di Antonio Errico
D’estate si ha l’impressione che il tempo sia lungo, che si dilati, che sconfini da se stesso. Albeggia presto, scurisce tardi.
Si pensa che si possa fare quello che nelle altre stagioni non si riesce a fare, che si possa dare tregua alla fretta, rallentare il passo, mettersi a leggere le pagine dei giornali strappate e conservate quando è stato autunno, inverno, primavera, e c’è pure una pila di libri che aspettano. Si pensa di potersi concedere addirittura il privilegio di rileggere quel libro attraversato anni fa e che si vorrebbe riattraversare per ritrovare i luoghi, i personaggi, per rientrare negli intrecci.
Probabilmente, l’estate è così: l’estate è così fino ai vent’anni. Poi comincia la giostra che non rallenta in nessuna stagione, ed è giusto, anche bello, che la giostra non rallenti, e allora si legge sempre con frenesia, mordendo le pagine appena si può, con il rammarico per quello che non si riesce a leggere. Si legge veramente fino a vent’anni. Poi basta
Se avessi non più di vent’anni, leggerei Horcynus Orca: lo leggerei tutto, fino in fondo, per sentire lo scivolìo rabbioso della barca e il singultare degli sbarbatelli, il loro respiro rotto e il dolidoli, lo leggerei fino all’ultima riga, lo leggerei fino ad arrivare “dentro, più dentro, dove il mare è mare”. Forse ci metterei un mese, forse anche di più. Per scriverlo, Stefano D’Arrigo ci ha messo vent’anni: una stesura nella seconda metà degli anni Cinquanta, un lavorio stremante di correzioni e varianti per tutti gli anni Sessanta, la pubblicazione nella metà degli anni Settanta.
Se avessi vent’anni, nell’estate che arriva leggerei Vincenzo Consolo, Il sorriso dell’ignoto marinaio, Retablo, Nottetempo casa per casa. Mi disse una sera, a Lecce, che le parole erano la sua felicità e la sua disperazione. C’erano volte in cui per una parola si dannava per settimane intere, perché doveva essere esattamente quella e non un’altra, non poteva essere un’altra, perché il pensiero, il suono, il ritmo pretendevano quella parola, insostituibile, assoluta. Consolo ha sempre avuto pochi lettori, eppure è tra i più grandi scrittori che il Novecento ha generato.
Se avessi vent’anni, o giù di lì, e avessi finito la maturità, certo me ne andrei mattina e sera al mare, e poi me ne andrei anche a ballare, ma Cent’anni di solitudine lo leggerei, comunque.
Poi leggerei l‘Antologia di Spoon River, tutte le poesie una per una, tutto quel catalogo dei destini umani. Leggerei un po’ di Proust (che tutto in una sola estate non si può), un po’ di Virginia Woolf, un po’ di Joyce (non l’Ulisse, però, i Dubliners), tutte le poesie di Giorgio Caproni, I quaderni di Malte L. Brigge di Rainer Maria Rilke, Il giovane Holden di Salinger, non fosse altro che per imparare che non bisogna raccontare mai niente a nessuno perché va a finire che si sente la mancanza di tutti.
Leggerei Peter Hoeg, se avessi vent’anni: Il senso di Smilla per la neve, certamente; ma soprattutto leggerei I quasi adatti. Poi lo rileggerei.
Se avessi vent’anni, o trenta, o quaranta, se ne avessi più di questi o anche meno, leggerei Mister Butterfly di Howard Buten.
È la storia di Hoover Sears, clown inventore del naso con bip-bip incorporato, ridotto alla miseria dall’avvento dei videogiochi.
Durante uno spettacolo nel reparto dei malati di mente all’Ospedale dei bambini, viene a sapere che lo Stato offre settecentocinquanta dollari al mese a chi adotta uno di quei bambini. Fa i conti. Ne prende quattro: Mickey, undici anni, schizofrenico, con una competenza linguistica che si esprime nella pronuncia di una sola parola: “crepa”; Ralph, sindrome di Down, disintegrazione della personalità; Harold, dodici anni: suo padre lo legava al letto e lo picchiava con i tubi di gomma; Tina, nata con le gambe al contrario, abbandonata dai genitori, adottata da due alcolizzati.
Hoover ha un obiettivo preciso, che consiste nella ricerca di elementi che consentano la dimostrazione di un principio sintetizzabile in una frase: solo il cuore segreto sopravvive.
Il clown, che conosce l’arte e l’artificio della trasformazione, sa che per raggiungere questo obiettivo risulta indispensabile l’applicazione del metodo dell’essere l’altro: penetrare nella sua esistenza, assorbire la sua storia, la sua memoria, il suo pensiero, avvertire lo stesso tremore, l’estraniamento, il desiderio, baciare la scarpe di Ralph sporche di cacca, respirare con lo stesso ritmo del respiro di Harold, scendere, sprofondare fino al senso del loro patire, fino a raggiungere il cuore segreto che sopravvive.
Se avessi vent’anni, leggerei Tex Willer per tutto il pomeriggio. Tex è fondamentale per comprendere la solitudine dell’eroe moderno. Perché Tex è solo. Nonostante i suoi pards, Kit Carson, Kit Willer – il figlio di Tex e di Lilyth -, Tiger Jack, guerriero Navajo e fratello di sangue, Tex è solo. Nella notte, vicino al fuoco del bivacco, la sua solitudine ha l’aridità del paesaggio, la sconfinata tristezza della prateria.
Se avessi vent’anni, adesso che viene l’ estate leggerei questo e altro ancora.
Ma, come cantava Juliette Gréco, non Monsieur, je n’ai pas vingt ans, come credo molti dei gentili lettori che hanno appena finito di leggere questo articolo.