• domenica , 22 Dicembre 2024

L’educazione al bilinguismo precoce

Le ultime scoperte delle neuroscienze e la necessità di ripensare la didattica delle lingue

di Antonio Giuseppe Lupo

Abstract

Secondo le attuali teorie neuroscientifiche, nei primi anni di vita, grazie ai meccanismi della memoria procedurale e implicita, si accede  in modo naturale e non consapevole all’acquisizione della lingua materna e di una seconda lingua, fino al termine del cosiddetto periodo critico (6 anni), dopo il quale comincia a indebolirsi la ricettività e la sensibilità all’apprendimento simultaneo delle lingue. Di fondamentale importanza risulta perciò il ruolo dell’età, come si può evincere dalla letteratura specifica  sull’argomento.

Da 0 a 3 anni

Due significanti per lo stesso significato, due codici linguistici concomitanti, sotto la cui superficie opera lo stesso sistema centrale. Le ricerche svolte  in ambito neuroscientifico e neuropsicologico sulle modalità di apprendimento  hanno  portato alla comprensione dei meccanismi che regolano e sostengono l’acquisizione delle lingue nei primi anni di vita, un processo che avviene in modo inconsapevole e implicito grazie alla memoria di tipo procedurale. Tale  risorsa intellettiva è dovuta alla  duttilità cerebrale e ai processi di mielinizzazione e di sinaptogenesi.

Più lento e più debole risulta invece l’apprendimento delle lingue, quando segue un percorso  consapevole e formale, come quello che si realizza spesso in ambito scolastico; è il periodo in cui si utilizzano schemi modulati sulla lingua nativa anche nella seconda, motivo per cui  “più precoce è l’esposizione alle due  lingue, tanto più facile e completa  sarà l’appropriazione”.[1]  La metodologia didattica da adottare poggia su alcuni  presupposti  basilari, di carattere ludico e interattivo. Occorre innanzitutto  tener presente che  i bambini imparano più lingue se hanno necessità di utilizzarle in situazione, se le vivono nell’interazione comunicativa ed emotiva (metodo dell’immersione); ci si avvarrà perciò dell’attenzione congiunta allo sguardo  e della loro capacità di associazione,  in modo che  riescano  ad abbinare con facilità parole ed espressioni a suoni e ad immagini,  così come  personaggi e  storie a   descrizioni  mimate. L’ approccio ludico  sarà associato a  strumenti audiovisivi al fine di creare e stimolare adeguate inter-azioni, a partire dagli asili nido, secondo una tempistica che preveda preferibilmente  una cadenza giornaliera di almeno trenta minuti nelle attività didattiche  della seconda lingua.

L’età ottimale, a  causa dell’elevato grado di plasticità cerebrale, è perciò quella che va  da 0 a 3 anni,  anche prima di cominciare a parlare. In tale periodo, l’acquisizione  della lingua materna –  secondo gli studi specifici – è regolata, in modo non consapevole,  dai sistemi della  cosiddetta  memoria implicita per ciò che attiene alla fonologia, alla  morfologia e al lessico, e a quella  esplicita per quanto riguarda l’aspetto semantico e il significato delle parole. Successivamente si svilupperanno  altri tipi di  memoria, come quella relativa alle conoscenze che possono essere descritte verbalmente (dichiarativa),  o  quella del ricordo di esperienze del passato (episodica). Prima dei 6 anni è infatti difficile appropriarsi efficacemente di informazioni esplicite. 

Dai tre anni al periodo critico

Dopo gli anni dell’asilo nido e quelli della scuola dell’infanzia, le risorse cognitive del bilinguismo simultaneo e precoce diventano più lente e più deboli,  in quanto  l’agilità e la ricettività linguistica dei bambini tende a ridursi nel tempo; tra  sei e  otto anni termina infatti il cosiddetto periodo critico e minore risulta  la  rappresentazione della seconda lingua  nei sistemi della memoria procedurale .

 E’ ciò che  hanno potuto recentemente verificare gli esperti attraverso un confronto diacronico in ambedue le lingue tra parole di classe chiusa (gli elementi grammaticali) e parole di classe aperta ( gli elementi semantici), utilizzando  una tecnica derivata dall’ elettroencelografia (ERPS). 

Gli studi e le  ricerche hanno quindi  messo in evidenza i vantaggi di carattere neurobiologico e  neurolinguistico nell’apprendimento della seconda lingua entro i sei-otto anni, e non dopo gli undici. Un’età, quest’ultima, per lungo tempo ritenuta didatticamente  più opportuna, secondo una tradizionale  concezione  che privilegiava l’insegnamento della seconda lingua dopo lo sviluppo completo della prima.  

