L’intervento salace di Rita Bortone, già dirigente scolastica e oggi formatrice esperta di didattica, sul grido d’allarme dei docenti universitari, confuso nel merito e ingenuo nel metodo
Una ventina di anni fa l’Università della mia città mi affidò l’incarico di tenere un corso di “metodo di studio” per le matricole di Scienze della formazione, perché i docenti avevano osservato che non erano in condizioni di comprendere e studiare i testi consigliati per gli esami.
Il discorso del metodo di studio mi aveva sempre appassionata ed era stato a lungo oggetto della mia ricerca didattica, quindi accettai con entusiasmo. Constatai subito però che ciò che avevo programmato non era perseguibile. Gli studenti iscritti infatti (erano tantissimi e insieme alle matricole c’erano diversi studenti dell’ultimo anno, che dovevano fare la tesi ma che non avevano la più pallida idea di come dovessero farla) non erano privi solo di metodo di studio: non erano proprio in condizione di comprendere ciò che leggevano sui manuali, e non perché mancasse loro la terminologia specifica della scienza da studiare, ma perché mancava loro anche il lessico standard e l’abitudine a tenere il filo logico del testo. Mi spaventai. Chiacchierando con i docenti universitari (per nulla stupiti di quanto io riferivo) mi raccontarono assurde barzellette sugli esami e sulle bestialità che agli esami venivano fuori dagli studenti, denunciando la loro totale incomprensione di quanto studiato.
Una decina d’anni fa fui invitata, sempre all’Università, a partecipare ad una tavola rotonda sulla gravità del problema della comprensione in lettura: ad organizzare l’evento, questa volta, era stata la facoltà di Ingegneria che nella somministrazione annuale dei test iniziali alle matricole aveva rilevato non tanto un abbassamento crescente dei livelli di preparazione in matematica, quanto un preoccupante livello di abbassamento della comprensione in lettura di testi a contenuto non scientifico, ma di cultura generale.
Questi ricordi mi vengono in mente mentre leggo l’appello dei 600 docenti universitari, che mi sembra non solo scontato nella segnalazione del problema, ma persino tardivo nel suo grido d’allarme.
Solo ora i 600 professori se ne stanno accorgendo? Non si sono accorti di quanti studenti hanno laureato in questi anni, in condizioni di semianalfabetismo? Non si sono accorti di quanti ricercatori siedono sulle loro stesse cattedre senza sapere essi stessi cosa scrivono e come lo scrivono e perché lo scrivono? Non si sono accorti che tra di loro ci sono ordinari di cattedra che non possono pubblicare senza farsi rivedere i testi da qualcuno che conosca l’italiano? Si sono mai chiesti da quali Università e da quali scuole di specializzazione per insegnanti vengono fuori i docenti della scuola del primo e del secondo ciclo?
La richiesta dei 600 oltre che tardiva (ma in questi casi è comunque vero che non è mai troppo tardi!) presenta due caratteri che meriterebbero una discussione:
1. E’ molto ambigua nella focalizzazione del problema. Qual è la carenza ritenuta più grave, all’interno della complessa competenza linguistica? La correttezza ortografica e grammaticale che “è stata a lungo svalutata sul piano didattico più o meno da tutti i governi”? o la competenza linguistica intesa prioritariamente come competenza comunicativa, capacità di comprensione e di produzione, capacità di agire la propria cittadinanza in maniera funzionale e partecipativa, capacità di comprendere e formulare pensieri? Saper parlare e saper scrivere, per voi 600, è solo un problema di correttezza grammaticale e ortografica o è un problema di sviluppo del pensiero? E cosa chiederete ai Governi in merito alla necessità di recuperare lo sviluppo del pensiero? Chiederete di imporre oltre al dettato ortografico una esercitazione del pensiero al giorno? Troviamo grave anche noi la scorrettezza grammaticale e ortografica dei nostri studenti (e anche quella di tanti nostri professori, in verità!), ma ci riconosciamo anche nella filastrocca di Gianni Rodari e nella storia di quel signore che aveva grossi problemi etici e morali, e questi problemi dipendevano dal fatto che questo signore aveva una coscenza (senza la i) non una coscienza (con la i) e che quindi la mancanza della i non gli consentiva di essere una persona per bene. L’ironia di Rodari non ci consola, ovviamente, ma quanto meno ci impone di riflettere sulla gerarchia dei problemi da proporre alla scuola e ai governi.
