Lettera di un docente di ruolo, gay. Che non tace
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
di Dario Accolla
I passi che fai dall’aula fino in presidenza arrivi a contarli. Ne senti il suono, si confonde con quello del battito del cuore. La prima volta, ne hai paura. La seconda, ti chiedi se non sia un’ingiustizia. Alla terza alzi la voce. E chiami un avvocato. O almeno, così a me è capitato. Sto parlando di tutte le volte che sono stato convocato dal dirigente scolastico per fornire chiarimenti non tanto sulla mia condotta in aula, ma sul fatto che in quella classe a parlare c’è un insegnante omosessuale.
L’omosessualità in sé non è un problema, nel momento in cui è taciuta. Diventa un problema nel momento in cui è visibile. Don’t ask, don’t tell si diceva un tempo negli Usa di Bill Clinton. E l’omosessualità può essere visibile in molti modi: ti basta esistere e non nascondere chi sei, andando ai pride, ad esempio. Basta una foto sui social, studenti che ti “spiano” sul web e il gioco è fatto. Ma non solo: basta parlare di tematiche specifiche, in aula. O rispondere a domande sulle sessualità “divergenti” che ti vengono poste dai ragazzi e dalle ragazze a cui stai insegnando storia, geografia o letteratura.
A me è successo di essere convocato in presidenza per tutte e tre le ragioni.
Una volta una madre, guardando il mio profilo su Facebook, non riusciva a tollerare il fatto che la mia identità fosse lì, ben evidente davanti agli occhi di chiunque. Le parole che usò, in una lettera al dirigente, scomodarono la mia presunta mancanza di serietà e di autorevolezza, al cospetto delle “buffonate” di cui ero colpevole. Dove per buffonate intendeva, con ogni probabilità, le immagini dei pride a cui ho partecipato.
Un’altra volta è successo perché, in occasione della Giornata contro l’omo-bi-lesbo-transfobia feci vedere un video in aula in cui si parlava di combattere il bullismo contro le persone Lgbt+. Mi sembrava un bel messaggio. Eppure, qualche genitore non gradì. La dirigente di allora mi disse che sarebbe stato il caso di chiedere l’autorizzazione alle famiglie. Risposi che mai avrei immaginato una richiesta del genere. Per il Giorno della memoria e per l’8 marzo avevo condotto la lezione esattamente nello stesso modo – stavo facendo un percorso di educazione civica sui diritti umani – e non mi ero di certo sognato di chiedere a qualche genitore se avesse problemi con il ricordo della Shoah o con i diritti delle donne. La questione si chiuse lì, ma per diverse settimane andai a lavorare con una certa inquietudine.
L’ultima volta accadde perché un ragazzo, in prima media, mi domandò come mai Achille avesse fatto il diavolo a quattro per la morte di Patroclo. Spiegai che probabilmente i due erano amanti. E spiegai, in modo molto generico, come funzionavano le cose nell’antica Grecia. Cinque minuti in tutto. Stesso copione di sempre. Convocato d’urgenza in presidenza, per avere chiaro il quadro. Dopo l’ennesima lamentela di una madre che non riusciva ad accettare il fatto che ai tempi degli Achei gli uomini avevano storie d’amore con altri uomini.
In quest’ultimo caso mi sono rivolto a un avvocato. Perché la motivazione ufficiale è apparentemente innocua: genitori che non capiscono e un dirigente che vuole avere chiaro il quadro. “Per difenderti”, mica per altro. Ma di fatto quelle convocazioni sono piccoli processi alle intenzioni. E sul banco degli imputati ci sei tu. Con la tua identità. Perché non è tanto ciò che dici, ma chi lo dice che fa la differenza. Se un insegnante dichiaratamente gay fa affermazioni sull’omosessualità, scatta subito la paura di un processo di omosessualizzazione forzata a danno delle giovani generazioni. Per capire l’assurdità della cosa: è come se ogni volta che un/a docente ambientalista, parlando di ecologia, volesse imporre ai suoi allievi di trasformarsi in panda.
Sul banco degli imputati non c’è (solo) la tua capacità di fare il tuo lavoro, di essere un professionista sottopagato per un ente – la scuola pubblica – che ti chiede formazione continua, laurea col massimo dei voti, master, dottorato, corsi di specializzazione e (se fosse possibile) la moltiplicazione dei pani e dei pesci. C’è proprio la tua identità. Chi sei. Come se si chiedesse a un ebreo di rendere conto della sua fede. O a un nero del colore della pelle. Solo che ormai l’antisemitismo e il razzismo sono concetti sdoganati. Per cui sebbene la nostra società continui a essere antisemita e razzista, nessun dirigente si sognerebbe di convocare un ebreo o un nero in virtù del loro essere tali. Per chi è omosessuale e docente al tempo stesso, invece, è ciò che succede.
Eppure il quadro normativo è chiaro. Nell’articolo 33 della Costituzione si legge: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». Il comma 16 dell’articolo 1 della Legge 107 del 2015 (già definita con molta enfasi creativa “buona scuola”) recita: «Il piano triennale dell’offerta formativa assicura l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni…». Diverse risoluzioni del Parlamento Europeo, a partire da quella del 18 gennaio del 2006, sollecitano gli Stati membri a intensificare la lotta contro l’omo-bi-lesbo-transfobia tramite un’azione pedagogica da condurre nelle scuole e nelle università.
In questo quadro, convocare un insegnante di fronte al dirigente per ottenere spiegazioni sulla sua vita privata e pubblica al di fuori della scuola per ragioni inerenti al suo orientamento sessuale si configura come gravemente lesivo della privacy. E come una forma di intollerabile intromissione e discriminazione: un insegnante eterosessuale non riceverebbe lo stesso trattamento, a parti invertite. Intervenire sui contenuti didattici pienamente previsti dal quadro normativo, invece, è lesivo della libertà di insegnamento.
La scuola, a partire dalle dirigenze, dovrebbe invece contenere le richieste di certe famiglie che non vanno nell’interesse della popolazione studentesca, ma sembrano voler cavalcare pregiudizi atavici contro le persone Lgbt+. E quindi la scuola, insieme a presidi e figure apicali, deve capire da che parte stare. Se dalla parte di un percorso di inclusione e di rispetto delle differenze o dalla parte di chi vuol mantenere squilibri e discriminazioni a danno delle minoranze.
*Docente della Scuola Svizzera di Catania, attivista Lgbt+