 È ormai assodato che l’insegnamento scolastico formale, soprattutto  dopo la pubertà , e dall’adolescenza in poi,  procede secondo ritmi di apprendimento meno incisivi e produttivi rispetto a quelli dell’  infanzia, proprio il contrario di quanto si pensava nel secolo scorso, quando radicati erano i pregiudizi sul bilinguismo precoce e  infantile.

Contro l’educazione bilingue precoce (uno sguardo al passato)

Nei primi decenni del Novecento, l’apprendimento precoce di una seconda lingua  era  considerato, da parte di  alcuni insegnanti e pedagogisti , con preoccupazione e riserva, a causa della confusione mentale e dei conflitti interiori che ne potevano derivare; proseguendo su questa linea pedagogica, si è giunti a sostenere che la  situazione dei bambini bilingui potesse essere così problematica da sfociare in disturbi psichici.
In quel periodo, sulla base di un approccio di tipo grammaticale alle lingue, il linguista   danese  Jespersen sottolineava – tra l’altro – la difficoltà di raggiungere livelli di conoscenza completa e approfondita (implicita ed esplicita) da parte   di bambini bilingui, ritenendo inoltre che l’educazione al bilinguismo finisse col  sottrarre risorse e spazio di apprendimento  alle altre materie scolastiche.
Partendo  dal  presupposto che il bilinguismo precoce provocasse un rallentamento dello sviluppo cognitivo, tra gli anni trenta e  sessanta del secolo scorso, si sono poi susseguiti vari studi di comparazione tra bambini bilingui e monolingui, attraverso la somministrazione di test specifici, con l’obiettivo di  confrontarne i risultati nella lingua nativa ( L1) ed in quella non nativa ( L2 ).

La somministrazione dei test

Nelle verifiche delle competenze linguistiche di alunni bilingui si sono  per molto tempo sottolineate le  difficoltà  espressive, nonché la presenza di errori morfo-sintattici e  lessicali,  al punto  che si era pensato   fosse meglio  somministrare le prove  in  una sola  lingua, anziché in due; si è però dovuto constatare  in seguito che   tale scelta  non assicurava esiti apprezzabili.

Come è stato  messo in risalto negli studi successivi, la problematica era stata affrontata infatti secondo  una  metodologia errata, a causa della mancata rilevazione  di fattori individuali e  sociali non adeguatamente tenuti in considerazione, quali l’età, il sesso, le condizioni socio-economiche. Occorreva invece  dare il giusto peso  a variabili dipendenti dalla provenienza familiare,  come il disagio del   bambino immigrato bilingue rispetto a   quello monolingue di famiglia benestante. Dal punto di vista socio-linguistico, diversa era inoltre la situazione di  bambini provenienti da minoranze linguistiche, il cui apprendimento della seconda lingua spesso poteva risultare  ostile e,  per certi aspetti, imposto  “forzatamente”.

Era stata perciò trascurata l’importanza della  predisposizione del soggetto bilingue preso in esame, della  motivazione personale e del suo atteggiamento verso la seconda  lingua.

Non mancavano ulteriori incongruenze ed errori metodologici, appurato che  non si teneva in giusto conto l’influenza della lingua nella quale veniva effettuato il test. Certamente decisivo risultava poi il fatto che la valutazione fosse effettuata nell’unica lingua conosciuta dal somministratore dei test, e non in quella materna del bambino, con conseguente sottostima delle sue abilità intellettive. Il problema era quindi  nella formazione monolingue dei somministratori, non dei bambini: occorreva  un cambiamento di prospettiva.

E’ ciò che avviene a partire dagli anni settanta, grazie  agli studi del  ricercatore canadese  W. Lambert , tra i primi  a sostenere i benefici dell’educazione bilingue (inglese-francese), sia a livello verbale che non verbale; cominciano ad essere tenuti così nella giusta considerazione  le caratteristiche individuali e i  condizionamenti socio-economici. Proprio sotto la sua  guida, in seguito alle ricerche condotte dal gruppo di psicologi  dell’Università di Montreal, vengono  confermati risultati analoghi tra bambini monolingui e bilingui in tutte le  materie scolastiche.