2. E’ molto ingenua, la lettera dei 600, nelle strategie di soluzione prospettate.
Rivedere le Indicazioni nazionali?
Le Indicazioni sono molto chiare sia nell’illustrare il complesso contesto culturale e linguistico in cui si realizza oggi l’insegnamento dell’italiano, sia nell’indicare la responsabilità diffusa dell’educazione linguistica tra i diversi docenti, sia nel precisare i dettagli della competenza linguistica stessa, tra cui le diverse abilità e la padronanza ortografica e grammaticale.
Definire a livello nazionale “le più importanti tipologie di esercitazioni”?
Dio mio: in un gemellaggio tra la mia scuola e una scuola straniera, diversi anni fa, appresi che in quel Paese tutte le scuole avevano in adozione lo stesso libro di testo, e gli insegnanti erano tenuti a fermarsi, su ciascun argomento, un numero di lezioni predefinito dal governo, quelle e non meno e non più: era l’Albania comunista, quel Paese…
Introdurre verifiche nazionali periodiche durante gli otto anni del primo ciclo (“dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano”)?
Ok: sarà pronto Invalsi ad attrezzarsi per valutare anche il “dettato ortografico” e la “scrittura in corsivo”? E poi chiederemo anche penalità per gli insegnanti che non abbiano fatto un numero sufficiente di dettati o di esercitazioni di “corsivo”?
Far condividere le verifiche degli apprendimenti ai docenti degli ordini contigui e stimolare “il confronto professionale tra insegnanti dei vari ordini di scuola”?
Forse i 600 professori ignorano che esiste da tempo una cosa che si chiama curricolo verticale e che implicherebbe decisioni didattiche e traguardi di apprendimento condivisi, con annessi strumenti progettuali e valutativi: cosa dovrebbe fare il Governo per ottenere l’attuazione di norme che già esistono?
Cari 600 Professori, bravi a segnalare il problema, ma le cose sono persino più gravi di come le avete segnalate voi! Sono più gravi perché la competenza linguistica non è la sola ad esser carente nella scuola italiana.
A me sembra quanto meno ingenuo pensare che le cose si possano risolvere con la vostra commovente (o irritante?) didattica centralizzata.
Ai Governi vanno fatte sì delle richieste, e forti, ma non sul dettato ortografico:
va richiesto ai Governi di non distrarre le energie degli insegnanti e dei dirigenti verso innovazioni di facciata, verso procedure burocratiche macchinose, verso progettualità finto-democratiche che non consentono tempi di attenzione e riflessione su ciò che è rilevante davvero;
va richiesto ai Governi di eliminare dalla norma le ambiguità in materia di valutazione, che sviliscono le responsabilità di docenti e studenti e non motivano al miglioramento;
va richiesto ai Governi di esigere e controllare che la trasversalità della lingua, enunciata come principio didattico in tutti gli ordini di scuola, trovi le condizioni culturali e metodologiche per poter essere interpretata nella pratica didattica e valutativa di tutti gli insegnanti;
va richiesto ai Governi di incentivare e promuovere la pratica della lettura su carta stampata e della lettura per diletto oltre che della lettura funzionale e digitale;
va richiesto ai Governi di rivedere il sistema della formazione di base e del reclutamento degli insegnanti, in modo da garantire alla scuola Pubblica ed al Paese intero una classe insegnante qualificata, colta, autonoma, capace di progettare i sui interventi in rapporto ai problemi sociali e culturali ravvisati nei contesti e di adottare strategie risolutive efficaci;
va richiesto ai Governi di ampliare il tempo-scuola per costruire le condizioni per interventi didattici realmente differenziati;
va richiesto ai Governi di individuare forme efficaci di valutazione della qualità professionale di docenti e dirigenti;
ma va anche richiesto ai Governi, cari 600 Professori, di individuare forme di selezione, di reclutamento e di valutazione della qualità professionale del docente universitario, della qualità della sua ricerca, della qualità del suo rapporto con la scuola e dei servizi di specializzazione degli insegnanti.
