunti a sostenere che la situazione dei bambini bilingui potesse essere così problematica da sfociare in disturbi psichici.
In quel periodo, sulla base di un approccio di tipo grammaticale alle lingue, il linguista danese Jespersen sottolineava – tra l’altro – la difficoltà di raggiungere livelli di conoscenza completa e approfondita (implicita ed esplicita) da parte di bambini bilingui, ritenendo inoltre che l’educazione al bilinguismo finisse col sottrarre risorse e spazio di apprendimento alle altre materie scolastiche.
Partendo dal presupposto che il bilinguismo precoce provocasse un rallentamento dello sviluppo cognitivo, tra gli anni trenta e sessanta del secolo scorso, si sono poi susseguiti vari studi di comparazione tra bambini bilingui e monolingui, attraverso la somministrazione di test specifici, con l’obiettivo di confrontarne i risultati nella lingua nativa ( L1) ed in quella non nativa ( L2 ).
La somministrazione dei test
Nelle verifiche delle competenze linguistiche di alunni bilingui si sono per molto tempo sottolineate le difficoltà espressive, nonché la presenza di errori morfo-sintattici e lessicali, al punto che si era pensato fosse meglio somministrare le prove in una sola lingua, anziché in due; si è però dovuto constatare in seguito che tale scelta non assicurava esiti apprezzabili.
Come è stato messo in risalto negli studi successivi, la problematica era stata affrontata infatti secondo una metodologia errata, a causa della mancata rilevazione di fattori individuali e sociali non adeguatamente tenuti in considerazione, quali l’età, il sesso, le condizioni socio-economiche. Occorreva invece dare il giusto peso a variabili dipendenti dalla provenienza familiare, come il disagio del bambino immigrato bilingue rispetto a quello monolingue di famiglia benestante. Dal punto di vista socio-linguistico, diversa era inoltre la situazione di bambini provenienti da minoranze linguistiche, il cui apprendimento della seconda lingua spesso poteva risultare ostile e, per certi aspetti, imposto “forzatamente”.
Era stata perciò trascurata l’importanza della predisposizione del soggetto bilingue preso in esame, della motivazione personale e del suo atteggiamento verso la seconda lingua.
Non mancavano ulteriori incongruenze ed errori metodologici, appurato che non si teneva in giusto conto l’influenza della lingua nella quale veniva effettuato il test. Certamente decisivo risultava poi il fatto che la valutazione fosse effettuata nell’unica lingua conosciuta dal somministratore dei test, e non in quella materna del bambino, con conseguente sottostima delle sue abilità intellettive. Il problema era quindi nella formazione monolingue dei somministratori, non dei bambini: occorreva un cambiamento di prospettiva.
E’ ciò che avviene a partire dagli anni settanta, grazie agli studi del ricercatore canadese W. Lambert , tra i primi a sostenere i benefici dell’educazione bilingue (inglese-francese), sia a livello verbale che non verbale; cominciano ad essere tenuti così nella giusta considerazione le caratteristiche individuali e i condizionamenti socio-economici. Proprio sotto la sua guida, in seguito alle ricerche condotte dal gruppo di psicologi dell’Università di Montreal, vengono confermati risultati analoghi tra bambini monolingui e bilingui in tutte le materie scolastiche.
In questa direzione sono orientate anche le ricerche linguistiche, pubblicate in quegli anni da R. Titone e G. Francescato, grazie alle quali vengono evidenziati i vantaggi cognitivi ed educativi dell’apprendimento di due lingue, un percorso certamente facilitato in età precoce, fino ai dieci anni. Sulla base di tali studi, un aspetto fondamentale sul quale, da più parti, gli esperti hanno richiamato l’attenzione, rimaneva quello della formazione degli insegnanti; la loro prassi didattica risultava infatti critica e problematica nel momento in cui si dava priorità ad una sola lingua. Non si tenevano presenti le peculiarità cognitive del soggetto bilingue che si destreggia tra due codici linguistici fusi insieme e non sommati, considerato che il bambino bilingue non è mai la somma di due monolingui in una sola testa, come afferma F. Grosjean.
