di Antonio Santoro
Gli impegni promozionali di una adeguata alfabetizzazione culturale e di accoglienza dell’alterità, nella società plurale di oggi, sono, rispettivamente, compiti di istruzione e di educazione che sempre più vengono richiesti alle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado.
Con il passare degli anni, sono viepiù numerosi i bambini e i ragazzi con cittadinanza straniera che frequentano le scuole italiane: figli di immigrati, che realizzano i loro percorsi di educazione e di istruzione nel nostro sistema formativo, e che rappresentano ormai – si sottolinea, in termini significativi – “il futuro delle nostre società, afflitte dall’invecchiamento demografico” (1).
Sono, soprattutto, stranieri di seconda generazione quelli che frequentano le nostre istituzioni scolastiche, con la consapevolezza e con la speranza, al tempo stesso, che l’istruzione costituisca la via maestra per la loro piena integrazione nei nuovi contesti di vita: per questo sono già in gran parte presenti nelle realtà istituzionali della scuola dell’infanzia, le cui attività – com’è noto – promuovono e favoriscono i processi di socializzazione e di apprendimento, anche al fine di attenuare le diseguaglianze di partenza.
Ciò nonostante, in Italia, come pure negli altri Paesi europei, “in media gli studenti di origine immigrata registrano (ancora, per varie ragioni) outcome peggiori rispetto ai compagni autoctoni, innanzitutto in termini di livelli di apprendimento e di competenze acquisite” (2). Esiti che, nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, mostrano via via distanze di preoccupante rilievo, che portano a sollecitare “la ricerca di soluzioni più efficaci sia in ambito didattico che in quello organizzativo” e a chiedere inoltre, sul versante degli impianti curricolari, un orientamento di tutti i “saperi organizzati” nella direzione di maggiori aperture verso l’alterità (3).
L’urgenza che si presenta è, ancora una volta, sostanzialmente quella di un impegno di educazione e di istruzione capace di non “perpetuare le differenze creando nuove marginalità culturali e sociali”, di certo possibile quando sia sostenuto – precisa poi Antonio Bellingreri, richiamando le conclusioni di una ricerca empirica del 2009 sulla condizione dei giovani immigrati nel nostro Paese – dal convincimento che il capitale umano rappresentato dalle nuove generazioni di immigrati, se adeguatamente accolto e valorizzato, può, assieme alla “grande mole […] di capitale sociale, di reti interpersonali e di sistemi valoriali, […] formare una ricchezza per il futuro dell’Italia” (4).
Per quanto riguarda l’impegno di istruzione a favore degli alunni stranieri, credo che si debba considerare ed accogliere integralmente, anche per loro, e non solo nella scuola dell’obbligo, il “concetto profondo dell’alfabetizzazione come accompagnamento, sostegno ad entrare in un mondo e in una cultura che inventa continuamente nuovi alfabeti”, elaborato da Cesare Scurati. Secondo il quale, “Alfabetizzare […] vuol dire accompagnare (tutti gli allievi) all’ingresso nei territori e nei percorsi della cultura, togliere da una condizione di minorità, di insicurezza e di timore […]. Alfabetizzare vuol dire, allora, introdurre il nuovo viaggiatore lungo la scala del conoscere, del sapere, del comprendere, dell’apprezzare e del vivere, in un universo inizialmente sconosciuto che viene via via perdendo ogni senso di minaccia” (5). E guidarlo, quindi, a realizzare un percorso che via via lo porti ad <imparare a servirsi con perizia della propria intelligenza> e alla conquista <di un’educazione alla “comprensione” in tutte le varie forme e nei vari stili possibili alla mente> (6).
All’interno della prospettiva educativa della scuola, è la diffusa realtà della sezione o classe plurale, caratterizzata da una presenza di alunni stranieri che talvolta supera il previsto limite del trenta per cento, a porre, direi naturalmente, l’esigenza di una formazione, sempre di tutti, ad una nuova cittadinanza: esigenza che, comprensibilmente, deriva dalle necessità dello stare insieme, da “una coabitazione – scrive Milena Santerini – che non può percorrere altra strada se non quella del dialogo” (7).
L’obiettivo, ineludibile in questo tempo di processi migratori, è dunque quello di una formazione che abitui ad andare oltre una condizione di semplice contiguità: in sintesi, “a vivere insieme attraverso le differenze, considerate nella loro dinamicità e storicità”, e “a mettere in comunicazione e in relazione mondi culturali diversi” (8). E’ un obiettivo che nella scuola si promuove e si persegue attraverso <la dimensione esperienziale e di “prossimità”>: in particolare nella classe (o sezione di scuola dell’infanzia), <luogo di scambi (continui) che mobilizza acquisizioni cognitive, luogo esperienziale nel quale la persona vive, agisce e sperimenta le sue relazioni sociali> (9).
Ed è, ancora e infine, un obiettivo che, insieme a quello, specifico, di alfabetizzazione culturale, può dare forma e sostanza all’idea della scuola come comunità professionale che “parla i linguaggi della collaborazione creativa, della condivisione responsabile, della reciprocità intellettuale e dell’aiuto leale nel perseguimento di compiti comuni” di educazione e di istruzione (10).
Note
1. Camilla Borgna, Stranieri sui banchi, il Mulino, n.3/21, p. 170;
2. ivi, p. 172;
3. cfr. A. Santoro, Prospettive di educazione interculturale, Scuola e Amministrazione, Gennaio 2014, pp. 14-16;
4. A. Bellingreri, La crescita educativa delle nuove generazioni nell’incontro tra le culture, in AA.VV., L’educazione tra identità e alterità, Pedagogia e Vita, Annuario 2011, pp. 29-30;
5. C. Scurati, Realtà umana e cultura formativa, La Scuola, Brescia 1999, pp. 253-254;
6. cfr. C. Scurati, La scuola come luogo istituzionale di conoscenza e di dialogo, in AA.VV., L’educazione tra identità e alterità, cit., p. 83;
7. M. Santerini, La formazione ad una nuova cittadinanza, in AA.VV., L’educazione tra identità e alterità, cit., p. 110;
8. ivi, pp. 110-111;
9. ivi, pp. 111-112;
10. C. Scurati, La scuola come luogo istituzionale di conoscenza e di dialogo, cit, pp. 73-74.