Il problema della dilagante incultura dei giovani italiani è sotto gli occhi di tutti: l’individuazione delle cause e delle responsabilità è articolata e va oltre il dettato ortografico.
Mentre scrivo mi viene segnalato il post della Ministra Fedeli che annuncia, in risposta alla lettera dei 600, una iniziativa ministeriale per tenere viva la memoria e le idee di Tullio De Mauro.
Forse nessuno ha ricordato alla Ministra che non si tratta di tener viva una memoria, dato che il pensiero di De Mauro, in realtà, nella scuola lo conoscono in pochi, e chi sa per quali responsabilità!
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Le responsabilità del primo ciclo
Rita Bortone 26 febbraio 2011
Riporto di seguito stralci di un mio contributo pubblicato da questa rivista nel febbraio del 2011 e intitolato Le responsabilità del primo ciclo
Un perverso scaricabarili
(….) nella mia attività di formazione constato quotidianamente che la drammaticità dipinta dalla Mastrocola relativamente ai licei è nulla se confrontata con quella di diversi istituti tecnici e di molti professionali, nei quali le condizioni di lavoro sono talvolta al limite della gestibilità sia per gli atteggiamenti di dichiarata indifferenza dei ragazzi di fronte a qualsiasi contenuto offerto alla loro riflessione, sia per la loro paurosa carenza di apprendimenti di base, quelli che dovrebbero costituire indispensabili prerequisiti ai piani di studio della secondaria superiore.
Sicché mi è capitato molte volte di chiedere agli insegnanti (della secondaria di 2° grado) come mai non si decidono, soprattutto oggi di fronte alle pressanti e complesse attese del riordino, a far sentire alla scuola media, in maniera stringente, il proprio scontento in merito alla inaccettabilità di ciò che essa “consegna” loro. Ma gli insegnanti preferiscono continuare a piangere piuttosto che affrontare il rischio di inimicarsi le medie del bacino d’utenza e di veder diminuire iscrizioni e cattedre.
Molte scuole medie quindi continuano ad essere all’interno oggetto di gravi accuse e all’esterno oggetto di grandi corteggiamenti. E poiché nessuno le mette alle strette, si possono permettere il lusso di prestare qualche attenzione ai propri risultati medi per confrontarli con gli standard di Invalsi, ma di sorvolare sulla problematizzazione delle effettive condizioni culturali dei tanti alunni che, sia che “vengano orientati” verso i professionali e i tecnici, sia che “autonomamente” scelgano i licei, vanno incontro a sicuri percorsi di insuccesso. L’inefficacia della media dipende ovviamente dalla scuola elementare, che a sua volta consegna allievi con livelli d’istruzione e modalità di comportamento del tutto inadeguati ai successivi percorsi secondari. Ma spesso a nulla valgono gli istituti comprensivi e i cosiddetti curricoli verticali per colmare fratture e divari tra i due ordini del primo ciclo e per raggiungere reali e non cartacee intese sui risultati imprescindibili nelle diverse fasce d’età.
Nella scuola elementare, infine, l’inefficacia è facilmente imputabile a chi sta fuori, cioè alla irresponsabilità delle famiglie, agli squilibrati stili di vita, alla mancanza di valori e modelli proposti ai bambini, alla tv imperante, al permissivismo dilagante, alla sfiducia verso l’istituzione e verso gli insegnanti e così via.