 In questa direzione sono orientate  anche le ricerche  linguistiche,  pubblicate in quegli anni da  R. Titone e G. Francescato,  grazie alle quali vengono evidenziati i vantaggi cognitivi ed educativi dell’apprendimento di due lingue, un percorso certamente  facilitato in età precoce, fino ai dieci anni. Sulla base di tali studi, un aspetto fondamentale  sul quale, da più parti,  gli esperti hanno richiamato l’attenzione, rimaneva quello   della formazione  degli insegnanti; la loro prassi didattica  risultava infatti critica e  problematica nel momento in cui  si dava priorità ad una sola lingua. Non si tenevano presenti le peculiarità cognitive del soggetto bilingue che  si destreggia tra  due codici linguistici fusi insieme e non sommati, considerato   che il bambino bilingue non è mai la somma di due monolingui in una sola testa, come  afferma  F. Grosjean.

Se  in passato si affermava che la seconda lingua dovesse seguire il completamento della prima ( dopo gli 11 anni), è stato perciò chiarito che a quella età il bambino ha già superato la soglia del cosiddetto periodo critico o di maggiore sensibilità alle lingue  e perciò di facilitazione  del loro apprendimento.

Le risorse psico-cognitive dei soggetti bilingui

Superati  i pregiudizi e le falsità  del secolo scorso, in ambito neuroscientifico è ormai accertato che non ci sono differenze sostanziali  tra soggetti  monolingui e bilingui: proprio in questi ultimi, al contrario di quanto si era sostenuto in passato, secondo alcuni studi, aumenta la capacità della funzione esecutiva (pianificazione e controllo del sistema cognitivo); maggiore è inoltre la capacità di  attenzione e quella  di eseguire contemporaneamente compiti diversi (multitasking). Vengono  così a cadere falsi miti, essendo stati riscontrati risultati di pari livello sia  nelle due lingue prese a confronto, sia nelle conoscenze delle  diverse  materie scolastiche, il cui apprendimento, nei casi esaminati, si è rivelato completo e del tutto soddisfacente.

Significativa, a questo proposito, l’esperienza del neurochirurgo W. Penfield, il quale ebbe l’opportunità di confrontare i propri risultati nell’apprendimento delle lingue straniere con quelli dei suoi figli, verificando così i vantaggi cognitivi dovuti alla loro precoce  età.

Procedendo su questa impostazione metodologica, nella letteratura sull’argomento vengono ulteriormente sottolineate e specificate  le risorse psico-cognitive dei soggetti bilingui, come la maggiore flessibilità mentale nel distinguere tra somiglianze fonetiche e somiglianze semantiche o la competenza nell’affrontare il problem solving e la riorganizzazione delle informazioni.

 Alla  iniziale  e temporanea povertà lessicale dei bambini bilingui durante i primi anni, dovuta al loro sforzo nella selezione delle parole, segue perciò  un crescente  arricchimento linguistico e mentale.

Passare da un codice linguistico all’altro implica situazioni non unilaterali, ma divergenti: porta infatti ad una pluralità di stimoli, utili ad  affrontare e gestire  situazioni  di “trasferimento” o di “spostamento” da un compito all’altro, nella consapevolezza dell’arbitrarietà del sistema-lingua. Basterebbe  tener presente che ogni scelta  lessicale comporta una selezione, nonché l’inibizione della componente da escludere, un’opzione  con effetti intellettivi  di crescente sviluppo cognitivo fin dalla prima infanzia. Ai  vantaggi neurologici dell’apprendimento precoce, e a quelli  formativi, di sostegno  all’apertura mentale e alla diversità culturale, non si può fare a meno di aggiungere quelli pragmatici, che assicurano certamente  più chances  nel mondo del lavoro.

Ma c’è di più, secondo ricerche recenti (2006), l’iter della bilinguità o del plurilinguismo, che potremmo definire “a due o più corsie”, comporta anche dei vantaggi durante la terza età. Grazie alla “riserva cognitiva” e all’allenamento mentale accumulato nel tempo,  si è constatato un ritardo delle  malattie cognitive senili, una prevenzione  della demenza, del decadimento e dell’atrofizzarsi delle strutture cerebrali. Si tratta perciò di una competenza che, come afferma il neuroscienziato F. Fabbro, nel tempo diventa un “valido strumento per mantenere allenato e giovane il cervello, a conferma  che i benefici di una seconda lingua non hanno scadenza”.

Fonti bibliografiche

F .Fabbro Neuropedagogia delle lingue. Come insegnare le lingue ai bambini, Astrolabio,2004

F. Fabbro, Il cervello bilingue. Neurolinguistica e poliglossia, Astrolabio,1996

F. Fabbro, E. Cargnelutti, Neuroscienze del bilinguismo. Il farsi e disfarsi delle lingue, Astrolabio, 2018

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