Se in passato si affermava che la seconda lingua dovesse seguire il completamento della prima ( dopo gli 11 anni), è stato perciò chiarito che a quella età il bambino ha già superato la soglia del cosiddetto periodo critico o di maggiore sensibilità alle lingue e perciò di facilitazione del loro apprendimento.
Le risorse psico-cognitive dei soggetti bilingui
Superati i pregiudizi e le falsità del secolo scorso, in ambito neuroscientifico è ormai accertato che non ci sono differenze sostanziali tra soggetti monolingui e bilingui: proprio in questi ultimi, al contrario di quanto si era sostenuto in passato, secondo alcuni studi, aumenta la capacità della funzione esecutiva (pianificazione e controllo del sistema cognitivo); maggiore è inoltre la capacità di attenzione e quella di eseguire contemporaneamente compiti diversi (multitasking). Vengono così a cadere falsi miti, essendo stati riscontrati risultati di pari livello sia nelle due lingue prese a confronto, sia nelle conoscenze delle diverse materie scolastiche, il cui apprendimento, nei casi esaminati, si è rivelato completo e del tutto soddisfacente.
Significativa, a questo proposito, l’esperienza del neurochirurgo W. Penfield, il quale ebbe l’opportunità di confrontare i propri risultati nell’apprendimento delle lingue straniere con quelli dei suoi figli, verificando così i vantaggi cognitivi dovuti alla loro precoce età.
Procedendo su questa impostazione metodologica, nella letteratura sull’argomento vengono ulteriormente sottolineate e specificate le risorse psico-cognitive dei soggetti bilingui, come la maggiore flessibilità mentale nel distinguere tra somiglianze fonetiche e somiglianze semantiche o la competenza nell’affrontare il problem solving e la riorganizzazione delle informazioni.
Alla iniziale e temporanea povertà lessicale dei bambini bilingui durante i primi anni, dovuta al loro sforzo nella selezione delle parole, segue perciò un crescente arricchimento linguistico e mentale.
Passare da un codice linguistico all’altro implica situazioni non unilaterali, ma divergenti: porta infatti ad una pluralità di stimoli, utili ad affrontare e gestire situazioni di “trasferimento” o di “spostamento” da un compito all’altro, nella consapevolezza dell’arbitrarietà del sistema-lingua. Basterebbe tener presente che ogni scelta lessicale comporta una selezione, nonché l’inibizione della componente da escludere, un’opzione con effetti intellettivi di crescente sviluppo cognitivo fin dalla prima infanzia. Ai vantaggi neurologici dell’apprendimento precoce, e a quelli formativi, di sostegno all’apertura mentale e alla diversità culturale, non si può fare a meno di aggiungere quelli pragmatici, che assicurano certamente più chances nel mondo del lavoro.
Ma c’è di più, secondo ricerche recenti (2006), l’iter della bilinguità o del plurilinguismo, che potremmo definire “a due o più corsie”, comporta anche dei vantaggi durante la terza età. Grazie alla “riserva cognitiva” e all’allenamento mentale accumulato nel tempo, si è constatato un ritardo delle malattie cognitive senili, una prevenzione della demenza, del decadimento e dell’atrofizzarsi delle strutture cerebrali. Si tratta perciò di una competenza che, come afferma il neuroscienziato F. Fabbro, nel tempo diventa un “valido strumento per mantenere allenato e giovane il cervello, a conferma che i benefici di una seconda lingua non hanno scadenza”.
Fonti bibliografiche
F .Fabbro Neuropedagogia delle lingue. Come insegnare le lingue ai bambini, Astrolabio,2004
F. Fabbro, Il cervello bilingue. Neurolinguistica e poliglossia, Astrolabio,1996
F. Fabbro, E. Cargnelutti, Neuroscienze del bilinguismo. Il farsi e disfarsi delle lingue, Astrolabio, 2018