Lo scaricabarili non cambia se l’analisi si muove su un asse orizzontale invece che verticale.
Gli insegnanti lamentano nei dirigenti la incessante pretesa di attività onerose e inutili spesso prive di indirizzo, i dirigenti la inadeguatezza o la irresponsabilità degli insegnanti, entrambi la pretenziosa arroganza delle famiglie. Tutti, in verticale e in orizzontale, lamentano le peggiorate condizioni di lavoro e gli esiti disastrosi delle scelte politiche. Le famiglie intanto hanno imparato a contestare cose che non sanno neanche cosa sono, tipo le scelte metodologiche, o i contenuti proposti, o la gestione della classe, o i criteri valutativi, qualunque cosa pur di tutelare, in nome di presunti equilibri psicologici o di altre simili imbecillità, l’inerzia intellettuale o la scorrettezza comportamentale della propria progenie.
Insomma nella scuola ciascuno piange per colpe di altri che stanno in alto o in basso o accanto a ciascuno di noi. Nessuno però, in tale valle di lacrime, assume posizioni e compie scelte congruenti rispetto alle criticità rilevate, per cui ciascuno critica gli altri nascostamente e inutilmente.
Quelli che criticano sempre meno sono gli studenti, che hanno generalmente capito che non c’è bisogno di contestazioni e critiche per poter fare o non fare a loro piacimento. Tanto alla fine dell’anno, in tutti gli ordini, con o senza consapevolezze sul dettato della norma, della pedagogia, della psicologia, o del comune buon senso, si ammettono all’anno successivo bambini e ragazzi e giovanotti e signorine con tanti 6 attribuiti dai Consigli di classe ma con livelli d’istruzione che, rapportati alle diverse fasce d’età, sono vicini allo zero. Se no le famiglie fanno ricorso, i ragazzi si traumatizzano, i presidi protestano, le iscrizioni diminuiscono, le classi si perdono, i posti scompaiono, il ministro valuta.
Angosce e responsabilità del primo ciclo
Se lo scaricabarili è inaccettabile sul piano etico e pericoloso sul piano pratico per i suoi effetti deresponsabilizzanti, è vero però che tutto ciò che ha a che fare con i processi d’apprendimento non può non trovare le sue ragioni in ciò che è stato costruito “prima”.
(…) Le situazioni di lavoro (nella primaria) sono diventate invivibili: la densità demografica delle classi e il ridotto tempo scuola, la scomparsa delle compresenze e la impossibilità di supplenze, la nuova composizione delle cattedre e la indisponibilità di risorse anche per i materiali di prima necessità, determinano una quotidianità che ostacola, qualora la si cerchi, qualsiasi qualità. La valutazione in decimi perde la maschera del rigore e mostra la sua vera faccia mistificatrice in sede di ammissione all’anno successivo, quando le insufficienze vengono regolarmente truccate perché non sono state colmate né dalle lezioni ordinarie né da quelle pratiche cui viene impropriamente dato il nome di recupero.
Le scuole del primo ciclo però sono molto “attive”: programmano e insegnano dalla mattina alla sera e aggrediscono tutto l’universo educativo, dal disciplinare all’extradisciplinare, dalla scrittura creativa alle lim, dai titoli occhielli e catenacci dei quotidiani alla tutela dell’ambiente o all’ipertesto, dal teatro al cortometraggio… Instancabili, in una permanente gara e in sempre più frequenti reti.
Poi, chi sa perché, quando arrivano alle scuole superiori tanti alunni sembrano disadattati e semianalfabeti, non sanno orientarsi su un testo, non hanno parole né concetti, non sanno ragionare e concentrarsi su nulla, si sgomentano di fronte a un grafico, non hanno logica né tecnica per operare e per studiare, e insomma rivelano in tutta la loro gravità deficit cumulativi che, prodotti nel primo ciclo, non troveranno certo le condizioni per poter essere sanati nel secondo. Per poter essere sanati mai più.
