• giovedì , 21 Novembre 2024

F R A M E. In scena il vuoto esistenziale dei dipinti di Hopper

di Vincenzo Sardelli; foto di Alessandro Serra

 

F R A M E

Uno spettacolo di Koreja
Progetto e ideazione Alessandro Serra
Con Francesco Cortese, Riccardo Lanzarone, Maria Rosaria Ponzetta,
Emanuela Pisicchio, Giuseppe Semeraro
Regia, scene, costumi e luci Alessandro Serra
Realizzazione scene Mario Daniele
Collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini
Tecnici Mario DanieleAlessandro Cardinale
Organizzazione e tournée Laura ScorranoGeorgia Tramacere
Co-produzione Compagnia Teatropersona

Un ringraziamento a Anna Chiara Ingrosso

Durata: 1h

 

Info: Cantieri Teatrali Koreja
via Guido Dorso 70, Lecce • Italia
tel./fax: +39.0832.242000 • 244013
mail: info@teatrokoreja.it

 

Età: dai 18 anni. Preferibilmente Licei e Istituti d’Arte.

 

 

Abstract

«Di Hopper non mi interessano le indubbie qualità pittoriche, quanto piuttosto la capacità di imprimere sulla tela l’esperienza interiore»: il regista Alessandro Serra porta in scena la poetica di Edward Hopper, pittore americano che stigmatizza il consumismo sfrenato, l’alienazione sociale, con opere nelle quali prevale il senso d’inquietudine. Inquietudine sempre presente anche sulla scena di F R A M E, performance particolarissima in cui sono protagonisti i suoni della città, le luci fredde, l’assenza del senso di comunità: il trionfo dell’incomunicabilità.

 

Il volto angosciato della borghesia media. Interni rarefatti, avvolti in una luce metafisica, oppure  cupi paesaggi senza vita.

Astratto nella forma, concreto e attuale nella sostanza, F R A M E è il lavoro che il regista Alessandro Serra (premio Ubu Miglior Spettacolo 2017 con Macbettu) ha portato in scena al Teatro Fontana di Milano. Al centro, la poetica del pittore americano Edward Hopper (1882-1967). Il titolo, con gli spazi tra le lettere, indica la frammentarietà umana ed esistenziale dei quadri di Hopper, l’insieme dei rapidi fotogrammi che costituiscono questa messinscena particolarissima, performativa, senza che sul palco sia pronunciata una sola parola. F R A M E indica il dissolvimento della comunità e dell’io. Simboleggia il disfacimento stesso della personalità.

 

Hopper, a oltre mezzo secolo dalla morte, è ancora attuale. L’alienazione occidentale, il grigiore dei nostri giorni iconoclasti, privi di fede e ideologia, più pericolosi di quelli che angustiarono gli Stati Uniti sull’onda lunga della Depressione.

Lo smarrimento dell’America di Hopper è plateale. Trova spiegazione nei drammi che attraversarono l’Occidente, dal crollo di Wall Street all’ascesa dei totalitarismi, fino alla deflagrazione bellica e alla Guerra Fredda. Seguirono i fermenti giovanili che avrebbero condotto al Sessantotto, la società liquida, la dittatura del relativismo. Il postmodernismo segna la crisi delle grandi narrazioni che tentano di sovrapporre al mondo un modello d’ordine. Si moltiplicano le pulsioni nichilistiche.

Adesso, con la crisi del concetto di comunità, emerge un individualismo sfrenato, connotato da razzismo e xenofobia. Questo “soggettivismo” mina le basi della modernità, la rende fragile. Mancando i riferimenti metafisici o spirituali, anche la religione si dissolve in una sorta di liquidità. Smarrita anche la certezza del diritto (la magistratura è vista come nemica anche dalle Istituzioni), la soluzione più ovvia per l’individuo è apparire, e il consumismo diventa un valore. Questo consumismo non mira al possesso di oggetti di desiderio di cui appagarsi, ma li rende subito obsoleti. Si passa da un consumo all’altro, in una sorta di bulimia materiale, senza scopi elevati.

 

Hopper stigmatizza questi vizi della società. Prefigura le derive che stiamo attraversando. In F R A M E, regia di Alessandro Serra, coproduzione di Teatropersona e Cantieri Teatrali Koreja, lo sconcerto metafisico e le atmosfere dilatate si traducono in un teatro muto come tela bianca. La scena e il palco sono una sorta di scatola grigia, geometrie sghembe senza colore né tempo. Sullo sfondo un rettangolo, tela argentea dalla cornice marmorea, taglio che diventa schermo nero come lavagna.