Perché accade tutto questo?
Gli insegnanti: questioni di “educazioni mancate” e di categorie “svantaggiate”
(…) Gli insegnanti vanno dove qualcuno gli dice di andare: compilano moduli per certificare competenze che non hanno sviluppato; insegnano una linguistica testuale che non hanno mai studiato se non sui libri di testo adottati; propinano concetti e tecniche e metalinguaggi a bambini che non hanno l’età per capirli e utilizzarli; e nella elementare la rima e la metafora diventano importanti anche se ancora non si è imparato a leggere e a scrivere e nella media tornano la rima e la metafora anche se ancora non si è imparato a raccogliere ed elaborare dati, e la grammatica e l’ortografia e il verbo e il soggetto perdono spazio senza che se ne avvantaggino la capacità di lettura e di scrittura, e intanto si smarriscono la riflessione e l’elaborazione, il gusto e l’utilità dell’apprendere, mentre crescono la noia e la demotivazione.
E’ chiaro che non tutti gli insegnanti fanno così, ma molti fanno così.
…………………..
E la professionalità degli insegnanti non è forse anch’essa un prodotto culturale cui hanno contribuito e contribuiscono i contesti sociali e le scelte politiche di tanti governi? Non accade forse da decenni che la scuola pubblica veda alzare il tiro delle richieste senza che agli insegnanti, vecchi e nuovi, vengano dati strumenti per soddisfarle?.
Oggi per insegnare occorre padronanza scientifica e metodologica, ma occorre soprattutto una cultura alta. Senza una cultura alta l’insegnante non avrà mai l’autonomia di pensiero e la padronanza strategica che gli consentano di aggredire le complessità in maniera autonoma, personale, flessibile, efficace. Potrà seguire sempre tecnichette e grigliette, potrà obbedire a ministri e dirigenti, ma l’efficacia formativa sta altrove. (…)
Il coraggio di invertire i trend
(…) Oggi il contesto cui adattarsi appare dominato da correnti distruttive che sembrano convergere e trascinare verso un diffuso non senso. Chi, con competenza e responsabilità, voglia dare a questo contesto un contributo di senso, dovrà dunque necessariamente avere la forza e il coraggio di muoversi, concretamente e non ideologicamente, contro-corrente.
Nella scuola di base muoversi contro-corrente significa oggi sostanzialmente due cose: eliminare l’inutile, che costituisce ormai la gran parte delle attività scolastiche, e dedicare il tempo e le energie guadagnate per re-imparare – per quanto è possibile – a costruire apprendimenti di base significativi e stabili.
Diminuire la quantità a vantaggio della qualità
Si fanno troppe cose e si fanno male perché si corre su ciascuna cosa. L’ingorgo di stimoli non sottoposti ad elaborazione è nemico acerrimo dell’apprendimento significativo. Occorre avere il coraggio di fare meno per poter fare meglio. Anche rinunciando a compiacere il ministro, il direttore regionale, il provveditore; anche rinunciando a portare nella propria vetrina articoli più belli delle altre scuole.
La scuola di base deve costruire le basi. Le impalcature senza basi crollano immediatamente, non producono vantaggi se non immediati ed effimeri, non costruiscono niente dentro (in-struere non significa costruire dentro?).
La riflessione della scuola di base va spostata su altro, il tempo dev’essere speso per altro: cosa è apprendimento essenziale e irrinunciabile in ciascuna fascia d’età; cosa è “base” di apprendimenti futuri; come costruire contesti di apprendimento in cui si condividono, si “significano” e si rispettano regole e patti e in cui si incassano profitti cognitivi, emotivi, comportamentali, valoriali; come individualizzare gli stimoli, prevenendo le forbici troppo ampie e concretizzando lo slogan del “non uno di meno”; e quali sono i concetti disciplinari di base, quali le regole basilari dello studio, i basilari comportamenti del vivere civile; come garantire a ciascuno lettura, scrittura, grammatica e ortografia, calcolo, logica, riflessione e memoria, concentrazione e organizzazione del pensiero, tutto ciò che se non è acquisito nei primi anni dell’età scolare è definitivamente perso.
Gli insegnanti, nei corridoi, devono parlare di questo. Il dirigente, in presidenza, deve chiedere di rendicontare su questo. Il confronto tra scuole è ottima cosa, ma va diretto sulla quantità/qualità degli apprendimenti di base prodotti e sui modi per produrli, non sulla quantità e la visibilità delle iniziative. Continuare a piangere su quanto sono cambiati i processi e i comportamenti dei ragazzi è del tutto inutile: certamente sono molto cambiati, ma questo è un dato di fatto partendo dal quale, e non piangendo sul quale, va ri-progettata la scuola.
E’ colpa grave quella di distrarre energie e risorse professionali dell’insegnante (a maggior ragione se i tempi diminuiscono e le condizioni di lavoro diventano più difficili) chiedendo loro attività che sono “altro” rispetto alla costruzione delle basi.
Una formazione e un aggiornamento “di senso” per gli insegnanti
Le attività d’Istituto non possono certo recuperare i guasti prodotti da inadeguate esperienze di studio o di formazione di base.
E tuttavia una pratica sensata di formazione in servizio può contribuire a miglioramenti significativi della qualità della didattica. Altre volte, su questa rivista, abbiamo ragionato sull’ importanza delle attività di formazione e sulle condizioni che la rendono inutile adempimento o fertile strumento di tras-formazione.
Per chi può, e deve, e vuole indirizzare
(…) Le colpe politiche sono gravi e non solo quelle del presente. Ma non meno gravi sono quelle di chi nelle sconsiderate scelte centrali trova la giustificazione per tirarsi fuori, per declinare le responsabilità che gli competono e per non assumere, almeno nel proprio contesto d’intervento, scelte coraggiose che pongano argine al fiume degli errori.
Oggi, all’interno della scuola, c’è ancora qualcuno che vagheggia qualcosa di meglio dell’esistente e che ha voglia di provare a invertire le tendenze? O la corrente è ormai così forte da distruggere la coscienza della realtà, la volontà d’agire, la forza del pensiero?
Gli indirizzi dirigenziali negli Istituti non fanno miracoli, ma fanno molto. E la mancanza d’indirizzo è essa stessa un indirizzo, un abbandono collettivo alla corrente.
italo
Purtroppo nessuno ha il coraggio di ridere di tutti quei cattivi maestri ideologizzati che, con una supponenza senza limiti, hanno stravolto i programmi della scuola italiana in nome di una esterofilia idiota e insensata. Nonostante il disastro, ormai sotto gli occhi di tutti, si continua con gli slogan, i progetti, l’impresa formativa, il compito di realtà (sic!), il recupero degli asini irrecuperabili e chi più ne ha più ne metta. I presidi – pardon! – i dirigenti scolastici, nella maggioranza dei casi non saprebbero dirigere nemmeno il traffico su una strada a senso unico ma costringono i loro insegnanti a rincorrere inutili, estenuanti, vuote, autolesionistiche “novità” che come le falene durano un breve attimo. Così l’appello dei 600 docenti universitari che, inascoltato, risentiremo fra dieci anni.
Lo sviluppo di un paese passa per l'educazione linguistica: contro la lettera dei 600 e la nostalgia di una scuola classista - minima&moralia : minima&moralia
[…] Anche per questo non ha senso l’idea di partire dal problema della “correttezza ortografica e grammaticale” o dalla soluzione del “dettato ortografico” (un ulteriore parere convincente è quello di Rita Bortone). […]