Dentro, dietro, si muovono figure disarticolate. Sono sole. A volte diventano folla d’individui, monadi che paiono rincorrersi. Non basta il numero di queste presenze metafisiche a dare il senso di un’umanità coesa. Prevale l’incomunicabilità

 

Sfilano i suoni della città: rumori, stridori, rombi di motori di auto e moto, spire di fumo. Nel traffico metropolitano tutti scappano da qualcosa, vagano, fuggono verso il niente. In un angolo nascosto si apre uno squarcio verticale. Nel freddo dilagante, le luci tentano invano di creare bagliori d’umanità. Esorcizzare la solitudine pare impossibile.

Cortili silenziosi. Ombre senza cielo. Compagnie in affanno. Relazioni bruciate. Vite dimezzate. L’armonia è una chimera. Suoni nevrotici. Un ombrello aperto, e nessuna pioggia da cui proteggersi. Abiti borghesi. Una suora senza Cristo. Uomini senza volto. Esistenze sciatte. Identità anonime. Il grigio è dentro, è fuori. Ognuno attende qualcosa, cerca qualcuno. C’è una coppia con un letto, ma non è amore, neppure alcova.

 

Francesco Cortese, Riccardo Lanzarone, Maria Rosaria Ponzetta, Emanuela Pisicchio e Giuseppe Semeraro interpretano un’umanità senza nerbo. Sono grovigli di corpi accasciati, creature svuotate, fremiti epilettici. Si entra, si esce, in uno spazio che è luogo di creatività inerte, passiva, sterile.

È arte o è vita? Un raffinato gioco di luci confonde queste dimensioni. Luci algide: anche le rare volte che diventano soffuse, non creano intimità.

La musica dilata una dimensione spazialista. È una continua, totale integrazione cinetica di materia, colore e suono nello spazio. C’è il tratto nevrotico di una penna, a vergare un foglio bianco. I passi dei personaggi sono rette che non s’incontrano all’infinito.

La colonna sonora è un contrappunto originato dall’interazione di echi neoclassici e diffrazioni elettroniche e acustiche. La semplicità e l’enfasi melodica creano una quieta opposizione alle angosce d’interni rarefatti, di paesaggi senza vita. Sono stralci d’anime instabili, sofferte introspezioni sul tempo che passa, luci e ombre di un denso paesaggio interiore. A livello psicologico, le suggestioni visive arrivano a potenziare quelle musicali e viceversa. Questa polimorfa colonna sonora (Olafur Arnolds, Max Richter, Clint Mansell, Tindersticks, Bing Crosby) è una sinestesia strumentale di musica classica rivisitata e rock sperimentale, esteticamente mistico e stordente. Paura e angoscia si rincorrono con il silenzio e la serenità, in un crescendo tanto ossessivo quanto affascinante.

 

Perché lo consigliamo

Entrare nel cuore del Realismo statunitense, in un’America vuota, aliena dal successo patinato e dai lustrini, senza trionfi militari, senza le star di Hollywood.

Quello che resta di F R A M E è l’assenza di ogni prospettiva, che rende questo lavoro assai espressivo della poetica di Hopper. È lo stesso regista Alessandro Serra ad ammetterlo: «Di Hopper non mi interessano le indubbie qualità pittoriche, quanto piuttosto la capacità di imprimere sulla tela l’esperienza interiore. Ricrearla in scena, farla vedere, anche solo per un istante. Nei suoi quadri non vi è alcuna intenzione morale o psicologica, egli semplicemente coglie il quotidiano dei giorni. Opere straordinarie compiute attraverso l’ordinario. Quanto più consuete sono le ambientazioni, abitate da figure semplici, tanto più si rivela la magia del reale»

Vite, dunque, che non riescono a sfrattare l’angoscia. Personaggi che non colmano mai, neppure per errore o di soppiatto, il vuoto dell’anima. Il silenzio non è urlo muto né supplica soffocata, ma iato comunicativo generato dall’impotenza.

 

In questa irresolutezza, in questa trasposizione scenica che riassume la poetica di Hopper senza aggiungere nulla, sfibrandola, c’è il fascino di questo lavoro scenico, ma anche il suo limite. Sta di fatto che F R A M E offre lo spunto per affrontare in classe le costruzioni mentali di un autore poco noto al grande pubblico, che è stato confinato in manuali d’arte contemporanea non sempre accessibili e la cui poetica ha ispirato grandissimi cineasti, come Alfred Hitchcock e Wim Wenders.

 

 

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